L’uscita di Elon Musk dall’amministrazione statunitense, dopo appena quattro mesi, non risolve il caos nel governo guidato da Donald Trump né il conflitto d’interessi nato quando gli è stata affidata la commissione per l’efficienza governativa (Doge).
Questo periodo turbolento insegna che riformare lo stato è un compito difficile, per il quale servono studio, pianificazione e perseveranza. Musk si era proposto di combattere “sprechi, frodi e abusi”, cosa necessaria in qualsiasi amministrazione, e urgente in una che accumula deficit di bilancio e indebitamento. Ma ha messo l’accento su misure a effetto e ideologiche. Il Doge ha preso di mira settori come l’istruzione che, per il trumpismo, promuovono valori di sinistra e di militanza identitaria. Gli Stati Uniti hanno smantellato uno dei loro principali strumenti di soft power, l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale (Usaid), che forniva assistenza alle popolazioni più vulnerabili nel mondo. Più che occuparsi della riforma dello stato, Musk ha esercitato un’influenza su Trump nelle decisioni interne e in politica estera, almeno fino ad aprile, quando ha criticato i dazi sulle importazioni e l’aumento della spesa prevista nella proposta di legge di bilancio.
In particolare, ha lasciato una scia di potenziali benefici per i suoi affari privati. I dati sensibili dello stato e di milioni di statunitensi sono già finiti nelle sue mani o nella rete di autorità governative da lui nominate o sostenute, che in teoria saranno a sua disposizione. Ma c’è di più.
La Casa Bianca ha dichiarato che Musk continuerà a collaborare con i programmi di riforma, che non si interromperanno. Il fatto è che gli Stati Uniti rischiano di rimanere con un deficit fiscale elevato e in espansione. Finora la propaganda ideologica non ha reso la macchina statale meno costosa né più efficiente. ◆ cd
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Questo articolo è uscito sul numero 1617 di Internazionale, a pagina 17. Compra questo numero | Abbonati