In questo esordio poetico, la cantautrice folk e attivista Joan Baez attinge ai fatti della propria vita per cercare una catarsi. Scrivendo del suo trauma personale e delle esperienze vissute – dagli abusi familiari alla condivisione del palco con Jimi Hendrix – Baez cerca di liberarsi del dolore e di celebrare il proprio percorso. Le poesie della raccolta sono disomogenee e irregolari ma la cruda onestà dei suoi versi regge. Quello che manca in forma e ritmo, Baez lo compensa con una sincerità schietta e delicata. Questa sua apertura è anche una forma di protezione: modera le aspettative del lettore e attenua i criteri critici presentando la raccolta come una serie di “pensieri disordinati” e “scritture non scolastiche”. Ecco il fascino duraturo che Joan Baez continua a esercitare: la sua disponibilità a mostrarsi vulnerabile e autentica, sempre in relazione con gli altri. Sembra semplice, ma è una cosa molto complessa. Nel 1966 Joan Didion scrisse: “Baez cerca, forse inconsciamente, di aggrapparsi all’innocenza e alla turbolenza e alla capacità di meraviglia, per quanto fittizia o superficiale, della propria adolescenza e di quella altrui”. Didion sosteneva che le aspirazioni di Baez non fossero né il denaro né la fama e forse nemmeno la musica, ma la costruzione di legami; ed era questo, diceva, il fondamento del suo attivismo politico. Quasi sessant’anni dopo è difficile non notare quanto quella visione anticipasse la Joan Baez di oggi.
Sarah Norris, Chapter 16

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Questo articolo è uscito sul numero 1616 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati