Centocinquanta euro, sei cambi e otto ore: ecco cosa avrebbe comportato il viaggio in treno da Calais, in Francia, alla regione del Westmünsterland, in Germania. Un pollice in su e me la sono cavata con zero euro, otto auto e dieci ore. Invece di stare seduta in un treno ad ascoltare un podcast, sono finita accanto a un agente sotto copertura a caccia di spacciatori al festival musicale Tomorrowland, ho ascoltato i racconti estasiati di un ex sessantottino che ha girato il mondo in autostop e mi sono fatta iniziare ai segreti dei portaspezie medievali da uno studente di storia.
Ecco cosa amo dell’autostop: è economico, abbastanza sostenibile, spesso incredibilmente veloce e, soprattutto, è un viaggio nelle storie delle persone con cui, per caso, si condivide un pezzo di strada.Molti si lamentano dei collegamenti ferroviari poco efficienti o si fermano in un posto perché l’ultimo autobus è già partito. Io alzo il pollice e so che prima o poi qualcuno mi darà un passaggio. E non sono l’unica, almeno guardando al passato.
“In Germania l’autostop è praticamente una forma di trasporto pubblico e non mi stupirei se un giorno fosse statalizzato”, ironizzava un giornalista dell’Atlantic nel 1955. Gli articoli degli anni cinquanta descrivono gruppi di giovani muniti di cartelli che si piazzavano agli ingressi delle autostrade. All’epoca fare l’autostop era sinonimo di libertà, comunità e anche di ribellione. Negli anni settanta in molte città tedesche gli automobilisti mettevano un bollino rosso sul parabrezza per indicare che davano passaggi agli autostoppisti, una sorta di protesta silenziosa contro l’aumento del costo dei trasporti pubblici.
Oggi è raro vedere qualcuno con il pollice alzato sul ciglio della strada. E anche se sono felice di non dover competere con altre persone, mi chiedo come mai ci siano così pochi autostoppisti. Una rete di trasporti ben strutturata ha avuto sicuramente un ruolo, come anche la diffusione delle automobili: negli anni settanta in Germania 194 abitanti su mille ne possedevano una, oggi sono quasi seicento. Tuttavia nel dibattito sull’autostop il tema più citato è sempre un altro: la sicurezza.
“Anche io lo facevo un tempo”, mi sento dire spesso da chi era giovane negli anni settanta e ottanta. “Oggi non lo farei mai”. La sensazione diffusa è che il mondo sia diventato molto più pericoloso. Onestamente non lo capisco. Prima si saliva su un’auto senza che nessuno lo sapesse. Oggi si può condividere la posizione in tempo reale o chiamare qualcuno. Io mando sempre a mio padre una foto della targa e gli scrivo: “Viaggerò qui per la prossima mezz’ora”. Mi tranquillizza, e fa sapere al conducente che non sono sola.
Premure e paternalismo
Ovviamente non tutti i viaggi vanno lisci. Una volta, nel sud della Francia, con un’amica abbiamo impiegato tre ore per fare 40 chilometri, perché non passava nessuno. A volte si ha sfortuna con il luogo, altre con l’orario. E nei giorni in cui si vuole stare tranquilli, l’autostop non è una buona idea, poiché di rado si resta in silenzio. Ma non mi sono mai sentita in pericolo. Al contrario: in quanto giovane donna sono in genere oggetto di premure, a volte anche di paternalismo.
◆ Informati su dove è legale fare l’autostop, ci sono regole diverse a seconda dei paesi.
◆ Niente occhiali da sole: il contatto visivo e un sorriso fanno miracoli.
◆ I cartelli aiutano (a volte). Conviene scrivere il nome della città più vicina o un generico “direzione nord”, invece di una destinazione a otto ore di distanza.
◆ Scegli una posizione strategica, preferibilmente dove le auto viaggiano a bassa velocità e possono fermarsi facilmente.
◆ Rimani flessibile: anche un breve passaggio è utile, possono bastare un paio di chilometri per raggiungere un punto più strategico.
◆ Chi è alle prime armi può consultare siti come Hitchwiki per avere consigli.
◆ Può essere utile cominciare in coppia e con brevi distanze per superare eventuali paure.
◆ Ascolta il tuo istinto: se non ti senti a tuo agio, non salire sull’auto. Dire no è sempre possibile.
Un giorno si sono fermati tre uomini di fila, ma non sono salita con nessuno di loro perché non andavano abbastanza lontano. Una donna che aveva visto la scena non poteva sopportare l’idea di “lasciarmi in balìa di un uomo” e mi ha dato un passaggio. Un’altra volta un uomo è tornato indietro perché vedeva in me sua figlia e non riusciva a lasciarmi da sola sul ciglio della strada. In due casi mi sono stati offerti dei soldi per un biglietto dell’autobus. Ma non faccio l’autostop per motivi economici, voglio viaggiare in questo modo.
Ho notato che l’autostop funziona diversamente a seconda del paese. In molti stati dell’Europa dell’est è del tutto normale. Magari si aspettano un piccolo compenso, ma si arriva quasi sempre a destinazione. Le esperienze migliori le ho avute in Francia: in alcuni posti ho aspettato meno di un minuto prima che qualcuno si fermasse. In Germania, invece, le persone sono più prudenti. Spesso mi guardano in modo irritato o distolgono lo sguardo appena mi vedono. In generale, più la strada è grande e ha una direzione chiara, più si procede spediti, mentre nelle aree urbane spesso servono più passaggi per fare pochi chilometri. E per quanto riguarda il pregiudizio secondo cui “più l’auto è grande e costosa, meno probabile è il passaggio”, non mi sento di confermarlo. Ho viaggiato su suv e auto sportive che probabilmente valgono più di tutto quello che possiedo.
L’autostop non promette tempi certi di arrivo, ed è proprio questo il bello. Ogni volta è una sfida. Non sorprende che siano nate delle vere e proprie competizioni, c’è anche una gara per attraversare l’Europa in autostop. Quest’anno 37 squadre sono partite da Vienna e dalla città tedesca di Zittau per arrivare a Blagaj, in Bosnia Erzegovina. Ci sono voluti sei giorni.
Ma anche senza gara, questo modo di viaggiare resta emozionante: quanto ci vorrà stavolta? Chi si fermerà? Fino a dove? È come una scommessa, ma si vince quasi sempre. Per esempio qualche mese fa, vicino ad Anversa, sono salita sull’auto di Dan, che aveva la patente solo da quattro giorni. Doveva fare pratica per prendere anche quella per guidare gli autobus e mi ha portato di sua spontanea volontà a 170 chilometri di distanza.
Inoltre gli incontri non avvengono solo in auto. Molte persone che mi passano accanto mi salutano, alzano il pollice o mi augurano “buona fortuna”. L’autostop fa spazio al caso e mi ricorda che non sempre, per arrivare, è necessario sapere dove mi porterà il viaggio. ◆ nv
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Questo articolo è uscito sul numero 1634 di Internazionale, a pagina 115. Compra questo numero | Abbonati