Il primo film di fiction della documentarista iraniana-australiana Noora Niasari è un ottimo veicolo per il talento incendiario di Zahra Amir Ebrahimi, protagonista dell’acclamato Holy spider. Quel thriller parlava di misoginia, complicità omicida e follia a Teheran. Pure Shayda, anche se è ambientato a Melbourne, si scaglia provocatoriamente contro la mascolinità tossica iraniana. Ebrahimi interpreta Shayda, una madre traumatizzata che non vuole arrendersi e vive con la figlia Mona (Selina Zahednia) in un rifugio per donne, nascondendosi dalle grinfie del marito Hossein (Osamah Sami), studente di medicina violento e irascibile. Eppure il comportamento dell’uomo è difeso, non solo dalle tradizioni del suo paese di origine, ma anche dalla madre di Shayda che la giudica “irrazionale” per voler sfuggire a un marito religioso che presto potrà permettersi una grande casa a Teheran. Cosa sarà mai un po’ di violenza domestica? Niasari trasforma l’atmosfera iniziale quasi documentaristica in qualcosa di più simile al thriller. La minaccia costituita da Hossein è sempre più onnipresente e inquietante. Ma è Ebrahimi, con la sua intensità d’acciaio, a tenere insieme il film. Shayda è prodotto, tra gli altri, da Cate Blanchett.
Kevin Maher, The Times
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Questo articolo è uscito sul numero 1622 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati