Il bel libro della messicana Jazmina Barrera è fatto di escursioni tra diversi fari del mondo. “Probabilmente mi piacciono i fari perché sono disorientata”, scrive. Ma Barrera poi estende il suo sguardo verso il mare, ed è su questa immensità – che sia celeste, verde, blu, grigia o nera – che le sue divagazioni raggiungono le profondità del trascendente e del sublime. Una parte importante della storia è la reinvenzione delle esperienze del nonno e del padre di Richard Louis Stevenson, ingegneri e pionieri nella costruzione dei fari. Sir Walter Scott ha un posto di rilievo in questa trama: nel 1814 partecipò a un viaggio intorno alla Scozia a bordo di una nave chiamata Pharos, sulla quale viaggiava anche il nonno di Stevenson. Entrambi scrissero diari da cui Barrera seleziona episodi memorabili. Un altro raggio di questo libro luminoso proviene dalle digressioni personali dell’autrice. E quando Barrera si prende dei rischi, riesce nell’impresa: per esempio, sviluppa e conclude un racconto incompiuto che Poe scrisse poco prima di morire, in cui c’erano un guardiano del faro, il suo cane Neptune e quello che sembrava essere un secondo guardiano, tutti intrappolati nello stesso faro durante una violenta tempesta. Poe scrive che la marea si stava alzando, cosa che inquieta il protagonista, “perché il pavimento è sotto il livello del mare”. E da qui, Barrera si lancia nella sua versione di ciò che accadrà, con una scrittura spettrale, solida e concisa. Juan Manuel Vial, La Tercera

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Questo articolo è uscito sul numero 1417 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati