Quando Donald Trump è stato rieletto presidente degli Stati Uniti, i funzionari di Taiwan erano piuttosto ottimisti. Tra i suoi consiglieri c’erano molti falchi oltranzisti sulla Cina, convinti che gli Stati Uniti dovessero mantenere l’impegno ad aiutare Taiwan a difendersi contro qualsiasi attacco proveniente da Pechino. I diplomatici e i comandanti dell’esercito taiwanese ricordavano inoltre il primo mandato di Trump, durante il quale Washington aveva aumentato la vendita di armi e i contatti ufficiali con l’isola. Oltretutto Taiwan dispone di uno “scudo al silicio”: ospita il più grande produttore mondiale dei semiconduttori usati dal settore dell’intelligenza artificiale statunitense. Meno di un anno dopo, Taiwan affronta una delle sue paure più profonde: e se gli Stati Uniti l’abbandonassero? Ufficialmente la politica di Washington non è cambiata. Ma Trump è impegnato a negoziare un accordo con la Cina che potrebbe includere anche Taiwan. Non solo. Il presidente statunitense ha colpito Taiwan con dazi commerciali più pesanti rispetto a quelli imposti al Giappone e alla Corea del Sud, ha chiesto a Taipei un incremento delle spese per la difesa fino al 10 per cento del pil (dal 2,5 per cento dello scorso anno) e ha chiesto alla Tsmc, l’azienda taiwanese leader mondiale nella produzione dei chip, di spostare gran parte della sua capacità produttiva negli Stati Uniti. Tra gli altri segnali preoccupanti c’è il rinvio di visite di passaggio negli Stati Uniti del presidente taiwanese Lai Ching-te già programmate e la mancata approvazione di nuove vendite di armi all’isola.
Nel frattempo, gran parte dei falchi anticinesi sono stati allontanati dalla Casa Bianca lasciando il posto a funzionari isolazionisti che vogliono mettere in sicurezza prima di tutto gli Stati Uniti. E i funzionari cinesi continuano a premere su Washington perché diminuisca il suo impegno con Taiwan, opponendosi in modo esplicito a qualsiasi passo verso la dichiarazione di un’indipendenza formale dell’isola.
Taipei sostiene che le relazioni con gli Stati Uniti restano molto forti. Nelle ultime settimane però i funzionari taiwanesi si sono affannati ad adeguare a questi sviluppi messaggi pubblici, diplomazia, politica economica e programmazione nella difesa per convincere Trump a mantenere l’impegno statunitense. Stanno però cominciando a valutare il rischio che il presidente statunitense possa fare un “affarone” strategico con il presidente cinese Xi Jinping a spese dell’isola.
Questo spostamento è stato evidente nel discorso pronunciato il giorno della festa nazionale, il 10 ottobre, dal presidente Lai Ching-te. Le sue osservazioni sulla Cina continentale sono state particolarmente moderate. Dopo essere arrivato al governo, nel 2024, Lai aveva fatto una serie di commenti pubblici che avevano fatto arrabbiare Pechino e innervosito alcuni funzionari statunitensi, anche nel discorso del 10 ottobre 2024. In risposta, la Cina aveva organizzato imponenti esercitazioni militari accusando Lai di separatismo e avvertendolo di non “giocare con il fuoco”. Stavolta il presidente si è mosso con cautela, a quanto pare per non disturbare i negoziati commerciali di Trump.
Budget speciale
Un’altra differenza rispetto al discorso di un anno fa è evidente nell’impegno di Lai ad aumentare la spesa per la difesa. Ha promesso di portarla fino a oltre il 3 per cento del pil nel 2026 e farla arrivare al 5 per cento entro il 2030. Ha inoltre svelato piani per la costruzione di un sistema di difesa aerea su Taiwan denominato “t-dome”. Si è poi impegnato ad affiancare entro la fine dell’anno un “budget speciale per la difesa” alle spese regolari per il settore. Anche se sarà difficile ottenere l’approvazione in parlamento, secondo i funzionari potrebbe valere fino a 33 miliardi di dollari, molti dei quali forse da spendere per acquistare armi statunitensi.
Questi piani rientrano nel tentativo di convincere Trump che Taiwan sta investendo nella difesa. E il modo in cui sono stati presentati riflettono la consapevolezza che le precedenti attività di pressione negli Stati Uniti erano troppo tarate sui falchi anticinesi, la cui influenza sta svanendo. Perfino il nome “t-dome” è stato scelto per attirare l’attenzione di Trump, suggerendo un paragone con il Golden dome, il suo sistema di difesa missilistico. Lai ha inoltre preso l’insolita iniziativa di partecipare a una popolare trasmissione radio statunitense di destra il 7 ottobre, in cui ha detto che Trump meriterebbe il Nobel per la pace se riuscisse a convincere Xi ad abbandonare l’idea di usare la forza contro Taiwan. Poco dopo Lai ha incontrato Matt Schlapp, attivista politico statunitense di destra invitato a Taipei dal principale centro di studi militari dell’isola.
Partner alternativi
Contemporaneamente a quest’offensiva d’immagine, Lai ha rafforzato senza troppo clamore i rapporti con altri partner. I funzionari taiwanesi sono riluttanti a fornire i dettagli, per il rischio che la Cina penalizzi i paesi coinvolti. L’attenzione è rivolta ai droni e ad altre tecnologie militari “asimmetriche”. Negli ultimi tempi gli sforzi di cooperazione sembrano essersi concentrati sull’Europa, dove sta aumentando la spesa militare in risposta all’invasione russa dell’Ucraina. A settembre, durante la principale fiera di armi a Taiwan, i governi e le aziende europee avevano più rappresentanti del solito. Tuttavia è improbabile che i partner europei e altri paesi forniscano a Taiwan prodotti di grande valore, dato il rischio di ritorsioni da parte di Pechino. Ci sono però margini per una cooperazione discreta tra aziende della difesa. Taiwan è un fornitore alternativo di componenti elettronici ad alta tecnologia per quei paesi che cercano di ridurre la dipendenza dalla Cina anche nel settore, spiega Lai Chun-kuei dell’istituto governativo di ricerca su democrazia, società e tecnologie emergenti. In cambio, Taiwan punta a ottenere tecnologie e competenze per rafforzare le sue capacità interne.
Nessuno di questi progetti sarebbe sufficiente a compensare un’eventuale scomparsa delle garanzie di sicurezza statunitensi. Tuttavia Taiwan spera non tanto di trovare un sostituto degli Stati Uniti, quanto di rafforzare le sue capacità difensive al punto da convincere Xi Jinping che i costi di un’invasione, sia pure vittoriosa, supererebbero i benefici. Senza Washington, però, questo obiettivo potrebbe essere irraggiungibile. Ma non c’è un piano alternativo migliore di questo. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1638 di Internazionale, a pagina 33. Compra questo numero | Abbonati
 
			 
        
                 
                     
                     
                     
	                 
	                 
	                 
            