Ci sono molti volti, alcuni ritratti di fronte, altri di profilo o di tre quarti. Volti di uomini, donne, transessuali, giovani, anziani, adolescenti. Ci sono anche dei corpi, spesso nudi ma non erotici, di coppie, a volte mentre fanno l’amore. Ci sono paesaggi, alcuni in negativi a colori. Ci sono dei fuochi (a colori e in bianco e nero), la natura e la città, tinte e vibrazioni di grigio, autoritratti, immagini attaccate insieme con lo scotch su dei pannelli, come dei ricordi raccolti su un muro. Ci sono anche dei piani stretti su degli oggetti, una melagrana aperta con i semi rossi brillanti, un’accetta conficcata in un tronco d’albero dalle sfumature dolci, gli avanzi di un pasto. Una lista del genere potrebbe far pensare a un progetto collettivo, la produzione di fotografi che usano tecniche e formati diversi. Invece tutte queste immagini sono di un unico autore, JH Engström. Per la prima volta il fotografo svedese è tornato sui suoi lavori, fatti nel corso di venticinque anni, per metterli in una nuova prospettiva.

La cosa che stupisce di più in tutte queste foto, nonostante le differenze formali e l’attenzione alla spontaneità, è la loro coerenza. Una coerenza che deriva prima di tutto dalla necessità che ha accompagnato Engström, cinquant’anni, in tutta la sua vita: “Vado raramente da qualche parte per fotografare. Per lo più fotografo perché mi trovo da qualche parte. Per me la fotografia significa poesia”.

Dal libroTout va bien, 2015.

Queste fotografie infatti sono il frutto di una sincerità assoluta, che non lo ha portato a sviluppare uno “stile” ma a seguire una pratica scandita dall’esperienza quotidiana, dall’intensità dei sentimenti, dalle loro contraddizioni, dalla loro alternanza imprevedibile, dalla loro dipendenza dai fatti, dai luoghi, dagli istanti vissuti, dagli entusiasmi o dalle disillusioni. “Neanche nella fotografia posso separare l’oggettività dai sentimenti”, afferma Engström.

Foto pubblicata nei libri Trying to dance, 2004 e Revoir, 2016. (Tutte le foto © JH Engström. Per gentille concessione della galleria Jean Kenta Gauthier, Parigi)

Molte opere basate sulla sincerità hanno una componente autobiografica, ma di rado lo dichiarano apertamente. E altrettanto raramente mettono in evidenza questa dimensione personale senza cedere alla trappola del narcisismo. Al contrario Engström ha deciso fin dall’inizio di riconoscere questa dimensione intima. I suoi tanti autoritratti sono presentati in una moltitudine di estetiche diverse, che dimostrano fino a che punto il fotografo vuole essere presente nelle immagini che realizza. In bianco e nero o a colori, nudo o vestito, allo specchio o tenendo la macchina fotografica in mano, da giovane seduttore o con il volto malconcio e insanguinato. Engström registra o mette in scena molte immagini di sé, in cui non cerca mai di adulare né di costruire un personaggio: è se stesso e si fotografa.

Un dizionario personale

Dopo aver esplorato molti linguaggi – dall’uso della Polaroid a quello della macchina di grande formato, dai negativi a colori al digitale – ha sentito la necessità di ricorrere alla parola per trasgredire i limiti dell’immagine attraverso la scrittura. Come ha fatto nella sequenza d’immagini con la scritta “This is where I’m from” (È da qui che vengo) in vernice nera sul muro. Ha usato poi il muro per scrivere altre parole come: “Le temps”, “L’interprétation”, “La position”, “La vulnérabilité”, “Situation”. Il suo dizionario personale, che ha completato negli anni successivi con immagini in cui la vernice nera sgocciola su un muro bianco, rappresenta una performance indispensabile: nominare per riconoscere. Parole che parlano di fotografia, ma anche di un percorso di vita e di ciò che lo caratterizza nella quotidianità, poiché i due aspetti sono intimamente legati.

Dai libri Haunts, 2006 e Sketch of Paris, 2013.

JH Engström, nato nel 1969 nella regione del Värmland, terra di foreste, laghi e depositi morenici che lui ha fotografato e frequentato, si era trasferito a Parigi nel 1975, per poi tornare nel suo paese nel 1982. È stato di nuovo a Parigi nel 1991, dopo il servizio militare e dopo aver studiato cinema all’università di Karlstadt. Un’esperienza visibile nei suoi cortometraggi o nel documentario sul suo amico fotografo Anders Petersen.

Dal libro Härbage, Shelter, 1997.

Poi ha incontrato Mario Testino, che sarebbe diventato presto una star nella fotografia di moda per il suo modo di usare il colore, e ha cominciato a lavorare come suo assistente. Dopo un periodo di viaggi, ritmi di vita sfrenati e stancanti, nel 1993 ha deciso di tornare a Stoccolma e di contattare Petersen per proporsi come assistente.

“L’universo d’immagini che ho dentro, e che a volte stampo su carta, mi è molto prezioso. È ciò che credo definisca la mia libertà”

A questo periodo appartengono i ritratti che Engström ha fatto a un gruppo di donne senza dimora che vivevano in un rifugio. Le foto, realizzate sui negativi polaroid e in camera oscura, sono state pubblicate nel suo primo libro, Härbärge/Shelter, con la prefazione di Robert Frank, che Engström aveva sempre ammirato e a cui sarebbe rimasto vicino fino alla morte del fotografo statunitense nel 2019.

Dal libroTout va bien, 2015.

Dei due anni trascorsi a New York, dal 1999 al 2001, terminati con il suo divorzio rimangono, oltre ai ritratti degli amici, straordinari scorci della città dai colori sovraesposti, ai limiti del visibile, o dai vibranti bianchi e neri che evocano grandi fragilità. Un mondo instabile, come quello di una casetta di legno in Svezia che potrebbe essere l’ambientazione di una favola quanto servire per mettere in scena crimini atroci.

Dal libro From back home, 2009.

Come avere una casa

L’universo di Engström si rivela incerto, pieno di dubbi, e la sua necessità di tornare nel Varmländ rimane un elemento costante. Insieme a Petersen, anche lui originario di questa regione, Engström ha dedicato al suo paese un volume fondamentale come From back home, che ha vinto il premio del libro al festival dei Rencontres d’Arles, in Francia, nel 2009.

Dal libro Revoir, 2016.

I libri, che il fotografo cura in ogni dettaglio, sono centrali nella sua opera e alcuni sono particolarmente importanti, come Trying to dance, Tout va bien e Revoir. Di recente ha pubblicato Day by day, che con questo titolo esplicito racconta del suo trasferimento nel comune di Montreuil, alla periferia di Parigi. La pandemia ha rallentato la realizzazione di The frame, una serie di ritratti di uomini scattati durante gli ultimi trent’anni per indagare l’identità maschile. Engström sta anche lavorando alle sue immagini di rocce e di depositi morenici vecchi di milioni di anni: un’esplorazione della relazione tra l’essere umano e la natura. E ha molti altri progetti in cantiere.

Dal libroTout va bien, 2015.

Nel libro appena uscito, un numero a lui dedicato della collana Photo poche (Actes sud 2021), JH Engström ha scritto: “Penso che il fatto di esprimermi rappresenti una forma di rifugio. Avere questo privilegio è come avere una casa. Questo universo d’immagini che ho dentro, e che a volte stampo su carta, mi è molto prezioso. È ciò che credo definisca la mia libertà”.

Una libertà che, come uno sberleffo, gli permette di proporre un falso autoritratto tenendo uno specchietto in mano con cui riflette solo la luce intensa di un flash o del sole. Una libertà che è alla base della sua pratica e della sua identità di fotografo. ◆ adr

Da sapere
I libri

JH Engström ha pubblicato una ventina di libri tra cui Härbärge/Shelter (Bokförlaget DN 1997), Trying to dance (Journal 2004), Tout va bien (Aperture 2015). È uno degli autori più giovani a essere pubblicati nella collana Photo poche della casa editrice Actes Sud, in un volume che ripercorre tutta la sua opera.


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Questo articolo è uscito sul numero 1412 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati