Erano stati rinchiusi nell’ex base militare di Zawyia, una città costiera, 45 chilometri a ovest di Tripoli. Un testimone racconta quello che ha vissuto dietro le mura di cinta e il grande portone d’ingresso blu: “C’erano dei militari, all’interno della prigione eravamo probabilmente più di trecento, nessuno poteva uscire, ci davano da mangiare una volta al giorno, l’acqua era razionata e non era neanche potabile perché usciva dal rubinetto dei bagni”. Nell’ordine di custodia cautelare richiesto dalla procura di Palermo nell’autunno scorso, che Mediapart ha potuto vedere, cinque uomini e una donna descrivono nei dettagli il loro calvario nell’ex base militare trasformata in prigione per migranti.

Tutti i protagonisti della vicenda sono arrivati a Lampedusa a luglio del 2019. Erano stati soccorsi al largo della Libia dalla barca a vela Alex dell’ong Mediterranea, e poche settimane dopo erano stati interrogati dai magistrati della procura di Agrigento. L’inchiesta mirava a scoprire se tra i migranti salvati c’erano dei trafficanti di esseri umani.

Le testimonianze hanno tutte un punto in comune: i migranti avevano passato un periodo di detenzione nell’ex base militare di Zawyia dopo essere stati venduti da intermediari o arrestati dalla polizia libica. Tra le foto mostrate dalla polizia italiana i testimoni hanno riconosciuto tre uomini. Il primo era arrivato a Lampedusa il 27 giugno 2019. “Viene dalla Guinea Conakry, era il vicecapo della prigione (…), giovane ma molto cattivo, armato di un bastone con cui ci colpiva senza pietà”, racconta un testimone. “A causa dei colpi che mi ha dato in diverse occasioni ho ancora dei segni visibili sul corpo, in particolare sul fianco destro e alla testa. Era lui ad avere le chiavi della prigione”.

Un altro testimone racconta: “Era soprannominato Suarez (…), si occupava della sorveglianza, aveva un fucile, ci torturava, ci minacciava e decideva chi poteva uscire, perché era lui che si occupava di recuperare il denaro”. In una seconda serie di fotografie relative all’arrivo di 40 migranti a Lampedusa il 29 giugno 2019, i testimoni hanno indicato le foto contrassegnate con il numero 39 e 40, quelle di due giovani egiziani. Rivedendo i loro volti i testimoni hanno descritto ai magistrati le torture, i colpi sferrati con cavi elettrici e tubi di plastica, oltre ai calci e ai pugni con cui venivano colpiti per ore.

Decisione storica

L’obiettivo era sempre lo stesso: estorcere denaro in cambio della liberazione. “Chiedevano da mille a duemila euro, e se non li avevamo arrivavano le botte e la tortura”, sintetizza un camerunese. Diversi testimoni parlano delle persone morte sotto i colpi ricevuti, talvolta dopo una lunga agonia. “Più volte nel corso della giornata i custodi venivano a prendere le donne per violentarle”, riferisce un altro testimone.

Le tre persone riconosciute sono state arrestate a metà settembre nel centro di smistamento di Messina, dove erano state trasferite dopo il loro arrivo. Alla fine di maggio, mentre l’Italia era ancora concentrata sulla crisi sanitaria, il tribunale di Messina ha emesso la sua sentenza: i tre uomini, che hanno tra i 23 e i 27 anni, sono stati condannati a vent’anni di carcere per associazione a delinquere finalizzata alla tratta di persone, alla violenza sessuale, alla tortura, all’omicidio e al sequestro di persona a scopo di estorsione. La decisione è passata quasi inosservata, ma è molto importante che dei magistrati europei si siano occupati di fatti del genere. “È la presenza degli accusati sul territorio italiano che ha spinto il tribunale a dichiararsi competente su questo caso. In un certo senso è una decisione storica”, commenta Antonio Marchesi, professore di diritto internazionale all’università di Teramo ed ex presidente della sezione italiana di Amnesty international.

Da sapere
Manca il soccorso europeo

◆ L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), e l’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, affermano in un comunicato congiunto che il naufragio del 17 agosto 2020 al largo della costa di Zuara, in Libia, in cui sono morti almeno 45 migranti tra cui cinque minori, “è il più tragico registrato al largo della costa libica quest’anno. Circa 37 sopravvissuti, provenienti principalmente da Senegal, Mali, Ciad e Ghana, sono stati soccorsi da pescatori locali e posti in stato di detenzione dopo lo sbarco”. Le due organizzazioni chiedono agli stati di cambiare la gestione dei soccorsi **nel Mediterraneo: “È necessario rafforzare con urgenza le attuali capacità di ricerca e soccorso. Si continua a registrare l’assenza di programmi di ricerca e soccorso dedicati e a guida dell’Unione europea”. Inoltre l’Oim e l’Unhcr ribadiscono “la necessità di abbandonare con urgenza l’approccio che prevede l’adozione di accordi ad hoc”. “L’instabilità e l’assenza di sicurezza **in Libia”, affermano, “permettono alle reti del traffico, della tratta e del crimine in generale di agire impunemente ai danni di migranti e rifugiati vulnerabili”. Secondo i dati dell’Oim, dal 1 gennaio 2020 al 25 agosto sono morte nel Mediterraneo 497 persone.


Il tribunale di Messina non ha voluto dire a Mediapart le motivazioni della sentenza. Ma se i magistrati avessero deciso di considerare che l’Italia ha la competenza assoluta in materia, si tratterebbe di una novità assoluta. “La cosa importante è che per la prima volta un tribunale italiano ha condannato degli imputati stranieri per fatti commessi all’estero contro delle persone straniere”, osserva Marchesi. “È una delle prime volte che un tribunale italiano pronuncia una sentenza di condanna per il reato di tortura, perché solo nel luglio del 2017 l’ha introdotto nel proprio ordinamento”. Eppure l’Italia nel 1984 aveva firmato la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Ma ci sono voluti più di trent’anni per trasformare in legge quanto scritto nella convenzione.

“Il fatto che la magistratura italiana riconosca la tortura in questi centri è un primo passo e potrebbe creare dei precedenti”, si augura Marchesi. L’Italia infatti fornisce un aiuto diretto alla Libia per affrontare il fenomeno dell’immigrazione irregolare e della tratta di persone, attraverso l’addestramento di militari libici. È in questi termini che il memorandum di intesa firmato tra i due paesi definisce la collaborazione ufficializzata il 2 febbraio 2017.

Il 16 luglio 2020, in piena estate, la camera dei deputati ha votato (con 401 voti a favore, 23 contrari e un astenuto) il rifinanziamento di questi accordi, ultimo passo formale per autorizzare la loro proroga per altri tre anni. Entro pochi giorni la guardia costiera libica dovrebbe ricevere nuove motovedette per svolgere le sue missioni. Gli accordi prevedono inoltre un aiuto finanziario per la gestione dei “centri di accoglienza” che ospitano i migranti. Questi accordi però sono stati molto criticati da numerose associazioni e anche dalle Nazioni Unite, in particolare a causa dei legami tra la criminalità organizzata e alcuni alti responsabili della guardia costiera libica.

Un nome già molto noto emerge dalle testimonianze raccolte dai magistrati siciliani e riportate nella richiesta di custodia cautelare della procura di Palermo: Bija, soprannome di Abd al Rahman Milad. Indicato come il direttore di un centro di migranti o come il capo della guardia costiera di Zawyia, è considerato un trafficante di esseri umani in Libia e il suo nome compare anche in un atto del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Un testimone ha spiegato che Bija “si occupava di trasferire i migranti sulla spiaggia ed era lui che decideva chi doveva imbarcarsi”. Un compito svolto per conto di un uomo che tutti chiamano Ossama, indicato decine di volte nella richiesta di custodia cautelare perché considerato il capo della prigione.

In un comunicato stampa pubblicato sul sito della sezione italiana di Amnesty international, il direttore generale Gianni Ruffini ha commentato: “Ora anche una sentenza di un tribunale italiano ha confermato che i centri di detenzione libici per i migranti, finanziati dall’Italia e dall’Unione europea, sono dei luoghi di tortura. Siamo più che mai convinti che l’intera collaborazione tra l’Italia e la Libia vada ripensata”. ◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1373 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati