Oppenheimer è stato giustamente elogiato per i suoi precedenti lungometraggi, The act of killing e The look of silence, due documentari straordinariamente audaci per il modo in cui affrontano il genocidio in Indonesia. Anche The end è nato come documentario su un magnate del petrolio impegnato a convertire un ex complesso sovietico in Repubblica Ceca in un rifugio per la sua famiglia. Dopo aver visto il bunker, però, Oppenheimer si è fissato con l’idea di filmare la famiglia dopo che aveva vissuto venticinque anni nel bunker. In assenza di una vera apocalisse, e anche per non dover aspettare venticinque anni, il regista si è deciso a trasformare il tutto in una storia di finzione. La trama di questo musical (un genere che si sposa bene con i temi della negazione e dell’illusione) è semplice: una famiglia di privilegiati ha vissuto sottoterra per anni insieme al maggiordomo e al medico mentre in superficie il mondo brucia in seguito a una catastrofe non specificata. Poi, per la prima volta da chissà quando, arriva una sconosciuta. Tutto qui. Anche se, a seconda della vostra percezione e del vostro entusiasmo (ce ne vuole visto che il film dura quasi due ore e mezza) si affrontano tanti grandi temi come il perdono, la memoria, l’amare e il vivere. Il film è insieme avvincente e piatto. Sembra mancare l’ingrediente inafferrabile per parlare di un capolavoro, ma non dovremmo sorprenderci se, tra un paio di decenni, qualcuno lo considerasse tale.
Nick Howell, LondonEvening Standard

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Questo articolo è uscito sul numero 1621 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati