Bombardare un paese straniero senza chiedere il via libera al congresso, che è stato ignorato anche quando si è trattato di imporre dazi doganali facendoli passare per un’emergenza nazionale. Congelare unilateralmente alcune spese approvate dal congresso e smantellare intere agenzie indipendenti previste dalla legge. Prendere il controllo della guardia nazionale di uno stato (la California), anche se il governatore di questo stato è contrario, e occuparlo come e quanto si vuole. Accettare regali da un paese straniero, per esempio un aereo da quattrocento milioni di dollari, anche se la legge lo vieta. Lanciare criptovalute per raccogliere finanziamenti da investitori anonimi. Usare il dipartimento di giustizia per colpire i propri avversari e chiunque faccia delle critiche. Lodare pubblicamente gli amici che hanno guadagnato milioni di dollari in poche ore grazie agli scossoni in borsa provocati dalla proprie dichiarazioni. Usare il potere di grazia per salvare i propri sostenitori più violenti, come quelli che hanno preso d’assalto il Campidoglio il 6 gennaio 2021.
Da quando è tornato alla Casa Bianca Donald Trump si è esibito in svariate uscite sconcertanti che possono farlo passare per una meteora impazzita destinata a infrangersi contro la realtà. Invece, dietro questa cortina fumogena c’è un’azione molto lucida che punta a obiettivi precisi, soprattutto allo smantellamento del gioco di pesi e contrappesi alla base del sistema democratico statunitense, un incastro di limiti e norme costruito per impedire a chiunque, innanzitutto all’inquilino della Casa Bianca, di esercitare un potere assoluto e illimitato. Controllare e dominare chiunque per Trump è l’unico modo per soddisfare un ego abnorme che non prova sentimenti per nessuno, compresi gli statunitensi che lui dice di voler fare di nuovi grandi, che gli hanno creduto ma a molti dei quali sta per togliere l’accesso all’assicurazione sanitaria.
Tutto ciò che impedisce la marcia di Trump verso il potere assoluto va spazzato via a ogni costo. Da tempo, per esempio, la Casa Bianca è impegnata a sottomettere la Federal reserve (Fed), la banca centrale degli Stati Uniti, e in particolare il suo presidente, Jerome Powell, che si sta dimostrando un ostacolo molto più duro del previsto. Gli attacchi si ripetono costantemente in forma di invettive piene di insulti. Trump ha definito Powell, tra l’altro, stupido, testardo come un mulo, brutta persona, testa vuota, e gli ha affibbiato il nomignolo spregiativo “too late”, troppo tardi. Il 30 giugno, attraverso la portavoce Karoline Levitt, ha fatto circolare addirittura una nota scritta su una lista di paesi che hanno i tassi d’interesse più bassi di quelli applicati dalla Fed. Trump dice: “Jerome, come al solito, sei troppo in ritardo. Sei costato agli Stati Uniti una fortuna e continui a farlo. Dovresti abbassare il costo del denaro di un bel po’. Sono andati in fumo centinaia di miliardi di dollari senza che ci sia inflazione”.
Il nodo della discordia è il costo del denaro. Attualmente i tassi di riferimento stabiliti dalla Fed sono intorno al 4,5 per cento. Secondo Trump, dovrebbero scendere all’1 o al massimo al 2 per cento. Da gennaio, invece, la banca centrale continua a tenerli invariati. Powell ha spiegato la decisione con la necessità di “aspettare e vedere”, cioè capire gli effetti sull’inflazione delle politiche economiche di Trump, in particolare dei numerosi ed esorbitanti dazi imposti al resto del mondo, misure che dovrebbero ripercuotersi (in peggio) sui prezzi pagati dai consumatori statunitensi e quindi sull’inflazione.
La Casa Bianca invece non ha molta voglia di aspettare: il 3 luglio Trump è riuscito a far approvare dal congresso la sua nuova legge finanziaria, che ha chiamato One big beautiful bill act (una grande e bellissima legge), i cui obiettivi principali sono l’estensione dei tagli fiscali favorevoli ai più ricchi e alle multinazionali introdotti nel 2017, durante il primo mandato del presidente e in scadenza alla fine del 2025, e l’aumento della spesa per le forze armate e per il controllo dell’immigrazione, in particolare per le espulsioni di massa degli stranieri.
La legge prevede tagli alla spesa, tra cui quelli al Medicaid (l’assicurazione sanitaria per le persone con un reddito basso), ma secondo gli esperti potrà essere finanziata solo ricorrendo a un massiccio aumento del debito pubblico, che negli Stati Uniti già è a livelli preoccupanti: l’Ufficio di bilancio del congresso (Congressional budget office, Cbo), un’agenzia federale che fornisce al congresso studi sui conti pubblici, stima che la legge finanziaria di Trump entro il 2034 aggiungerà al bilancio federale altri 3.300 miliardi di dollari di debiti, dal momento che prevede minori entrate (soprattutto a causa dei tagli alle tasse) per 4.500 miliardi e maggiori uscite per 1.200 miliardi.
Dovendo finanziare tutti questi nuovi debiti, Trump non può tollerare una Fed che tiene i tassi sopra il 4 per cento, perché vorrebbe dire sostenere una spesa per gli interessi enorme anche per un grande paese come gli Stati Uniti. Grazie ai tassi bassi, inoltre, la Casa Bianca spera di far crescere il pil a ritmi elevati. Gli farebbe comodo un presidente della banca centrale pronto a ubbidire ai suoi ordini e abbassare il costo del denaro a un suo cenno. Un modello che ricorda quello seguito (con conseguenze disastrose) dalla banca centrale turca con il presidente Recep Tayyip Erdoğan. Solo che mandare via Powell, il cui mandato scade nel maggio del 2026, non è facile come pensava Trump. Il Financial Times spiega che il presidente della Fed si sta rivelando una personalità particolarmente resistente alle pressioni della politica: da quando è in carica “è sempre sembrato molto ansioso di dimostrarsi un buon amministratore della banca centrale, estremamente attento a come sarà giudicato nei libri di storia della finanza”.
Ma c’è di più. Finora Powell ha evitato di rispondere agli attacchi di Trump, limitandosi ad affermare che le decisioni della Fed dipendono esclusivamente dall’analisi dei dati economici. Di recente, tuttavia, ha detto che “la nostra indipendenza è una questione legale”, sottolineando il fatto che l’autorità dell’istituto è protetta dalla legge statunitense. Si riferiva al precedente costituito da una sentenza emessa nel 1935 dalla corte suprema, noto come Humphrey’s executor. Novant’anni fa il massimo organo giudiziario statunitense stabilì che William Humphrey, ex capo della Federal trade commission (l’autorità antitrust degli Stati Uniti), era stato licenziato senza giusta causa dal presidente Franklin D. Roosevelt. Da allora negli Stati Uniti nessun dirigente di un’agenzia federale indipendente può essere mandato via dal presidente, a meno che non si macchi di corruzione o di una negligenza evidente.
La Fed ovviamente è protetta dall’Humphrey’s executor (Powell di sicuro non è corrotto né incapace), ma con un presidente che si sente al di sopra della legge e disprezza apertamente qualsiasi forma di controllo democratico niente può essere dato per scontato. Tanto più che la corte suprema, composta in maggioranza da giudici molto vicini all’attuale presidente, sta lavorando a un caso che ricorda quello del 1935: Trump ha licenziato due dirigenti di altrettante agenzie federali indipendenti, Gwynne Wilcox del National labor relations board e Cathy Harris del Merit systems protection board. Wilcox e Harris hanno fatto ricorso in tribunale appellandosi all’Humphrey’s executor. Per ora i giudici gli hanno dato ragione, ma presto l’intervento della corte suprema potrebbe cambiare tutto in favore di Trump. Lo stesso Powell, d’altronde, ha ammesso che la Fed sta seguendo il caso “attentamente”.
Ma anche se alla fine la corte suprema aprirà una breccia nella roccaforte della Fed, bisognerà fare i conti con la prevedibile reazione dei mercati, che in questi mesi non hanno certo mandato segnali positivi a Trump. Colpendo la banca centrale, la Casa Bianca abbatterebbe una delle ultime (forse l’ultima) istituzioni del paese ancora credibili. Come osserva Bloomberg, l’economia statunitense si regge da sempre su tre pilastri: la promozione del commercio internazionale, i conti pubblici relativamente in ordine e una banca centrale indipendente. Trump ha già distrutto i primi due pilastri e ora con la Fed rischia di scatenare “una tempesta economica perfetta”.
Si è visto un assaggio di quello che potrebbe succedere quando, il 25 giugno, Trump ha fatto sapere che voleva nominare il successore di Powell già quest’estate, mesi prima della scadenza del mandato. Nelle sue intenzioni si sarebbe trattato di una sorta di “presidente ombra” fedele alla Casa Bianca, che inevitabilmente avrebbe finito con l’influenzare le decisioni della banca centrale. Il dollaro ha subito perso lo 0,7 per cento rispetto a valute come la sterlina inglese e l’euro, scendendo ai livelli più bassi dal 2022. A quel punto Washington è intervenuta affermando che la decisione sulla nomina del successore di Powell “non è imminente”.
Questo non vuol dire che Trump abbandonerà i suoi progetti. Tutt’altro. Da classico autocrate, parte all’attacco solo quando è sicuro della vittoria. In caso contrario si limita a tessere la sua tela, cercando il punto debole e il momento buono per intervenire, magari promettendo aperture, compromessi o marce indietro a cui in realtà non pensa minimamente di tener fede. L’errore di chi lo circonda, negli Stati Uniti e nel resto del mondo, è pensare che accontentare Trump sia il modo migliore perché si fermi. Forse hanno pensato questo i leader dei paesi del G7 quando, in occasione del vertice in Canada, hanno deciso di esentare le multinazionali statunitensi dall’imposta minima globale, il progetto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico che prevede un’imposta di base del 15 per cento per i gruppi che fatturano almeno 750 milioni di euro. L’iniziativa è osteggiata fortemente dall’amministrazione Trump, che nella sua “meravigliosa” legge finanziaria ha inserito la cosiddetta “tassa della vendetta”, cioè imposte aggiuntive per le aziende di paesi che infliggono “tasse sleali” alle multinazionali statunitensi.
Per ora uno dei pochi a non assecondare il bullismo di Trump resta Powell. Il 1 luglio, in occasione di un vertice di banchieri centrali a Sintra, in Portogallo, il capo della Fed ha detto che, se non fosse stato per i dazi voluti dalla Casa Bianca, la banca “avrebbe già fatto qualche taglio al costo del denaro”.
Questo testo è tratto dalla newsletter Economica.
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