Dal 2002, Mohammad Rasoulof ha realizzato otto lungometraggi, per la maggior parte prodotti clandestinamente. L’ultimo lo ha costretto all’esilio. Nel film Rasoulof cerca di descrivere i meccanismi interni del pensiero totalitario attraverso il prisma di una famiglia della classe media che cova sulle braci di un conflitto intergenerazionale. Il dramma è innescato da due eventi simultanei: la nomina del capofamiglia come giudice del tribunale rivoluzionario di Teheran e la nascita del movimento di protesta per la morte di Mahsa Jina Amini, 22 anni, “colpevole” di non aver indossato il velo correttamente. Riducendo l’orrore totalitario alla dimensione di un microcosmo familiare, Rasoulof mostra una indubbia intelligenza registica. L’ambientazione a porte chiuse, soffocante e recalcitrante (mostra i conflitti e anche i capelli delle donne) sembra affermare: “Questo è il massimo che posso filmare”.
Jacques Mandelbaum, Le Monde

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Questo articolo è uscito sul numero 1602 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati