Lesbo brucia e l’Europa sta a guardare

Il fuoco ha risparmiato delle biglie colorate: è tutto ciò che resta della baracca che per dieci mesi è stata la sua casa, sulla collina ricoperta di ulivi nel campo profughi più grande d’Europa. Tutto il resto è cenere, lamiere deformate, container ridotti a scheletri, carboni ancora incandescenti, esalazioni d’immondizia bruciata. Moria, il centro d’identificazione (hotspot) costruito nel 2015 con i fondi dell’Unione europea, è stato distrutto da una serie di incendi cominciati l’8 settembre. Le fiamme hanno lasciato senza alloggio 12.500 persone, tra cui circa quattromila bambini. Hassan Mohammed, un giovane somalo di 24 anni, guarda le sue biglie. Non mangia da giorni e dorme in mezzo alla sterpaglia insieme a due amici. Dopo l’incendio migliaia di persone si sono accampate sulla strada che collega Moria al centro abitato di Mitilene, senza ricevere assistenza dal governo. I negozi lungo la strada sono stati chiusi e le organizzazioni umanitarie che distribuivano i pasti nel campo non riescono a raggiungere tutti gli sfollati. Così in molti soffrono la fame, la mancanza d’acqua e di cure mediche. A questo si aggiungono le preoccupazioni legate al covid-19.

Mohammed ha la testa e la bocca coperte da un fazzoletto per proteggersi dal caldo torrido degli ultimi giorni, ma anche per non ammalarsi. Alcuni ragazzi somali che vivevano nella sua stessa baracca hanno contratto il nuovo coronavirus. Prima degli incendi, nel campo risultavano contagiati 35 migranti. “Non avevano sintomi”, racconta incredulo Mohammed. Erano stati isolati all’interno della struttura ma, dopo il rogo, se ne sono perse le tracce. Per le autorità greche, con il caos provocato dall’incendio il virus potrebbe essersi diffuso, e i contagiati potrebbero essere più di duecento su un’isola in cui vivono centomila persone.

Già a marzo gli esperti avevano avvertito che un’epidemia nel campo avrebbe potuto provocare una catastrofe, per l’impossibilità di garantire il distanziamento fisico e per le scarse condizioni igieniche. Ma l’unico provvedimento preso dal governo greco era stato imporre un lockdown di sei mesi, 176 giorni. Chi violava il confinamento rischiava una multa di 150 euro. Ora le autorità accusano i residenti di Moria di aver appiccato l’incendio per protestare contro il lungo isolamento. Ma per le organizzazioni umanitarie che lavoravano all’interno del campo, l’incendio è “una catastrofe annunciata”. Marco Sandrone, coordinatore dei progetti di Medici senza frontiere (Msf) a Lesbo, ricorda che “gli incendi nel campo sono stati frequenti e numerosi anche in passato e hanno causato diversi morti”. Da gennaio a oggi ci sono stati almeno duecento roghi, spesso provocati dalle stufe o dai fornelli a gas, altre volte appiccati dai profughi o dagli abitanti di Lesbo per protesta.

Da mesi gli abitanti dell’isola contestano la presenza dei profughi e la proposta del governo di costruire nuovi campi. Sono state attaccate anche le organizzazioni umanitarie. Per Sandrone “era prevedibile che Moria collassasse” ed è stato “un miracolo” che non ci siano state vittime anche questa volta. Quando è stato costruito, il centro avrebbe dovuto ospitare al massimo tremila persone per pochi giorni, il tempo di registrarle prima di trasferirle sulla terraferma e in altri paesi europei in base alle quote stabilite. Invece i trasferimenti sono stati sospesi e il sistema è entrato in crisi, perché alcuni paesi dell’Unione europea non hanno accettato la loro quota di richiedenti asilo. Così Moria è diventato un campo sovraffollato, arrivando a ospitare anche ventimila persone con scarso accesso ai servizi igienici, all’acqua e all’elettricità.

Stato d’emergenza

Dopo il rogo il governo greco guidato dal conservatore Kyriakos Mitsotakis ha chiarito che nessun profugo o richiedente asilo lascerà l’isola e ha proclamato lo stato d’emergenza per motivi sanitari, inviando a Lesbo militari e forze speciali. Migliaia di persone rimaste senza alloggio sono finite per la strada, ammassate nel parcheggio di un supermercato o negli uliveti intorno al campo, qualcuno è andato a dormire addirittura in un cimitero. “Moria era un luogo terribile, era un inferno. Ci abbiamo vissuto un anno, tra mille difficoltà, ma almeno avevamo da dormire”, spiega Samira Rajabzadeh, una ragazza afgana di 24 anni, che tiene in braccio un bambino di dieci mesi e aspetta un secondo figlio. “Dopo l’incendio, ci hanno lasciato senza cibo, senz’acqua, senza cure mediche”. È seduta sul ciglio della strada in un riparo costruito dalla sua famiglia con qualche coperta salvata dall’incendio. “Se non riescono ad aiutarci, perché non ci lasciano andare via?”, chiede la donna, scappata dall’Afghanistan con il marito, la madre e le sorelle.

Nonostante le proteste dei richiedenti asilo e degli abitanti di Lesbo, il ministro greco dell’immigrazione Notis Mitarachi ha deciso di allestire una tendopoli in un’ex base militare di fronte al mare. Il nuovo campo avrà una capienza di tremila posti, ma secondo Mitarachi arriverà gradualmente a ospitare tutti quelli che sono rimasti senza alloggio. A differenza di Moria, sarà chiuso da una recinzione e una volta entrati i richiedenti asilo non potranno più uscire. “I migranti saranno sottoposti a un test rapido all’ingresso e i contagiati saranno isolati in una tenda all’interno del campo”, ha spiegato Manos Logothetis, segretario per l’accoglienza dei richiedenti asilo del ministero dell’immigrazione. Quando la voce di un nuovo campo ha cominciato a circolare, i profughi hanno organizzato sit-in e proteste. “Non vogliamo un altro campo, non vogliamo un’altra Moria”, hanno scritto sui cartelli. “Libertà, libertà”, hanno gridato, marciando in massa fino al blocco stradale imposto dalla polizia. Ma il 12 settembre le forze dell’ordine sono intervenute lanciando gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti, ferendo anche donne e bambini. Il giorno successivo il governo ha diffuso dei volantini in cui ha spiegato che chi non accetterà di entrare nella nuova tendopoli non potrà ottenere asilo e non sarà trasferito dall’isola. “È una punizione collettiva”, dice Asterios Kanavos, un avvocato dell’ong Refugee Support Aegean. “Tende assiepate che lasciano presagire un nuovo inferno”. Ma per Kanavos la decisione di Atene è in continuità con le politiche adottate finora. A gennaio è entrata in vigore una nuova legge che ha reso molto difficile ottenere asilo. A marzo il governo greco aveva addirittura sospeso per un mese la possibilità di chiedere asilo, in seguito alla minaccia della Turchia di aprire le frontiere con la Grecia.

Numerose inchieste hanno dimostrato che da marzo i greci respingono sistematicamente le imbarcazioni di migranti che provano a solcare l’Egeo per raggiungere le isole greche dalla costa turca. Questa prassi, contraria al diritto internazionale, avrebbe fatto diminuire gli arrivi, già notevolmente ridotti a partire dall’accordo con la Turchia nel marzo del 2016.

Ma in tutta la vicenda la grande assente è l’Unione europea: si è limitata a proporre lo stanziamento di altri fondi per costruire un nuovo centro di prima accoglienza a Lesbo, stavolta gestito direttamente dai funzionari europei. Francia e Germania hanno proposto di accogliere i 400 minori non accompagnati che sono stati portati via dall’isola dopo l’incendio. Poi, il 15 settembre, il governo tedesco ha annunciato che accoglierà 1.553 profughi provenienti dagli hotspot della Grecia. Entro il 23 settembre l’Unione dovrebbe adottare un nuovo Patto europeo sull’immigrazione, di cui si discute da mesi. Ma l’indifferenza con cui molti stati hanno reagito alla drammatica situazione di Lesbo rende difficile pensare che i 27 paesi europei stiano per cambiare atteggiamento sull’immigrazione.

Mentre si prepara a trascorrere l’ennesima notte sulla strada, Zainab Naderi, una ragazza afgana di 19 anni, è sconfortata: “Abbiamo perso la speranza”. Naderi ha una protesi a una gamba fin da bambina e non ce la fa più a dormire per terra. La mostra come un atto d’accusa contro le autorità, che non si occupano neanche dei più vulnerabili. A fianco a lei, seduta sotto un ulivo, c’è Farah Amuhashemi, che ha un figlio di quattro anni. Il bambino dorme steso su una coperta, stremato. “Non mangia da giorni”, dice la madre. ◆

Annalisa Camilli è una giornalista di Internazionale. Ha scritto _La legge del mare. Cronache dei soccorsi nel Mediterraneo (Rizzoli 2019)._

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Questo articolo è uscito sul numero 1376 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati