Nella carne racconta la vita di István che conosciamo come un adolescente psicologicamente isolato e taciturno e seguiamo fino a quando diventa un uomo di mezza età, ancora psicologicamente isolato e taciturno. István viene trascinato dalle correnti della vita: una relazione con una vicina più anziana che si conclude in tragedia e violenza, un periodo nell’esercito, il trasferimento dall’Ungheria a Londra, una vertiginosa scalata attraverso le classi sociali britanniche e, infine, un ritorno stoico e malinconico nella città dove è cresciuto. Fondamentale è che nel percorso di István non c’è assolutamente nulla dell’eroe alla ricerca di sé. Szalay tratteggia un uomo sbattuto qua e là da forze fuori del suo controllo, che si tratti dei desideri erotici o materiali di chi lo circonda, delle fluttuazioni dell’economia globale o delle politiche estere interventiste e razzializzate dell’Unione europea. István, così passivo e fatalista, ha qualcosa del viandante esistenziale, un incrocio tra il Meursault dello Straniero di Camus e Forrest Gump. Dal punto di vista stilistico Nella carne è tutto osso. Szalay è sempre stato un maestro della frase scarna e tagliente ma in questo romanzo ha spinto il suo minimalismo ancora oltre. Su circa 330 pagine, l’effetto complessivo è quello di un’austerità controllata. Questo romanzo non parla solo di ciò che non viene detto: parla anche di ciò che è fondamentalmente indicibile, delle cose ineffabili che stanno al centro di ogni vita.
Keiran Goddard, The Guardian

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Questo articolo è uscito sul numero 1635 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati