A Sarajevo qualcuno li chiamava “cecchini del fine settimana”. Persone che sarebbero arrivate nella capitale bosniaca per sparare ai civili intrappolati nella città assediata dalle forze dei serbi di Bosnia, tra l’aprile 1992 e il febbraio 1996. Per 1.425 giorni Sarajevo fu presa di mira da forze militari, di polizia e probabilmente da “turisti cecchini” che fecero precipitare la città multietnica in un “inferno medievale”, per dirla con le parole dei procuratori del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia.
Più di 11.500 persone sono state uccise e almeno altre 50mila ferite, anche da cecchini stranieri civili, come sospetta la giustizia italiana che ha aperto un’indagine contro ignoti per “omicidio volontario con l’aggravante della crudeltà e dei motivi abietti”. Il tribunale di Milano sospetta che diversi italiani abbiano partecipato a questi macabri “safari umani”.
Il pubblico ministero Alessandro Gobbis cercherà di identificare questi individui, che avrebbero pagato fino all’equivalente di centomila euro, per andare a “giocare alla guerra” e uccidere civili indifesi che cercavano di procurarsi provviste, legname, acqua. O che provavano a lasciare una città sottoposta a pesanti bombardamenti e al tiro di cecchini che li prendevano di mira agli incroci o sui viali, come il tragico “sniper alley” (viale dei cecchini)”, una lunga strada dritta e senza incroci.
Il lungo esposto
Sarajevo è circondata dalle montagne e ha tanti punti panoramici elevati, con vista sul centro e le zone periferiche di più recente costruzione. Tantissimi edifici con tetti e grandi finestre a vetri servivano da postazioni agli assassini durante gli anni dell’assedio, soprattutto nei palazzoni del quartiere di Grbavica.
L’apertura di questa indagine si deve a due elementi. Innanzitutto è stata avviata a seguito della denuncia del giornalista e scrittore italiano Ezio Gavazzeni, 66 anni, che la scorsa primavera ha presentato un esposto. Durante il conflitto in Bosnia aveva letto articoli che menzionavano la probabile presenza di “turisti di guerra” che sparavano ai cittadini di Sarajevo. Solo voci? Leggende metropolitane? Della vicenda si parlava da anni. Era infatti nota agli abitanti della capitale della Bosnia Erzegovina e ad alcuni giornalisti, ma non era stata mai documentata né provata. “La trasmissione del documentario Sarajevo safari, del regista sloveno Miran Zupanič, del 2022, ha riacceso il mio interesse”, ha spiegato Gavazzeni al quotidiano la Repubblica l’11 novembre.
Gavazzeni ha condotto indagini in Italia e nei Balcani. Ha trovato una fonte nei servizi bosniaci, un certo Edin Subašić, che gli ha fornito informazioni sulla cronologia e su fatti specifici. I servizi bosniaci sarebbero venuti a conoscenza di questi safari alla fine del 1993. Avrebbero quindi contattato il Sismi (i servizi segreti italiani, ora Aisi) per informarli della testimonianza di un volontario serbo, che durante un interrogatorio dopo la cattura aveva raccontato di aver viaggiato con cinque stranieri, tra cui tre italiani, da Belgrado, in Serbia, a Sarajevo.
Gruppi di “cacciatori” si sarebbero ritrovati a Trieste, da dove prendevano un aereo per la Serbia e poi un elicottero per raggiungere Pale (roccaforte dei serbi di Bosnia) e andare a sparare a Sarajevo o Mostar, la principale città della Bosnia occidentale. Ci sarebbero quindi dei complici in Serbia, ma probabilmente anche in Italia, in particolare in Piemonte e in Lombardia.
Ezio Gavazzeni dichiara di aver raccolto numerose prove che ha trasmesso al pubblico ministero Gobbis. Nell’intervista a la Repubblica, il giornalista assicura che in quegli anni di conflitto ci sono stati “almeno un centinaio” di turisti di guerra.
L’avvocato Nicola Brigida, che ha contribuito a elaborare l’esposto di Gavazzeni insieme all’ex magistrato Guido Salvini, parla di “un fascicolo con indizi seri e di reale gravità che meritano di essere approfonditi dai magistrati. I cecchini, l’assedio di Sarajevo, i civili presi di mira, la presenza tra le milizie serbe o croate di stranieri senza nazionalità identificata, eccetera. Non ci stiamo inventando nulla. La magistratura non ha avviato le indagini sul nulla. I nostri sospetti sono fondati. Sono convinto che la giustizia riuscirà a identificare i colpevoli”, spiega l’avvocato.
In passato si era parlato della presenza di turisti cecchini russi, statunitensi o canadesi. “È possibile che indagando su individui italiani la giustizia accerti responsabilità straniere in questa inchiesta molto seria appena avviata”, aggiunge l’avvocato Brigida, che preferisce non scendere nei dettagli delle 17 pagine dell’esposto di Gavazzeni. Contattata da Libération, la procura francese non aveva ancora risposto il 14 novembre alla nostra richiesta di informazioni.
Testimonianza in tribunale
Negli Stati Uniti l’iniziativa della magistratura italiana non è passata inosservata. La deputata del Partito repubblicano Anna Paulina Luna il 13 novembre ha dichiarato di aver avviato un’indagine su questa vicenda. Secondo il New York Post, si è messa in contatto con il consolato bosniaco e l’ambasciata italiana per capire se dei cittadini statunitensi abbiano effettivamente partecipato a questi crimini. “Pagare per sparare ai civili, e peggio ancora, sparare ai bambini, è un atto diabolico che il nostro paese non può tollerare”, ha scritto Luna su X.
L’apertura dell’indagine italiana è stata inoltre motivata da un’azione dell’ex sindaca di Sarajevo, Benjamina Karić. Dopo la diffusione del documentario Sarajevo Safari ha presentato una denuncia alla giustizia bosniaca che ha avviato un’inchiesta. Al momento però non sono stati forniti ulteriori elementi. Su consiglio di Nicola Brigida, Karić ha trasmesso quest’estate un rapporto alla giustizia italiana. “Non credo che si tratti di centinaia di persone, ma questi elementi di prova sono credibili, in parte già noti e ripetuti da anni”, osserva Hikmet Karčić, dell’Istituto di ricerca sui crimini contro l’umanità e il diritto internazionale dell’Università di Sarajevo. “E anche se fosse coinvolta una sola persona, bisogna perseguirla e assicurarla alla giustizia. È un peccato che ci siano voluti 30 anni perché la vicenda tornasse a galla”.
Questa storia era già stata menzionata nel 2007, ma allora era passata in gran parte inosservata. Il 21 e 22 febbraio di quell’anno un uomo aveva testimoniato davanti al Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, all’Aja, nel processo contro Dragomir Milošević, un ex generale dell’esercito serbo-bosniaco, accusato di crimini contro l’umanità e violazioni delle leggi o consuetudini di guerra, in particolare per le sue azioni contro la popolazione di Sarajevo. Milošević fu poi condannato a 29 anni di carcere.
John Jordan era un ex marine statunitense diventato vigile del fuoco. Arrivato a Sarajevo per dare supporto ai soccorritori nella capitale bosniaca assediata, dichiarò di essersi imbattuto nei “turisti cecchini”, in particolare nel quartiere di Grbavica. I suoi colleghi ne avrebbero avvistati altri a Mostar, attraversata da una linea del fronte durante la guerra del 1992-1995. Anche se Jordan ammette di non averli visti sparare, ricorda la presenza di persone strane che “non mi sembravano abitanti del posto”. Questi individui venivano “guidati e spostati verso postazioni note di tiratori scelti, da uomini che conoscevano bene il territorio”, con cui loro “non avevano affatto familiarità”, ha spiegato Jordan ai giudici all’Aja. In particolare ha insistito nel descrivere il loro abbigliamento, al tempo stesso civile e militare, e i loro equipaggiamenti: “Quando uno si presenta con un’arma che sembra più adatta alla caccia al cinghiale nella Foresta Nera che al combattimento urbano nei Balcani, e vedi come la maneggia, capisci chiaramente che non è abituato a muoversi tra le macerie”. Il vigile del fuoco volontario aveva inoltre fatto riferimento a persone che “avrebbero pagato per andare a Sarajevo a sparare sulla gente dalle postazioni serbe”. Aveva anche descritto come i cecchini prendessero di mira bambini e donne, scene alle quali aveva assistito più volte di persona.
È un incubo
Il Tribunale penale internazionale si era anche interessato ad alcuni video inseriti nel fascicolo d’accusa contro Ratko Mladić e Radovan Karadžić, rispettivamente capo militare e leader politico dei serbi di Bosnia. Durante un’udienza nel luglio 1996 la squadra del procuratore aveva ricordato alcune immagini girate dalla televisione serba quattro anni prima. In esse si vedeva Karadžić sfilare come un reuccio da quattro soldi sulle alture di Sarajevo e pronunciare, da fanatico, elucubrazioni bellicose e vendicative. Il leader dei serbi di Bosnia passeggiava in compagnia di Eduard Limonov, scrittore sovietico e punk nazionalista, diventato uno dei pupilli dei fautori della grande Serbia. Da una collina si vedeva lo scrittore sparare con un mitragliatore dotato di cannocchiale sulla città sottostante.
All’epoca però la giustizia non aveva indagato più a fondo. “Il Tribunale penale internazionale non aveva tempo, probabilmente neanche le prove, e si era concentrato sui casi importanti come Srebrenica e i principali responsabili: Mladić e Karadžić”, prosegue Hikmet Karčić, dell’Istituto di ricerca sui crimini contro l’umanità. “In Bosnia la giustizia ha aperto un fascicolo per mostrare di aver avviato un’azione legale, ma ha già parecchio da fare con i 450 procedimenti in corso per crimini di guerra. È un incubo. E quindi è positivo che dei magistrati italiani si stiano occupando di questa vicenda: metterà pressione sulle autorità locali e nei Balcani”. In attesa che gli investigatori si mettano sulle tracce di altri turisti cecchini stranieri. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1641 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati