“Mia madre è morta quando avevo otto anni e io sono morto quattro anni dopo”. Sembra un incipit molto cupo per un romanzo: i ricordi postumi di un orfano di Mosca che, nella sua breve vita, affronta violenza domestica e razzismo. Ma lo scrittore uzbeco esiliato Hamid Ismailov intreccia questa storia di miseria quotidiana a un’elegia luminosa per la Mosca del tardo periodo sovietico. Usa le stazioni della metropolitana della città, sontuose come palazzi, per costruire un memoir romanzato ispirato a episodi della sua stessa vita travagliata. Minacciato di essere arrestato perché il governo uzbeco considerava il suo giornalismo “inaccettabilmente democratico”, Ismailov fuggì da Tashkent all’inizio degli anni novanta e si stabilì infine a Londra, dove oggi lavora per la Bbc. Nel mezzo, da rifugiato, passò molti mesi a Mosca. Il figlio del sottosuolo esplora le complesse sfaccettature dell’identità russa, espresse in modi diversi nella musica, nell’arte o nell’architettura sovietica. Il narratore paragona la stazione Majakovskaja alla sinfonia n. 5 di Čajkovskij, mentre la sontuosa Kijevskaja gli ricorda “una figurina di Gžël o una miniatura laccata di Palekh… la vera essenza della vecchia Russia”. Canzoni, fiabe popolari, racconti inediti e versi poetici, scritti da Ismailov e da altri autori formano un mosaico scintillante come le decorazioni della metropolitana di Mosca. Mentre la società sovietica va in pezzi, i suoi frammenti diventano più grandi della somma delle parti.
Phoebe Taplin, The Guardian

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Questo articolo è uscito sul numero 1618 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati