Oggi che con i telefoni e i social network abbiamo la possibilità di comunicare rapidamente, le cartoline sembrano appartenere al passato. Ma l’apparenza non deve ingannare, perché anche se si spediscono sempre meno – magari ai nonni ansiosi durante le vacanze scolastiche – continuano a essere oggetti da collezione, come testimoniano i molti siti specializzati. C’è chi cerca con nostalgia le immagini antiche del suo paese o della strada dov’è nato, chi colleziona ritratti di attori famosi, chi accumula immagini di gatti o dromedari. Insomma, la lista è infinita e le possibilità illimitate.
La cartolina postale illustrata, inventata alla fine dell’ottocento, ha sempre provocato strane reazioni tra chi s’interessava alle immagini. Era un supporto ambito per i giovani fotografi che non riuscivano a pubblicare il loro primo libro. È proprio grazie alla cartolina del Baiser de l’Hôtel de ville, venduta in centinaia di migliaia di copie, che Robert Doisneau è diventato un autore popolare. Il teorico e critico del cinema francese Serge Daney, che partiva ogni anno alla scoperta di paesi allora poco visitati come lo Yemen, inviava delle cartoline ai suoi amici scrivendo solo l’indirizzo del destinatario. Le star del cinema e dello sport le usavano molto, per autografarle e scrivere dediche ai loro ammiratori.
Fin dalla sua infanzia, Walker Evans collezionava cartoline. Ne raccolse quasi diecimila. Erano per lo più fotografie di città e di paesi con la loro chiesa, la strada principale e i monumenti, scattate tra il 1900 e il 1930, spesso colorizzate. Anche se Evans non riuscì a pubblicare in vita il libro a cui stava lavorando e se il riconoscimento di queste immagini arrivò solo con le mostre postume, non si può negare che le cartoline hanno avuto una forte influenza sullo stile documentario del grande fotografo, che per tutta la vita si è interessato alla cultura popolare. Anche Martin Parr, collezionista di qualunque supporto fotografico, compresi quelli più kitsch (dal vassoio da bar agli orologi con i ritratti di dittatori), è un appassionato di cartoline. E Robert Frank non si è mai separato dall’enorme collezione di cartoline che comprava in modo compulsivo durante i suoi viaggi. L’artista brasiliano Vik Muniz ha dedicato una lunga serie alle cartoline. Nel suo lavoro, Muniz ha l’abitudine di trasformare ogni tipo di materiale in opere d’arte e di usare la fotografia per immortalare le sue composizioni – ironiche o critiche, simboliche o oniriche – in cui si materializza la sua conoscenza del mondo. Anche se l’artista torna raramente sui suoi progetti passati, la serie Postcards from nowhere, realizzata per lo più nel 2014 e nel 2015, è ancora in corso e continua ad arricchirsi d’immagini di città di tutto il mondo. Una serie che rimane fedele a una pratica postmoderna della fotografia e a un modo originale di appropriarsi delle immagini preesistenti per riflettere sul senso della rappresentazione.
Muniz si è fatto conoscere per aver realizzato delle nuvole con l’ovatta, dei paesaggi del pittore Jean-Baptiste Camille Corot con dei fili, il ritratto di Marilyn Monroe con dei diamanti, varie opere d’arte con la polvere, ritratti di bambini che lavorano nelle piantagioni di canna da zucchero con lo zucchero e numerose figure con il fildiferro. Per le sue opere ha usato i materiali più diversi: cioccolato, spezie, cibo, terra, escrementi, ketchup, corda, sangue artificiale, gettoni colorati, caviale, plastilina, giocattoli minuscoli, tessere del domino, pigmenti, rifiuti. Tutti questi supporti sono diventati la materia prima dei suoi tableaux fotografici.
L’ex scultore, nato nel 1961 a São Paulo e che vive ormai tra Rio de Janeiro e Brooklyn, anche se affronta in modo critico alcuni temi sociali ha sviluppato una riflessione personale sull’immagine e sul suo ruolo nel mondo contemporaneo.
Nelle sue numerose serie, Muniz ha citato molti artisti che lo interessano particolarmente, a cominciare da Andy Warhol e Jackson Pollock. Osserva da vicino la storia dell’arte dando vita nelle sue opere a un museo personale, in cui dà nuova forma ai dipinti di pittori del rinascimento italiano accanto ad artisti come Gauguin, Corot, Piranesi, Van Gogh, Constable, Cézanne, Friedrich, Monet o Malevič. Tutti lavori che ha “ricostituito” con materiali differenti a seconda dell’opera e della pratica dell’epoca, e poi fotografato.
Oltre che al mondo dell’arte, la sua curiosità si è rivolta alle immagini diffuse da giornali e riviste. Nel 1989 cominciò a lavorare alla serie Best of life, in cui ha ricostruito alcune delle più famose fotografie pubblicate sulla rivista Life, trasformandole in immagini quasi astratte. Una sorta di annuncio, in bianco e nero, del trattamento che avrebbe usato molti anni dopo nel progetto Pictures of magazines, in cui rifletteva sul concetto di riproduzione fotografica, sul modo in cui consumiamo le immagini – come quando sfogliamo rapidamente le riviste in aereo prima di scegliere l’articolo che leggeremo – e, al di là delle immagini, sul mondo che ci circonda e che rappresentano.
Tra vero e falso
La serie Postcards from nowhere ubbidisce a questa stessa logica di analisi dell’immagine, della sua riproduzione e della sua possibilità di rinascere in un’altra forma. Lo scopo è mettere in crisi la rappresentazione e spingere lo spettatore a interrogarsi su ciò che vede, sul modo in cui le immagini, comprese quelle che possono sembrare più banali o obsolete, sono alla base della nostra relazione con il mondo. Un approccio salutare in un momento come quello attuale, in cui si ha l’impressione che le immagini siano un elemento fondamentale delle nostre vite.
Nelle sue cartoline infatti Muniz mostra spesso gli stereotipi alla base di una percezione collettiva. La maggior parte della popolazione del pianeta, per esempio, non è mai andata, e probabilmente non andrà mai, a Venezia, ma ne ha comunque visto le foto stereotipate, associate alle gondole e al canal Grande, e ignora la città dei dogi così come la vivono i suoi abitanti.
Muniz sceglie con attenzione la cartolina che diventerà il suo punto di riferimento. Poi taglia in piccoli pezzi altre cartoline che ha collezionato o ricevuto, e ricompone come un puzzle l’immagine che ha sotto gli occhi. Gli piace conservare le parti con il timbro delle poste o quelle scritte, che usa per comporre il cielo. E crea una composizione che non è né più realistica né più “falsa” della cartolina originale, ma si offre come un’interpretazione o una riflessione. È così che queste immagini del mondo si ritrovano sul muro sotto forma di grandi cartoline, che possono arrivare fino a un metro di lunghezza.
“Volevo creare un ‘luogo’ a partire da migliaia di piccoli ‘non luoghi’. Gran parte di quello che caratterizza il mio lavoro riguarda il modo in cui il mondo esterno si conforma all’immagine che abbiamo già in mente”. ◆ adr
◆ Vik Muniz: Postcards from nowhere (Aperture, 2020) è un cofanetto composto da due volumi. Ha una tiratura limitata di 500 copie. Un volume, dedicato a Parigi, raccoglie 36 immagini, l’altro ne contiene 38 stampate come cartoline e inserite in cartelline trasparenti come quelle usate dai collezionisti.
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Questo articolo è uscito sul numero 1405 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati