Quando ho letto La vegetariana di Han Kang (premio Nobel per la letteratura nel 2024), ho capito subito di trovarmi davanti a una delle scritture più intelligenti e raffinate della narrativa contemporanea. Sotto la storia di una donna che smette di mangiare carne si nascondevano riflessioni su controllo autoritario, desiderio e volontà di vivere un’esistenza “meno sbagliata”. Il libro bianco si discosta dai suoi romanzi precedenti: è una meditazione frammentaria sulla morte della sorellina della narratrice, vissuta solo due ore. Han Kang descrive con semplicità la madre di 22 anni che partorisce da sola e tenta di nutrire la neonata con una tenerezza disperata. Scritto durante una residenza a Varsavia, il libro riflette sull’idea di ricostruzione e memoria: come una colonna rimasta intatta dopo un bombardamento del 1944, la presenza della sorella diventa parte della storia dell’autrice. Han Kang elenca oggetti bianchi legati alla nascita, alla morte e al lutto: garze, latte, ossa, nebbia, sperando che la scrittura stessa diventi una cura, un unguento bianco posato su una ferita. Attraverso immagini di neve, silenzio e fragilità, Han trasforma il bianco in un linguaggio del dolore e della purezza. A tratti il testo sfiora una “psicogeografia del lutto”con una calma dignità. Il libro bianco è un testo misterioso, forse una preghiera laica, che commuove quando la narratrice si rivolge direttamente alla sorella: “Volevo mostrarti solo cose pulite, prima della brutalità e del dolore”.
Deborah Levy,The Guardian
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Questo articolo è uscito sul numero 1639 di Internazionale, a pagina 83. Compra questo numero | Abbonati