Più di un mese dopo il dispiegamento di navi militari statunitensi nelle acque del mar dei Caraibi, presentato da Washington come un’operazione per intercettare la droga proveniente dal Venezuela e diretta verso gli Stati Uniti, il paese sudamericano è in una situazione di stallo. La minaccia di Donald Trump di estendere gli attacchi al territorio venezuelano non ha chiarito il panorama. La dimostrazione di forza degli Stati Uniti, che a settembre hanno attaccato quattro imbarcazioni venezuelane provocando 17 vittime, ha isolato il presidente del Venezuela Nicolás Maduro. Ma, invece di accelerare il risultato finale, ha spinto il paese verso quella che gli esperti chiamano la nebbia della guerra. Maduro ha agito con astuzia, lanciando una campagna di resistenza antimperialista per presentarsi come vittima di un’aggressione esterna e decretando uno stato di emergenza che gli garantisce la copertura legale per portare avanti la repressione.
Dal suo nascondiglio, la leader dell’opposizione María Corina Machado ribadisce che la fine del regime chavista è vicina, ma niente lascia pensare che sia così. Nel frattempo l’America Latina distoglie lo sguardo. La Colombia e Cuba hanno condannato gli attacchi statunitensi, mentre il Brasile e il Cile hanno chiesto “una soluzione pacifica al conflitto”. L’Argentina, l’Ecuador e il Salvador sono dalla parte di Trump. Il resto dei paesi ha preferito tacere, lasciando mano libera a Washington.
Pressione dall’esterno
Non è sempre stato così. Quando gli Stati Uniti invasero Panamá, nel 1989, per deporre il dittatore Manuel Antonio Noriega, la reazione fu più energica. Il Messico negoziava il trattato di libero scambio con il suo vicino del nord, ma il presidente Carlos Salinas de Gortari contrastò l’iniziativa di Washington. Anche il Venezuela condannò l’intervento, nonostante gli Stati Uniti rappresentassero il suo primo mercato petrolifero. All’epoca il presidente venezuelano Carlos Andrés Pérez disse che “le nazioni latinoamericane non hanno agito con il coraggio necessario né con la determinazione richiesta per affrontare la crisi di Panamá. Abbiamo perso l’occasione di risolvere tra noi un problema americano, e sono stati altri a risolverlo al posto nostro”. Queste parole sono un avvertimento davanti alla paralisi attuale: se gli altri paesi della regione non agiranno con coraggio e determinazione, il Venezuela potrebbe diventare l’ennesima occasione persa.
Pensando a situazioni del passato in cui la reazione regionale era stata più forte, ho consultato Jorge Castañeda, ex cancelliere messicano e uno degli analisti più acuti dei processi latinoamericani. “La dittatura di Maduro è indifendibile, anche per i paesi amici. In questo contesto criticare gli Stati Uniti significa correre il rischio di sostenerla, e nessuno vuole farlo, per buone ragioni”, mi ha detto. “Trump ha creato attriti con tutti i governi latinoamericani. Per loro è difficile, con i problemi che già hanno, denunciare le pressioni di Washington sul Venezuela”. In altre parole, il prezzo da pagare è troppo alto, anche per i governi che si oppongono a Maduro.
Castañeda sottolinea altri due punti che evidenziano la debolezza dell’America Latina. “Oggi non c’è un’omogeneità ideologica paragonabile a quella degli anni novanta e dei primi anni duemila. Inoltre né il Brasile né il Messico, le due maggiori democrazie della regione, hanno una leadership abbastanza credibile per negoziare con Maduro e Trump”.
La frammentazione regionale accentua il paradosso: molti vorrebbero che Maduro abbandonasse il potere, ma non osano avallare un’operazione militare che potrebbe destabilizzare l’intera regione. Il risultato è che la soluzione della crisi venezuelana sembra essere interamente nelle mani degli Stati Uniti.
Di recente lo statunitense Richard Grenell, inviato per le missioni speciali, ha confermato che è ancora in contatto con il governo di Maduro, per volontà di Trump. In passato i negoziati sono falliti e hanno prodotto ondate repressive, eppure gli opinionisti concordano sul fatto che il regime di Maduro non cadrà senza una pressione straordinaria dall’esterno.
Da Washington, voci come quella dell’ex ambasciatore John Feeley pensano a una soluzione pacifica: “Gli Stati Uniti non hanno mai mantenuto più di tre navi nei Caraibi e hanno sempre sostenuto di avere risorse limitate. Ora il governo spende centinaia di milioni per missili strategici e mezzi anfibi che probabilmente non saranno mai usati”.
Secondo lui l’attenzione dovrebbe concentrarsi sul piano economico e diplomatico, non su quello militare. “Si potrebbe fare pressione su Colombia e Brasile affinché fermino il traffico illegale d’oro dal Venezuela. L’attività per contrastare il contrabbando di droga, oro e petrolio danneggerebbe materialmente il regime senza la teatralità delle minacce belliche”.
Questione delicata
L’opposizione venezuelana dovrebbe prendere in considerazione queste idee, perché affidare tutte le speranze a Trump è pericoloso. La soluzione militare potrebbe raggiungere l’obiettivo nell’immediato, ma anche trasformarsi in un vaso di Pandora con pesanti ripercussioni regionali. Il punto centrale sarebbe il riconoscimento della vittoria di Edmundo González Urrutia alle scorse elezioni presidenziali e l’avvio di un processo di transizione democratica.
L’ostacolo maggiore è sempre lo stesso: come assicurare l’uscita di scena di Maduro e della nomenclatura chavista in un percorso di giustizia di transizione? La questione è delicata, ma comunque meno problematica di una campagna militare in Venezuela, che potrebbe causare molte vittime innocenti e compromettere l’integrità territoriale del paese.
Il rischio è che Trump decida di risolvere con droni e bombe una crisi che l’America Latina non ha saputo affrontare. Le bombe non danneggerebbero solo Maduro e la sua cerchia, ma anche la possibilità di una transizione negoziata. Trattare è sicuramente meglio che bombardare, sotto ogni punto di vista. ◆ as
Boris Muñoz è un giornalista venezuelano nato nel 1969. Vive negli Stati Uniti. È autore di diversi libri, tra cui Despachos del imperio (Debate 2007).
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Questo articolo è uscito sul numero 1634 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati