“Mi permetto di chiedere a tutti gli iraniani, in Iran e nel mondo: mettiamo da parte tutti i nostri problemi. La questione più importante è la libertà del nostro paese. E nessuno ci deve dire cosa dobbiamo indossare, quello che bisogna dire, quello che bisogna fare. Allo stesso modo il cinema è una comunità e nessuno ha il diritto di dirci quello che bisogna dire e quello che bisogna fare”. Le parole, pronunciate dal vincitore della Palma d’oro, l’iraniano Jafar Panahi per il suo film It was just an accident, sono state le più forti e le più ascoltate della cerimonia di chiusura della 78a edizione del festival di Cannes.

Finito in carcere nel suo paese in più di un’occasione, privato dell’autorizzazione a fare film per vent’anni, e a uscire dall’Iran per quattordici, questo grande regista, discepolo ed erede di Abbas Kiarostami, ha realizzato un’opera eccezionale, in parte di nascosto.

Clima pesante

Mette in scena il confronto tra ex detenuti politici che ritrovano per caso il loro carceriere, e il dilemma morale provocato da questa situazione. Più dei film precedenti di Panahi è un attacco frontale alla repressione che in Iran è sempre più dura.

Questa Palma d’oro testimonia, oltre alla riuscita del film, un orientamento molto politico del festival, sottolineato dal palmarès con i due premi a O agente secreto _del brasiliano Kleber Mendonça Filho (regia e migliore attore), con quello a _Sirât del franco-spagnolo Oliver Laxe (premio della giuria) e la Caméra d’or per il film d’esordio all’iracheno Hasan Hadi per The president’s cake, su una bambina che prepara una torta di compleanno per Saddam Hussein.

Queste scelte della giuria – che continua a ricordarci come il cinema sia un rifugio, un luogo di scambi di fronte alla violenza globale – non devono stupire. In un mondo fragile e destabilizzato come il nostro, dove i focolai di guerra, il disprezzo dei valori democratici e le tentazioni di cedere all’ordine totalitario sono in costante espansione, sarebbe stato strano il contrario.

Già poco incline alla leggerezza, quest’anno il cielo del cinema d’autore si è coperto di nuvole ancora più scure, di un’angoscia collettiva diffusa ma palpabile. Più della metà dei 22 film in concorso mostrano i segni di una catastrofe, passata o presente, che ci parla di un clima sull’orlo del baratro davanti al quale nessuno oggi può ritenersi al sicuro.

O agente secreto (CinemaSco’pio/MK Production)

In modi e stili diversi – tragedia classica, umorismo nero, disperazione, malinconia, tono raffinato o realismo brutale – si va dall’atmosfera paranoica delle purghe staliniane degli anni trenta dell’ucraino Sergej Loznitsa (Two prosecutor) alla minaccia equivoca della dittatura militare brasiliana degli anni settanta di Kleber Mendonça Filho. E più vicino ai giorni nostri c’è Ari Aster (Eddington) alle prese con l’America trumpiana della grottesca e crudele guerra di tutti contro tutti.

Questa ossessionante inquietudine si ritrova anche nelle altre sezioni del festival. Nella Quinzaine des cinéastes è il grido di rabbia dell’israeliano Nadav Lapid sulla barbarie di Israele e di Hamas (Yes), o il documentario immersivo e filosofico degli ucraini Yelizaveta Smith, Alina Gorlova e Simon Mozgovyi sull’invasione russa e su quello che la guerra fa agli uomini (Militantropos).

Alla Semaine de la critique, l’originale film di reincarnazione del thailandese Ratchapoom Boonbunchachoke evoca la repressione del movimento delle camicie rosse nel 2010 (A useful ghost), mentre il documentario del ceceno Deni Oumar Pitsaev sonda le ferite profonde dei suoi connazionali rifugiati in Georgia (Imago, premio per il miglior documentario). Per non parlare della selezione Acid, l’associazione per la diffusione del cinema indipendente, dove in Put your soul on your hand and walk la regista Sepideh Farsi ha conversato a lungo con la fotogiornalista di Gaza Fatima Hassouna, uccisa poi in un bombardamento israeliano.

Ma questo mondo che vacilla ha anche ispirato opere che teoricamente sarebbero piuttosto lontane dalla geopolitica. Come Alpha di Julia Ducournau, che rivisita, senza nominarla, l’epidemia di aids degli anni ottanta e novanta, con i malati che si trasformano in statue di marmo. L’impossibilità di parlare del nostro presente mostruoso ha spinto la regista di Titane, Palma d’oro nel 2021, a tornare su quel periodo, in cui da adolescente (è nata nel 1983), ha potuto osservare con sgomento l’emarginazione sistematica delle persone colpite dal virus.

Qualche spiraglio

Anche per la catalana Carla Simón, nata a Barcellona nel 1986, la pandemia di aids è associata a una tragedia personale: la regista, vincitrice dell’Orso d’oro a Berlino con L’ultimo raccolto (2022), ha perso i suoi genitori, eroinomani, quando era ancora molto giovane. All’epoca la Spagna aveva il triste record del più alto tasso di mortalità legato all’hiv in tutta Europa. Il suo film, Romería, in gran parte autobiografico, segue una ragazza in cerca dei genitori in una città della Galizia sulle rive dell’Atlantico.

Questo buco nero dove dovrebbero esserci dei genitori è presente anche in Jeunes mères di Jean-Pierre e Luc Dardenne (premio per la migliore sceneggiatura), un dramma ambientato in Belgio con delle adolescenti che devono confrontarsi con l’essere madri. Il tema di fondo del film sono le ferite dell’infanzia che si ripresentano nel momento in cui si hanno dei figli. Questa specie di trasmissione della sofferenza è presente anche in Sound of falling della tedesca Mascha Schilinski (premio della giuria, a pari merito con Sirât), che osserva quattro generazioni di donne in una fattoria isolata tra violenze fisiche e morali.

Ma, nonostante il clima pesante, questa edizione ha anche offerto qualche speranza di emancipazione e di tolleranza. Per esempio Sirât, con una trama da film punk-no future, non chiude definitivamente la porta a un futuro più vivibile. E _O agente secreto _riesce a far convivere una sorta di grazia solare con la dittatura militare brasiliana.

La misteriosa mirada del flamenco, ritratto di un’esplosiva famiglia queer, del cileno Diego Céspedes, vincitore del premio Un certain regard, riesce a neutralizzare l’animosità che caratterizza la società di oggi. E per concludere _La petite dernière _di Hafsia Herzi (che ha ottenuto la Queer palm e ha fatto vincere a Nadia Melliti il premio come migliore attrice) è il ritratto consapevole di una ragazza musulmana lesbica.

Come ha detto la presidente della giuria Juliette Binoche alla consegna della Palma, si tratta di celebrare “una libertà ritrovata, di trasformare le tenebre in perdono e in una nuova vita”. ◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1616 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati