Si sono radunati nel buio prima dell’alba. I bambini smaniano, con gli occhi ancora assonnati. Gli adulti, bimbi in braccio e zaini in spalla, ascoltano con attenzione un uomo del Clan del Golfo, il più potente cartello della droga colombiano, che urla istruzioni al megafono, sovrastando temporaneamente il canto degli uccelli e il suono degli insetti della giungla: “Assicuratevi che tutti abbiano abbastanza da mangiare e da bere. Se vedete delle strisce di stoffa blu o verdi legate agli alberi significa che dovete continuare a camminare. Se le strisce sono rosse state andando dalla parte sbagliata e dovete tornare indietro”.

Poi è il momento delle preghiere per la sopravvivenza del gruppo: “Signore, prenditi cura di ogni nostro passo”. Quando il sole fa capolino, comincia la marcia.

In questo gruppo ci sono più di seicento persone: hanno deciso di addentrarsi nella giungla per una traversata di circa 110 chilometri che le porterà dalla Colombia settentrionale al sud di Panamá. Il fatto che siano tante rallenta le operazioni. Arrivano da Haiti, dall’Etiopia, dall’India, dalla Repubblica Democratica del Congo, dal Brasile, dal Perù, dall’Ecuador e dal Venezuela, e sono dirette a nord lungo l’unica striscia di terra che collega il Sudamerica e l’America Centrale.

Praticamente invalicabile

Per secoli il Tapón del Darién (il Tappo del Darién) era considerato praticamente invalicabile. Gli esploratori e gli aspiranti colonizzatori che provavano ad attraversarlo morivano di fame o di sete, venivano attaccati dagli animali, affogavano nei fiumi in piena, si perdevano o non ne uscivano vivi. Questi pericoli ci sono ancora, ma negli ultimi anni la giungla è diventata una superstrada per i migranti diretti negli Stati Uniti. Secondo le Nazioni Unite quest’anno più di 800mila persone attraverseranno il Darién, un aumento del 50 per cento rispetto alle cifre già inimmaginabili del 2023. E che riguarda soprattutto i bambini sotto i cinque anni.

Da tempo gli Stati Uniti scoraggiano questa migrazione, chiedendo ai paesi vicini dell’America Latina di chiudere le rotte più usate e di non concedere visti agli stranieri che provano a raggiungere in aereo i paesi vicini al confine statunitense. Questa linea politica, però, ha solo deviato il flusso dei migranti verso il Darién, consegnandoli alle organizzazioni criminali. Il Clan del Golfo, che ora si fa chiamare Ejército gaitanista de Colombia, ha di fatto il controllo di questa zona della Colombia settentrionale. Per anni ha contrabbandato droga e armi attraverso il Darién. Ora è passato alle persone.

Chi lavora nel Darién deve avere l’approvazione del cartello e cedergli una parte dei guadagni. Gli uomini del Clan hanno costruito scalinate sulle colline e hanno attrezzato le pareti rocciose con scale a pioli e accampamenti con il wifi. Pubblicizzano tutto su TikTok e YouTube, e chiunque può prenotare il viaggio online. Ci sono vari percorsi. Il più massacrante è anche il più economico: al momento ci vogliono circa trecento dollari a persona per attraversare la foresta a piedi. Prendere la barca può costarne più di mille.

A dicembre del 2023 sono andata nel Darién insieme alla fotografa Lynsey Addario: volevo vedere cosa fosse disposta a rischiare la gente per entrare negli Stati Uniti. Prima di partire ho parlato con alcuni giornalisti che erano già stati sul posto. Avevano affrontato attacchi di tifo, sfoghi cutanei, fughe improvvise e malattie ignote che lasciavano strascichi per mesi. Uno era stato legato e rapinato. Ci hanno detto che ci sono delle precauzioni per rendere la traversata più sicura ma alla fine, per sopravvivere, ci vuole anche un po’ di fortuna. Ogni anno le autorità panamensi estraggono decine di cadaveri dalla giungla. Molti altri vengono inghiottiti dalla natura. Queste morti sono dovute non solo alle condizioni estreme, ma anche alla logica sbagliata della politica statunitense e di altre nazioni ricche secondo cui rendendo più difficile l’immigrazione si limitano gli arrivi. Non è mai successo: né nel Mediterraneo né nel rio Grande né nel Darién. Anzi, ogni anno arrivano più persone. Quello che ho visto nella giungla conferma uno schema che si ripete ovunque: più è difficile migrare più i cartelli e altri gruppi criminali ne approfittano e più migranti muoiono.

Togliere peso

La notte prima della partenza un venezuelano di nome Bergkan Rhuly Ale Vidal gira come una trottola per l’accampamento all’imbocco della giungla, facendo e disfacendo i bagagli della sua famiglia. Lui e la sua compagna, Orlimar, sono con i figli Isaac, di due anni, e Camila, di otto. Anche al buio l’aria è soffocante e la testa di Bergkan è piena di pensieri. E se uno dei bambini cade e si fa male? Se gli sale la febbre? E se li morde un serpente? Vorrebbe mettere al sicuro il futuro della sua famiglia, ma ha paura di aver fatto un errore.

Il primo giorno il sentiero è un susseguirsi di massi e liane. Attraversiamo un fiume talmente tante volte che a un certo punto rinuncio a svuotare gli stivali di gomma, perché in pochi minuti si riempiranno di nuovo. Le scarpe da tennis di Bergkan e dei suoi familiari sono già strappate. Le salite sono rese scivolose dal fango e sono così ripide che spesso, invece di camminare, ci arrampichiamo con le mani e le ginocchia, aggrappandoci alle radici. Passiamo davanti a una fila di bancarelle che vendono acqua e Gatorade, due per cinque dollari. I portatori, detti mochileros, accerchiano la famiglia, mettendosi a disposizione. “Portiamo zaini, portiamo bambini”, ripetono in coro. Chiedono un centinaio di dollari al giorno e a volte barattano qualcosa con i migranti. Orlimar prova a scambiare delle vecchie cuffie con un paio di stivali nuovi, ma ottiene un rifiuto.

A metà mattina arriviamo alla salita più dura del sentiero. Dopo un’ora di arrampicata, Bergkan si accascia, ansimante. Orlimar getta a terra i bagagli. “Cos’hai in quella sacca?”, le chiede.

“Scarpe… sandali”, risponde Orlimar a voce bassa, quasi impercettibile.

Bergkan le dice di scaricare più peso possibile e Orlimar comincia a tirare fuori i panni puliti. “Li potrà usare qualcun altro”, dice lui. Anche le altre famiglie stanno svuotando gli zaini. Chi ha la forza di continuare a camminare ci supera guardando dritto, come se la stanchezza fosse una malattia che si attacca con lo sguardo.

Per attraversare la giungla possono volerci tre giorni oppure dieci, a seconda del tempo, del peso dei bagagli e del caso. Un piccolo infortunio può essere una catastrofe anche per i più allenati. I trafficanti spesso mentono sulla durata del viaggio: a Bergkan, per esempio, hanno detto di prepararsi per un paio di giorni. Dopo qualche ora Bergkan si rende conto che abbiamo fatto molta meno strada del previsto e che le provviste non basteranno.

Il venezuelano Bergkan Rhuly Ale Vidal con la famiglia nel Darién, 12 dicembre 2023  (Lynsey Addario, The Atlantic Monthly with support from National Geographic Society)

Bergkan e Orlimar immaginavano una vita diversa. Si sono conosciuti da adolescenti e hanno frequentato l’università insieme: Orlimar studiava infermieristica, Bergkan ingegneria. Poi nel 2014 l’economia del Venezuela è implosa sotto il peso della corruzione e della cattiva amministrazione. La stretta autoritaria del presidente Nicolás Maduro ha portato a una serie di pesanti sanzioni degli Stati Uniti. Il futuro per cui avevano lavorato non c’era più. Negli ultimi dieci anni almeno 7,7 milioni di venezuelani hanno abbandonato il paese.

Per cinque anni Bergkan e Orlimar hanno accettato ogni tipo di lavoro, prima in Venezuela e poi in Perù, mentre i loro amici e compagni di classe partivano per gli Stati Uniti. A un certo punto la cugina di Orlimar, Elimar, che per lei è come una sorella, le ha fatto una proposta: il suo fidanzato, che viveva a Dallas, era disposto a pagare la traversata nella giungla se Elimar e i suoi due figli – di sei e otto anni – andavano con loro. “In Venezuela nessuno ti presta dei soldi, figuriamoci somme del genere. Era arrivato il nostro momento”, dice Bergkan. Il piano era rimanere negli Stati Uniti finché l’economia in Venezuela non si fosse ripresa e poi tornare.

Vicini al confine

Arranchiamo in salita per ore. Isaac barcolla sulle spalle del padre. Bergkan gli afferra i piedi e scatta in avanti per pochi secondi, poi crolla di nuovo. Le gambe gli tremano e il viso diventa viola. “Il peso che porti è tutto nella tua testa”, dice a un certo punto, come per farsi coraggio. Camila si ferma un paio di volte, bloccando la fila di persone alle sue spalle, e grida: “Mamma, non ce la faccio”.

Verso l’una di notte Isaac si addormenta, dondolando a corpo morto. “Sembra che pesi il triplo”, dice Bergkan a Orlimar. Si fermano su un pendio per riorganizzarsi. Elimar prova a svegliare il nipote con un lecca lecca, ma il bambino non reagisce. Bergkan tira fuori dallo zaino una bustina di sali minerali, la mescola con l’acqua, poi sveglia Isaac con uno scossone e dice a tutti e quattro i bambini di bere. “Vi porteremo fuori da qui”, assicura, parlando soprattutto a sé stesso.

Alla fine un portatore spiega che stiamo andando troppo lenti per arrivare a Panamá in giornata: dovremo dormire in un accampamento allestito per i ritardatari. Quando arriviamo vediamo delle pedane di legno per sistemare le tende, docce e wc fatti con i secchi e un paio di cucine all’aperto con dei colombiani che servono pollo e riso. È tutto a pagamento. Alcuni compagni di viaggio pagano due dollari all’ora la connessione wifi per contattare i parenti e farsi mandare dei soldi; sui trasferimenti di denaro c’è una commissione del 20 per cento. Elimar comincia a girare per il campo, chiedendo ad altri venezuelani di prestarle dei soldi per mettersi in contatto con il suo fidanzato. Bergkan, Orlimar e i bambini rimangono seduti a massaggiarsi il corpo indolenzito. Non hanno nessuno da chiamare.

Durante le tre traversate del Darién che ho fatto in cinque mesi ho visto comparire nella giungla nuovi ponti e nuove strade lastricate, connessioni wifi sempre più potenti e su Google maps punti di riferimento noti solo grazie al passaparola. Guardando in basso verso un fiume in piena mi sorreggo alle funi che rendono un po’ più sicuro il passaggio tra due pareti di roccia. Guide e portatori seguono i migranti con gli iPhone accesi e chiedono: “Vi sentite bene?”, “Vi abbiamo trattato bene?”. Poi pubblicano i video sui social network, spacciando la traversata come una gioiosa passeggiata nella natura. I profitti del cartello sono diventati l’ennesimo fattore che alimenta il flusso migratorio.

María Fernanda Vargas, 28 anni, è consolata dalla figlia di 7 durante la traversata del Darién, 15 dicembre 2023 (Lynsey Addario, The Atlantic Monthly with support from National Geographic Society)

Un percorso meno battuto

Le Nazioni Unite hanno inviato dei funzionari dell’immigrazione alle fermate degli autobus e in altri punti di passaggio per il Darién: il loro compito è mettere in guardia i migranti e convincerli a ripensarci. Questi sforzi sono quasi sempre inutili. “La gente arriva qui con un pensiero fisso: raggiungere gli Stati Uniti”, dice Cristian Camilo Moreno García, un funzionario Onu che lavora nel nord della Colombia. “Tornare indietro non è un’opzione”.

La seconda mattina della traversata circa 150 persone escono dal campo e aspettano l’alba prima di mettersi in marcia. Bergkan e i suoi non hanno mangiato niente: devono conservare le scatolette di tonno e i pochi pacchi di biscotti che gli sono rimasti. I bambini hanno ancora addosso il pigiama, tra le poche cose pulite rimaste. Alla fine della fila due donne raccolgono gli ultimi pagamenti e poi distribuiscono dei braccialetti, simili a quelli che si danno all’entrata dei festival musicali, per identificare chi ha pagato. “Per favore preparate i soldi così vi facciamo passare prima”, grida una.

Camminiamo lungo un crinale a strapiombo, più lentamente del giorno prima. Dopo circa un’ora e mezza Luciano, il figlio di Elimar, si accascia a terra. Gli adulti lo circondano. “Toglietegli la felpa, sta soffocando”, grida uno. Senza dire una parola, uno dei portatori pagati da me e Lynsey si carica il bambino in spalla e si arrampica sulla collina. Elimar sembra abbattuta, ma anche sollevata dal fatto di avere un bambino in meno di cui preoccuparsi, almeno fino alla prossima sosta.

Si sparge la notizia che ci stiamo avvicinando al confine con Panamá. I portatori, che da due giorni non fanno altro che offrire i loro servizi, non parlano più. A Panamá lucrare sull’immigrazione è illegale e può portare a una condanna a più di dodici anni di reclusione. La polizia di frontiera panamense, chiamata Senafront, arresta chi vende bottiglie d’acqua ai migranti, gli porta i bagagli o gli fa da guida. Il portatore che ha preso Luciano ci mostra una cicatrice sul petto: è una ferita d’arma da fuoco che dice di essersi procurato nella spedizione precedente, quando gli agenti dall’altro lato del confine con la Colombia hanno sparato. Dobbiamo prepararci a correre, dice.

Ho chiesto a Jorge Gobea, il capo della polizia di frontiera panamense, se i suoi agenti hanno mai sparato alle guide colombiane attraverso il confine. Ha risposto: “Se una persona armata resiste alle autorità panamensi, usiamo la forza”.

Il confine è segnato da una bandiera panamense e da cumuli di spazzatura. Qualcuno si mette in posa per una foto, Orlimar si fa il segno della croce e si siede con la testa tra le ginocchia. Elimar è la prima a vedere le guardie di frontiera panamensi che si avvicinano e ci avverte: “State giù”.

Attraversiamo un fiume insieme a una famiglia con tre bambini

Io e Lynsey facciamo gli auguri alla famiglia e scendiamo di corsa insieme ai portatori colombiani.

Dopo aver lasciato Bergkan e la sua famiglia al confine, torniamo indietro per imboccare il secondo sentiero principale attraverso il Darién. Ha la fama di essere leggermente più facile, quindi costa di più. Questa volta ci facciamo rilasciare dal governo panamense il permesso di attraversarlo fino alla fine.

Dopo un giorno di cammino ci fermiamo a dormire in un altro campo, dove facciamo amicizia con un gruppo allargato guidato da María Fernanda Vargas, una donna venezuelana, madre di tre bambini, che vive con la famiglia in Cile. Il gruppo è stato creato da persone che si sono conosciute sui social network e hanno aggregato altri migranti lungo la strada. Ora sono in ventuno, tutti del Venezuela tranne uno. Le persone che attraversano il Darién stringono tra loro un legame quasi fraterno. Questo gruppo è particolarmente unito: condividono da bere e da mangiare e vogliono restare insieme fino all’arrivo negli Stati Uniti.

Mentre ci avviciniamo al confine panamense per la seconda volta, una guida colombiana che sta per tornare indietro chiede ad alcuni di noi di cercare una donna di nome Cataña. Di recente ha fatto lo stesso percorso ma non è mai uscita dalla giungla. La guida tira fuori il telefono e ci mostra delle foto della donna seduta su un autobus. “Era lenta, perciò il gruppo l’ha lasciata indietro”, dice.

“Non credo che questo gruppo farebbe mai una cosa simile”, rispondo.

“Vedremo. La gente perde subito la pazienza quando c’è poco da mangiare”, afferma. Questo sentiero è più recente e meno battuto. La vegetazione spunta da tutti i lati e il sentiero si distingue a fatica. Passiamo sulle piste dei giaguari e vediamo un bothrops, la vipera più letale del Sudamerica, a pochi centimetri dalle nostre caviglie. In un burrone assistiamo a quella che con ogni probabilità è la scena di una caduta rovinosa: ci sono una scarpa da tennis, un teschio e le ossa di una gamba con una fasciatura simile a un laccio emostatico intorno al ginocchio.

Arrivati a Panamá, ci aspettano nuove minacce: le rapine e le aggressioni sessuali. Gran parte di questi attacchi sono opera dei nativi panamensi. Per anni i loro villaggi sono stati saccheggiati dai narcotrafficanti e dai gruppi paramilitari. Alcuni indigeni hanno preso le armi per autodifesa, oppure si sono dati ai traffici illegali. Il governo ha fatto poco per proteggerli e ora fa poco per fermarli.

I portatori che abbiamo pagato per accompagnarci ci dicono di restare vicini, perché sembra che i criminali siano intimiditi dai grandi gruppi. Più tardi scopriamo che è vero il contrario: prendono di mira i grandi gruppi, forse perché è più redditizio che rapinare poche persone alla volta. L’ansia cresce quando vediamo un paio di zaini abbandonati. Ci addentriamo in una macchia sempre più fitta finché non mi accorgo che il sentiero non si distingue più. Un portatore accusa un altro di averci portato fuori strada. Cominciano a litigare, poi un terzo gli dice di non urlare. Torniamo indietro, ma si crea un collo di bottiglia davanti a un tronco d’albero caduto. Un portatore ci grida di sbrigarci.

A mezzogiorno arriviamo al campo La Bonga, l’unico nella giungla dove il governo panamense autorizza la vendita di viveri e acqua ai migranti. Lynsey e io incontriamo una decina di agenti della polizia di frontiera che sono stati incaricati di seguirci come condizione per il nostro viaggio. Ci trasciniamo nel fango e tra i fiumi per sei ore prima di fermarci per la notte. Piove a intermittenza. Gli adulti, che si dividono poche tende, devono fare i turni per dormire. Una venezuelana di nome Adrianny Parra Peña, si arrampica fino a una tenda soffocante. Ha il volto coperto di fango. Lei e il marito stanno aiutando María Fernanda con i suoi gemelli di nove anni, prendendoli in braccio nelle salite più ripide e quando devono attraversare i fiumi. Parra Peña vorrebbe dei figli, ma è la terza volta in sei anni che lei e il marito provano a stabilirsi in un altro paese: prima sono stati in Perù, poi in Cile e ora, spera, andranno negli Stati Uniti. “Siamo stanchi”, dice. “Non si può vivere così”.

Tragedia sfiorata

La mattina dopo ci aspetta la parte più dura, perché dobbiamo scalare una serie di pareti di roccia. Su alcune sono state fissate delle funi, ma non sappiamo se sono abbastanza sicure. “Non posso guardare”, dice María Fernanda quando la figlia comincia a salire. Si copre gli occhi e grida: “Tieniti forte, principessa”.

Una bambina di otto anni, Katherine, scivola e cade nel fiume pieno di sassi cinque metri più in basso. La madre rimane pietrificata mentre uno dei portatori si tuffa nell’acqua per andarla a riprendere. Katherine riemerge in lacrime, ma illesa. Ci rimettiamo in marcia quasi subito: nessuno vuole soffermarsi più del dovuto sulla tragedia sfiorata.

Il giorno dopo è il quarto nella giungla e il quindicesimo da quando il gruppo ha lasciato il Cile. Ci ritroviamo davanti un tronco caduto ricoperto di muschio bagnato su cui dovremo passare per superare un fiume in piena. Mi fermo di colpo, certa che scivolerò. A un certo punto lo sguardo mi cade su una bambina che non avevo notato: è in piedi da sola, con gli occhi sbarrati. Sembra che non sappia cosa fare. Un ragazzo la raggiunge, le mette un braccio intorno alla vita e la porta dall’altra parte. Trattengo il respiro e salgo sul tronco.

Il figlio di Yenian chiede se il corpo può essere cremato o rimandato in Cina

Cominciamo a vedere delle tende abbandonate e ci chiediamo se siamo quasi arrivati ai confini della giungla o se chi le ha lasciate era troppo debole per portarsi dietro anche il minimo indispensabile. Per la prima volta incontriamo delle persone sole sedute sui sassi e sui tronchi che fissano nel vuoto, forse sono state lasciate indietro dai compagni di viaggio. Attraversiamo un fiume insieme a una famiglia con tre bambine, due delle quali disabili. La più grande sembra avere dieci anni, ma è avvolta in un lenzuolo legato al dorso del padre come una neonata, braccia e gambe penzoloni. Il padre scivola e cade a faccia in avanti nell’acqua. Quando risale in superficie, la bambina tossisce e urla. Lui si dà una scrollata, stringe il lenzuolo e riprende a camminare. Al lato del sentiero c’è un cadavere sotto una coperta. Gli agenti panamensi incaricati di seguirci ci chiedono di dividere con loro quel poco che ci rimane da mangiare. Sono sfiniti e vogliono fare una sosta. Il medico della truppa beve da una bottiglia di soluzione salina. Gliel’avevamo data per precauzione, insieme a un antidoto da diluire contro i morsi di serpente. Ma un agente ha un problema più urgente: ha bevuto l’acqua del fiume e ha la diarrea.

Verso mezzogiorno arriviamo in un posto chiamato Tres Bocas, dove confluiscono tre fiumi e dove, alla fine della stagione delle piogge, spesso i corpi sono trascinati a riva. Nel gruppo di María Fernanda molti sono rimasti indietro, insieme a metà dei poliziotti di frontiera. Un agente ci avverte che mancano almeno venti chilometri per uscire dalla giungla ma, viste le condizioni del terreno, ci sembreranno il doppio. Non possiamo aspettare che gli altri ci raggiungano.

Per quattro ore ci alterniamo tra passo veloce e corsa, spingendoci ben oltre quello che pensavo fisicamente possibile. Alla fine ci lasciamo alle spalle la giungla e sbuchiamo su una spiaggia di sassi: ci sono centinaia di migranti che aspettano. Molti non mangiano da giorni.

Saliamo su delle canoe a motore guidate dagli indigeni: il prezzo è di 25 dollari a persona. Due ore dopo arriviamo a Bajo Chiquito. È un villaggio di circa duecento persone e, nonostante la mancanza d’acqua corrente, di elettricità e di un ospedale, il governo panamense lo ha dichiarato punto di accoglienza ufficiale per chi passa il Darién, facendone uno snodo fondamentale per il “flusso controllato”– così viene descritto – di migranti.

Nella densità della giungla non è facile rendersi conto della catastrofe umanitaria in corso né dei fallimenti politici che spingono le persone a fare questo viaggio. Invece tutto diventa chiaro a Bajo Chiquito, dove la precarietà dei sistemi per l’accoglienza e lo smistamento dei migranti sono messi pericolosamente alla prova. Saliamo la scalinata che porta al villaggio, tremando per la stanchezza. Dall’alba al tramonto, l’ingresso è affollato di migranti che aspettano di essere smistati dai funzionari del governo. Ogni giorno arrivano fino a quattromila persone. Alcune devono essere portate a braccia per le scale, altre crollano quando arrivano in cima.

Anche se Panamá ha il reddito pro capite più alto dell’America Latina, la maggioranza della popolazione nativa vive in condizioni di grave povertà. I politici fanno a gara a lamentarsi di come i migranti hanno cambiato il modo di vivere degli indigeni, ma per posti come Bajo Chiquito è stata una salvezza. Mentre la musica suona a tutto volume, chi ha ancora un po’ di soldi compra da mangiare, una connessione wifi, carta igienica, abiti puliti e una tenda. I residenti girano con rotoli di dollari statunitensi, la moneta che si usa nel Darién.

Quasi tutti i migranti in fila raccontano di essere stati rapinati a un posto di blocco, un giorno prima di arrivare a Bajo Chiquito. Le donne si lamentano di essere state molestate, alcune raccontano che i banditi le hanno messo le mani nelle mutande con la scusa di cercare soldi nascosti. Gli agenti della frontiera panamense lì vicino non sembrano interessati a indagare. I leader indigeni sostengono di aver chiesto aiuto al governo per contrastare i reati contro i migranti, ma la situazione è peggiorata. A febbraio Medici senza frontiere ha pubblicato un rapporto sulle violenze sessuali commesse contro i migranti nel Darién, evidenziando una frequenza che si riscontra nelle zone di guerra. Poco dopo il governo ha cacciato l’ong dalla zona.

Sui muri della case di Bajo Chiquito ci sono dei volantini con la foto di un bambino scomparso, un vietnamita di 9 anni. Le autorità panamensi mi hanno detto che i bambini rimasti separati dalla famiglia nella giungla sono presi in custodia finché non arrivano gli adulti. In realtà, intervistando le persone in fila, incontro una bambina ecuadoriana di cinque anni che è arrivata con un gruppo di estranei a cui si è unita nella giungla. Quando arriva il loro turno di essere interrogati, nessuno ammette di non essere parente della bambina. Nessuno ha un suo documento, ma gli agenti li fanno passare.

Una lunga fila di persone malate e ferite si snoda intorno all’unico ambulatorio medico di Bajo Chiquito, aperto per rispondere all’afflusso di migranti. Nella sala d’aspetto all’aperto – poche decine di sedie di plastica su una colata di cemento – la gente vomita, tampona sfoghi e ferite aperte e tiene in braccio bambini che hanno la diarrea da giorni. I medici distribuiscono un paio di pillole per la febbre o pomata per gli sfoghi cutanei in sacchetti di plastica, poi chiamano il paziente successivo. Due donne accompagnano un’amica che è quasi annegata e non riesce a sollevare la testa. Un’infermiera la fa stendere su una barella e le fa una flebo sotto lo sguardo dei tre figli. Poco dopo l’infermiera torna e, anche se la donna è ancora in stato confusionale, dice ai familiari che devono andare via perché l’ambulatorio sta per chiudere. Due uomini la portano gemente in una tenda.

La mattina dopo i migranti si mettono in fila per andare in canoa fino a un campo più grande vicino all’autostrada, da dove partiranno per la Costa Rica. Temendo che non ci sia posto per tutti, cominciano a litigare in varie lingue su chi è arrivato prima. “È così tutti giorni”, mi dice un agente. Vedo la donna dell’ambulatorio addormentata su una panchina. Il più piccolo dei suoi figli, un bambino di otto anni, le tiene la testa in grembo, accarezzandole i capelli e cacciando le mosche.

A un tratto io e Lynsey sentiamo gridare. Andiamo di corsa verso una casa dipinta di rosa che affitta camere ai migranti: dentro c’è una famiglia di cinesi che ieri abbiamo incontrato all’ambulatorio. Hanno tutti la febbre da giorni. Questa mattina il nonno Yenian Shao, 70 anni, non si è svegliato. Le guardie di frontiera mandano a chiamare un investigatore locale, che arriva dopo un’ora. Con un’app di traduzione sul telefono, il figlio di Yenian chiede se il corpo può essere cremato o rimandato in Cina, ma non capisce la risposta. Le autorità mettono il cadavere in un sacco e lo caricano su una canoa. Per seconda sale la moglie, scavalcando il sacco con dentro il cadavere, seguita dal resto della famiglia. Gli abitanti del posto spazzano via l’immondizia dalle strade. Dall’altra parte del fiume stanno arrivando i primi migranti della giornata.

Strategie in conflitto

Ad aprile siamo tornate a Panamá per visitare Puerto Obaldía, un sonnolento villaggio di pescatori vicino al confine con la Colombia. Le case, un tempo dipinte con colori vivaci, si sono sbiadite con il passare degli anni. Ci sono pochi modi per fare soldi da queste parti. Un modo erano i migranti. Sbarcavano a Puerto Obaldía partendo dalla Colombia. La gente del posto gli vendeva da mangiare, li lasciava accampare e si faceva pagare per organizzare la tappa successiva del viaggio: su voli charter per Città di Panamá da una minuscola pista o sui pescherecci per raggiungere un altro villaggio lungo la costa, dove c’è una strada asfaltata collegata all’autostrada per uscire dal paese. Questo fino al 2015, quando per la prima volta i migranti passati per il Darién sono stati quasi trentamila e gli Stati Uniti hanno chiesto alle autorità panamensi d’inasprire i controlli. Gli abitanti di Puerto Obaldía sono stati arrestati e accusati di traffico di persone.

Un gruppo di persone sta per raggiungere il confine con Panamá nel Darién, 12 dicembre 2023 (Lynsey Addario, The Atlantic Monthly with support from National Geographic Society)

Al nostro arrivo, la città è nel pieno della campagna per l’elezione del nuovo sindaco. Tutti promettono di far tornare i migranti, ma nessuno sa come. I candidati che ho intervistato, e alcuni residenti, ammettono che in passato la città è stata sull’orlo del collasso. A un certo punto, nel 2015, c’erano 1.500 migranti accampati in una cittadina di seicento abitanti. Ma la situazione, dicono, era comunque migliore di ora, per tutti.

Le traversate in barca non si sono mai fermate, ma la loro gestione è passata alle organizzazioni criminali, che le pubblicizzano come opzione “vip” e fanno pagare più di mille dollari a persona. Le barche partono dopo il tramonto, anche quando il mare è molto agitato, e a volte si ribaltano. Quest’anno sono annegate almeno cinque persone, tra cui un bambino afgano.

“È colpa del governo se ci sono stati questi morti”, dice Alonsita Lonchy Ibarra Parra, una delle candidate. Un suo avversario, Luis Alberto Mendoza Peñata, spiega che si sono rivolti alle autorità per sapere come mai i migranti possono riposarsi a Bajo Chiquito ma non a Puerto Obaldía. “Scriviamo lettere, ma non rispondono. Se a Panamá l’immigrazione è illegale, perché lì è permessa e qui no?”, chiede.

Il problema è che gli Stati Uniti stanno facendo pressioni su Panamá e su altri paesi latinoamericani affinché diano un’ulteriore stretta all’immigrazione. Panamá ha accettato un contributo di sei milioni di dollari da Washington per i voli di rimpatrio. In più, gli Stati Uniti chiedono al paese di costruire dei centri di detenzione come quelli lungo il loro confine con il Messico. Il presidente José Raúl Mulino, eletto a maggio, in campagna elettorale aveva promesso la chiusura totale del Darién. Ma la prima iniziativa in questo senso, annunciata nel 2023 da Stati Uniti, Panamá e Colombia, non ha avuto risultati: più di mezzo milione di persone hanno completato la traversata, il numero più alto di sempre. A giugno le autorità panamensi hanno installato una recinzione di filo spinato lungo il confine, nello stesso punto dove abbiamo attraversato noi. Meno di una settimana dopo, qualcuno ha fatto un buco nella recinzione e i migranti hanno ricominciato a passare.

L’ambasciatrice statunitense a Panamá, Mari Carmen Aponte, e altri funzionari del dipartimento di stato che ho intervistato mi hanno detto che Washing­ton vuole bilanciare la deterrenza con una serie di programmi per tutelare la sicurezza dei migranti. Per esempio, sta aprendo uffici nella regione per intervistare le persone che chiedono lo status di rifugiato. La speranza è di approvare fino a cinquantamila richieste d’ingresso diretto entro l’anno, molte più che in passato.

L’elemento chiave di questi controlli, spiegano i funzionari, è distinguere tra i rifugiati e i migranti economici. Ma la maggior parte delle persone non lascia il suo paese per un motivo solo. Molte di quelle che ho incontrato nel Darién sanno quali casi hanno la meglio nei tribunali statunitensi e sono preparate a enfatizzare gli aspetti della loro storia con cui hanno più possibilità di mettere al sicuro i figli.

All’improvviso tutti e tre si sono sentiti mancare il terreno sotto i piedi

Troppo spesso, inoltre, deterrenza e protezione non sono strategie complementari, ma in conflitto. Quando ho raccontato ad Aponte di Puerto Obaldía, dove la repressione ha consegnato i migranti nelle mani dei cartelli della droga e ha fatto aumentare il numero di chi sceglie di attraversare la giungla, ha ammesso che non aveva mai pensato alla questione in modo così netto. Ha capito che sta cercando di scegliere “tra due soluzioni estreme, nessuna delle quali funziona”.

A Puerto Obaldía ho scoperto che a gennaio il governo aveva fatto una sorta di concessione agli abitanti del posto, autorizzando l’apertura di un piccolo campo a circa quattro ore a piedi dalla cittadina. Io e Lynsey siamo andate sul posto accompagnate da alcuni agenti. Nelly Ramírez, una venezuelana di 58 anni, era accasciata su una panchina. Il secondo giorno nella giungla, insieme alla figlia e a quattro nipoti, era scivolata e si era rotta una gamba. La sua famiglia ha continuato la traversata. Una donna che lavora nel campo le ha dato da mangiare e un’amaca per dormire. Ramírez non ha soldi e non sa che fare.

Due giorni dopo alcuni agenti che ci avevano accompagnato si sono presentati al campo molto presto. Non per indagare su chi rapina e aggredisce i migranti nella giungla o organizza traversate mortali in barca a prezzi esorbitanti. Ma per accusare i gestori del campo di favorire il traffico di esseri umani con la vendita di viveri e connessioni wifi. Il campo è stato dato alle fiamme.

Anni di attesa

Il gruppo di María Fernanda si spacca ancora prima di uscire dalla giungla, quando qualcuno viene sorpreso a consumare delle provviste che aveva tenuto nascoste dicendo di aver finito tutto come gli altri. Dopo aver attraversato l’America Centrale, chi può permetterselo prende un autobus espresso per Città del Messico. Gli altri dormono nei rifugi o per strada.

Una delle famiglie più povere è stata rapinata nel sud del Messico. Manda messaggi disperati al gruppo, chiedendo soldi. Quasi tutti rispondono che non gli è rimasto niente.

Orlimar e sua cugina Elimar non si parlano più. Hanno litigato a una stazione di pullman in Honduras, quando Elimar, stanca di aspettare che Bergkan racimolasse in giro soldi a sufficienza per proseguire, ha comprato i biglietti per sé e per i suoi figli. Ha detto a Orlimar che se ne stava andando solo pochi istanti prima di salire sul pullman.

A Città del Messico Elimar ha fatto domanda per un colloquio con dei funzionari dell’immigrazione statunitense attraverso l’app Cbp one della Us customs and border protection, creata per scremare gli arrivi alla frontiera. Dopo un mese, però, ha perso la pazienza e ha trovato qualcuno che portasse illegalmente lei e i bambini oltre il confine. Si è autodenunciata alle autorità migratorie e l’udienza per discutere il suo caso è stata fissata nel 2029. Attese così lunghe non sono rare. Ora Elimar vive in un appartamento alla periferia di Dallas, dove i figli si sono iscritti alla scuola pubblica. Fa le pulizie negli uffici e il suo fidanzato lavora come cuoco in un ristorante di una grande catena.

Una volta arrivati nel sud del Messico, Bergkan e la sua famiglia hanno viaggiato su una serie di furgoni chiamati combis, il modo più economico per spostarsi lungo le pericolose strade rurali del paese. Hanno perso il conto delle volte che i narcotrafficanti, i poliziotti e gli agenti dell’immigrazione messicani sono saliti sul furgone e gli hanno chiesto una mazzetta. Dai centroamericani e dai caraibici pretendono più soldi che dai venezuelani, perché sanno che questi sono i più poveri di tutti. L’ultimo gruppo di uomini armati ha chiesto solo cento pesos a persona, circa cinque euro. “Non è tanto”. Sedici giorni dopo essere partiti da Bajo Chiquito, sono arrivati a Città del Messico.

Ora Bergkan tira avanti facendo dei lavoretti: ha rilegato dei manuali scolastici in una fabbrica e ha fatto il muratore in un cimitero. La famiglia vive in un appartamento di due stanze in un seminterrato con una decina di altri venezuelani. Hanno fatto domanda per entrare negli Stati Uniti con Cbp one e stanno aspettando che chiamino il loro numero.

Quando qualcuno muore nella giungla, il corpo di solito viene mangiato dagli animali o portato via del fiume, oppure si disintegra nel terreno. A volte, però, capita che si ritrovi. Le autorità panamensi offrono versioni contrastanti sul numero dei morti trovati nella giungla, da un minimo di trenta a un massimo di settanta all’anno. In ogni caso è una stima per difetto. In una comunità sperduta che si chiama El Real, Luis Antonio Moreno, un medico locale, mi ha raccontato che una fossa comune scavata nel 2021 si è riempita in poco tempo dei corpi di centinaia di migranti: il doppio, se non il triplo, delle cifre ufficiali.

Da diciotto anni Moreno gestisce il fatiscente ospedale di El Real. L’obitorio della struttura è uno dei tanti dove sono portati i corpi ritrovati nel Darién. Moreno sostiene di aver maneggiato i resti di persone “di ogni paese e di ogni età”. Alcuni arrivano con i documenti di identità ancora sigillati nelle buste di plastica portate da casa. Altri sono solo ossa. Si commuove raccontando due casi che gli sono capitati l’anno scorso: un padre e un figlio che sono annegati insieme; quando glieli hanno portati, i loro corpi erano ancora abbracciati. E un padre e un figlio uccisi con un colpo di pistola alla testa.

L’obitorio è vicino alla cucina dell’ospedale e il fetore è spesso insopportabile. A marzo del 2023 il Comitato internazionale della Croce rossa, che ha creato un programma per aiutare le famiglie a rintracciare i parenti scomparsi nelle traversate, ha fatto costruire nel cimitero locale un mausoleo con loculi per centinaia di corpi. Si sta riempiendo velocemente.

Poco tempo fa, durante una cerimonia di inumazione, alcuni dipendenti del comune con le tute di protezione chimica hanno deposto dodici sacchi bianchi nelle tombe. Dieci avevano una targhetta con la scritta desconocido, ignoto. Su una c’era il nome di un uomo partito dal Venezuela, che era stato identificato dalla famiglia. Poco prima che l’ultimo sacco, il più piccolo, fosse deposto nel mausoleo, un addetto della Croce rossa l’ha aperto e ha messo una medaglietta al polso della bambina haitiana di otto anni che c’era dentro.

Verso nord
Persone migranti che hanno attraversato la giungla del Darién per paese di origine, migliaia (Migración Panamá, Nazioni unite, The Economist)

L’acqua alla gola

Dopo essere partita da Panamá ho mandato un messaggio al numero di telefono che era sul volantino di Khánh, il bambino di nove anni scomparso a Bajo Chiquito. Il numero è di Bé Thi Lê, la madre. Thi Lê è una madre single. In Vietnam lavorava nell’amministrazione scolastica, ma ha perso il posto all’inizio della pandemia. Ha cominciato a guardare dei video della traversata del Darién pubblicati dai trafficanti su YouTube; il viaggio le sembrava fattibile. Alcuni parenti già emigrati negli Stati Uniti le hanno mandato dei soldi per pagarle gli spostamenti. Lei e il figlio hanno viaggiato per quasi un mese prima di raggiungere la giungla: sono arrivati in aereo a Taiwan, poi in Francia, poi in Brasile. Da lì hanno attraversato il Perù e l’Ecuador in autobus e in auto per arrivare finalmente nel nord della Colombia.

Thi Lê mi manda delle foto e dei video che ha fatto al figlio durante il viaggio, in posa sulle barche e alle stazioni di transito. In un video, Khánh è seduto sul letto di una camera d’albergo e usa l’app Duolingo per fare pratica con l’inglese. Si sta esercitando a dire la frase “Yes, coffee ­with milk, please”, e azzecca tutte le parole tranne l’ultima.

Nella giungla gli spostamenti erano lentissimi e si sono ritrovati quasi subito a corto di provviste. Il quinto giorno hanno guadato un fiume, identico a decine di altri che avevano già attraversato. Nessuno dei due sapeva nuotare, perciò si sono attaccati al braccio di un ecuadoriano di nome Juan. La pioggia, che cadeva insistentemente da tutto il giorno, ha cominciato a scendere ancora più forte, e l’acqua ha cambiato improvvisamente colore, da trasparente a marrone: era il segno di un’alluvione improvvisa. “L’acqua mi arrivava appena alle ginocchia. Poi, due passi più avanti, me la sono trovata alla gola”, racconta.

All’improvviso tutti e tre si sono sentiti mancare il terreno sotto i piedi. Thi Lê ha afferrato un masso per tenersi a galla. Juan ha provato a fare lo stesso, ma lo zaino gli si è riempito d’acqua, trascinandolo a fondo. Khánh ha perso la presa. Juan e Thi Lê hanno faticosamente raggiunto uno spiazzo di spiaggia e hanno guardato verso il punto in cui la corrente aveva trascinato Khánh: il bambino non c’era più.

Mentre se ne stava seduta sulla spiaggia, senza parole e incapace di muoversi, Thi Lê ha sentito le forze scivolarle via dal corpo. Alcune persone del gruppo le hanno detto di aver sentito Khánh chiamare “mamma” mentre veniva trascinato via, le hanno fatto le condoglianze e si sono rimessi in marcia. Alla fine Juan l’ha convinta a proseguire in modo da denunciare l’accaduto e cercare aiuto per ritrovare il figlio. Due giorni e mezzo dopo erano sulla scalinata a Bajo Chiquito.

Le guardie alla frontiera hanno usato una app di traduzione per raccogliere la testimonianza di Bé Thi Lê. Le hanno consigliato di proseguire per il campo più grande vicino all’autostrada e di fare rapporto anche lì. Lei ha seguito il loro suggerimento, poi ha chiesto al fratello, che vive a Boston, di arrivare in aereo per aiutarla. Sono tornati insieme a Bajo Chiquito e hanno appeso i volantini che ho visto anch’io. Le autorità non le hanno dato la sensazione di voler cercare Khánh, ma le hanno spiegato che non poteva fare ricerche private. Su insistenza del fratello, Thi Lê si è rivolta alle autorità statunitensi e ha fatto richiesta di asilo, poi è partita per Boston, dove ha cominciato a lavorare in un centro estetico.

“Mio figlio è sempre stato con me, da quando è nato. Non ho un marito, quindi ci sono dei momenti in cui non ci sto con la testa”, mi confida. “Non sono cosciente. Fisicamente sono ancora qui ma emotivamente no, perché mi manca”.

Senza un corpo da piangere, Thi Lê è ossessionata dall’idea che Khánh possa essere stato tirato fuori dall’acqua o trascinato a riva dalla corrente. Pensa che possa essere stato rapito, che forse qualcuno si è preso cura di lui ma è ferito oppure non si ricorda il suo numero di telefono. Pensa che stia ancora aspettando che lei lo vada a prendere. Dopo che le ho scritto, per settimane mi ha mandato quasi ogni giorno dei messaggi supplichevoli: “Ti prego, aiutami a trovare mio figlio”.

Quando ho contattato un rappresentante dell’Icrc per parlargli di Khánh, l’organizzazione ha aggiunto il suo nome alla lista di migranti che sta provando a rintracciare. Dopo mesi ancora non ci sono notizie. Bé Thi Lê continua a scrivermi. “Cosa pensi sia successo a mio figlio?”, mi ha chiesto in uno degli ultimi messaggi. “Aspetto sempre notizie del mio bambino”. ◆ fas

Caitlin Dickerson è una giornalista del mensile statunitense The Atlantic. Nel 2023 ha vinto il Pulitzer nella categoria Explanatory reporting.

Lynsey Addario è una fotoreporter statunitense vincitrice di due premi Pulitzer.

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Questo articolo è uscito sul numero 1584 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati