La pietà può fruttare parecchio ma solo finché non si diventa troppo avidi. Se si esagera si corre il rischio di diventare dipendenti dal disastro. Ed è allora che cominciano i veri guai. Ed è esattamente ciò che accade a Javier “Javi” Perez, il protagonista dell’ottimo esordio di Andrew Boryga. La storia, presentata come un memoir scritto dallo stesso Javi, è al tempo stesso un atto di redenzione e di condanna. Come spiega fin dalla prima frase: “Non stavo cercando di fare la vittima, ma poi il mondo mi ha insegnato quanto sia potente come truffa”. Il romanzo si apre con l’infanzia di Javi. Nato nel Bronx da genitori portoricani della classe operaia, il suo passato può sembrare duro, ma dal suo punto di vista non è stato un inferno. La sventura si manifesta davvero quando, a dodici anni, assiste all’uccisione a colpi di pistola di suo padre. Sorprendentemente ne esce solo scosso, perché stava perdendo “una persona che era presente solo a metà.” Tuttavia Javi capisce presto che nella tragedia si nasconde un’opportunità. Presumendolo traumatizzato, gli insegnanti gli permettono di andare in infermeria ogni volta che vuole. È il suo primo assaggio dello sballo che si prova nell’essere una vittima. Questo è un romanzo avvincente che non solo ci affida il compito di decidere se Javi sia una vittima, un carnefice o entrambe le cose, ma ci costringe anche a interrogarci sulla nostra complicità nella mercificazione del ruolo della vittima.
Mateo Askaripour, The New York Times

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Questo articolo è uscito sul numero 1614 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati