Il mondo della moda ha da tempo forti legami con il mondo dell’arte. Basti pensare agli abiti di Yves Saint Laurent – a sua volta grande collezionista – con i riferimenti alla pop art o a Mondrian. Negli ultimi anni i due universi si sono ulteriormente avvicinati, fino a fondersi e in alcuni casi a confondersi. Alcune grandi case di moda si sono rivolte a famosi artisti contemporanei (di cui spesso acquistano le opere) chiedendogli di disegnare una linea di borse in edizione limitata o di inventare accessori destinati a diventare rapidamente oggetti da collezione.
Questa affinità tra arte e moda è evidente anche nel campo della fotografia. Ci sono sempre stati fotografi che hanno lavorato nella moda e che sono stati capaci di piegare l’abito alla loro visione del mondo. Autori come Richard Avedon o Irving Penn sono stati senza dubbio dei grandi artisti, così come lo sono oggi Sarah Moon o Paolo Roversi. Troppo spesso sono stati definiti “fotografi di moda” perché questo settore è stato l’aspetto più visibile o più importante della loro attività, ma in realtà sono prima di tutto fotografi. E sono anche artisti, come dimostrano le numerose mostre che musei, fondazioni e gallerie gli dedicano.
Di recente è emerso anche un altro tipo di profilo: giovani artisti che usano la fotografia e che mettono la loro creatività al servizio della moda e del lusso, facendone una professione. Pensiamo a Viviane Sassen o a Tyler Mitchell, in poco tempo diventati delle celebrità.
Anche Arielle Bobb-Willis ha pubblicato su Vogue, sul New York Times o su Vanity Fair – tra l’altro firmando delle campagne di moda per Hermès, Valentino e Nike – ma il suo sembra un caso a parte per il percorso e per il tipo di relazione che ha con la fotografia.
Le sue immagini sono immediatamente riconoscibili grazie a un uso molto particolare del colore. Tinte sature, esaltate dalla luce, come se fossero illuminate dall’interno e con accostamenti inaspettati; capaci di creare delle grandi campiture cromatiche, di inventare spazi e di trasformarli in scene in cui gli attori compiono strani movimenti.
La composizione è chiaramente determinata dal modo in cui le tinte sono accostate o si scontrano per determinare i volumi. I personaggi, che di solito non guardano l’obiettivo e di cui talvolta non si vedono nemmeno i volti, inventano delle figure che combinano fantasia, gioco e una sorta di surrealismo.
Anche se i colori dei loro vestiti si associano a quelli della scena, questi personaggi hanno completamente abbandonato le pose stereotipate del mondo della moda; evocano piuttosto dei ballerini contemporanei, sembrano ricordare più Pina Bausch e i balletti d’avanguardia che i gesti delle modelle della carta patinata.
In realtà quello che Arielle Bobb-Willis vuole evocare non è la danza ma la pittura. La fotografa, che dice di essere rimasta affascinata da Matisse quando era bambina, fa riferimento a numerosi artisti afroamericani, alcuni anche astratti, come Jacob Lawrence, Sister Gertrude Morgan, Mary T. Smith o Benny Andrews. Pittori che suo padre le ha fatto conoscere molto presto e che rimangono la sua fonte di ispirazione.
Bobb-Willis ha scoperto la fotografia all’età di 14 anni. Quando uno dei suoi professori le ha regalato una macchina fotografica, la magia della pellicola, della chimica, dell’attesa dello sviluppo dell’immagine hanno finito per convincerla di aver trovato il mezzo per esprimersi.
E oggi, nel momento in cui pubblica il suo primo libro, fa il punto sul suo percorso professionale.
Nata a New York nel 1994, Arielle Bobb-Willis ha dovuto abituarsi molto presto a vivere tra due famiglie, dopo il divorzio dei suoi genitori quando lei aveva cinque anni. Poi a 14 anni si è trasferita con sua madre in una piccola città della South Carolina. Un periodo difficile, caratterizzato da una profonda depressione, dopo il quale si è spostata a New Orleans, dove “ha veramente avuto la rivelazione del colore”. Bobb-Willis insiste sempre sul fatto che nei periodi difficili (oltre alla depressione, un grave incidente stradale l’ha bloccata a letto per diversi mesi) la fotografia è stata la sua salvezza: “L’ansia è qualcosa di universale. Alcune persone dipingono, altre praticano yoga, altre fanno esercizi per controllarla. Tutti possono trovare qualcosa che gli permette di sentirsi meglio. Io ho solo avuto la fortuna di trovare molto presto quello che mi avrebbe aiutato. La fotografia è la mia terapia”.
E cosa c’entra la moda con tutto ciò? “Penso che questo elemento dipenda da mia madre. Ho sempre amato i vestiti e la moda, ma non volevo abiti di marchi famosi per fare degli shooting. Così ho trasformato le camicie in gonne, ci ho fatto dei buchi o le ho allungate per farci entrare due persone. Una gonna non deve essere solo una gonna, può essere quello che vogliamo. Mi piace la moda in quanto gioco, è divertente, è una sorta di esplorazione. Per me il lusso è potermi fare i vestiti da sola, creare quelli che ho voglia di vedere o di cui ho bisogno in un determinato momento. La fotografia mi permette di mantenere viva la bambina che è in me. Mi ha insegnato a innamorarmi della vita. Mi piacerebbe che tutti somigliassero ai personaggi delle mie foto, sempre, che fossero delle macchie di colore”. ◆ adr
◆ Il libro Keep the kid alive, di Arielle Bobb-Willis, è pubblicato da Aperture. Contiene testi di Tiana Reid e di Nicole Acheampong.
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Questo articolo è uscito sul numero 1611 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati