Nella pittura di paesaggio – a cui la fotografia s’ispira fin dalla sua invenzione – la linea dell’orizzonte ha sempre avuto un ruolo fondamentale. La tradizione prevedeva che fosse al centro dello spazio, per assicurare l’equilibro della composizione. Abbassarla o alzarla, dando un significato più o meno importante al cielo o alla terra, indicava la volontà di creare un effetto speciale o di rifiutare le regole. Poi, a partire dagli anni venti e trenta del novecento, le avanguardie rimisero in discussione questa ricerca di equilibrio, giocando con le diagonali per fornire prospettive dinamiche all’immagine.
Ma la regola aurea di un orizzonte ben dritto rimane immutata. Soprattutto nei paesaggi marini, come per esempio nei Seascapes del giapponese Hiroshi Sugimoto, dove l’uso del grande formato, i tempi di posa lunghi e una prospettiva frontale servono a dare risalto alle sottili variazioni dei toni grigi che partono da un orizzonte perfettamente rettilineo.
A prima vista l’orizzonte non sembra essere l’ossessione di Zander Olsen. Dopo aver lavorato per dieci anni nello studio di architettura Make architects, il fotografo e artista gallese, nato nel 1976 e specializzato in fotografia di architettura, oggi lavora a progetti personali. Dice che la sua vera ossessione sono gli alberi. Nelle sue immagini avvolge parte di tronchi con strisce di tessuto, simili a fasciature, di solito bianche, ma di recente anche colorate, come se volesse proteggerli. E poi li fotografa. Quello che colpisce è che queste fasce s’inseriscono perfettamente nei paesaggi. Danno l’impressione di unire gli alberi tra loro, come una lunga sciarpa. L’obiettivo di Olsen non è ovviamente quello di “curare” gli alberi, ma di ridare forma creando un orizzonte, o la nozione di un orizzonte, in vedute che ne erano prive.
L’illusione dello sguardo
Nelle immagini della serie Tree, line non è la linea dritta dell’orizzonte che determina l’equilibrio, ma il sottile recupero di una tradizione paesaggistica, di un’armonia. È un insieme di elementi che ci fanno sembrare verosimile, o logica, una rappresentazione del mondo completamente artificiale.
Per arrivare a questo risultato Olsen procede sempre allo stesso modo lavorando nelle sue zone preferite: il Surrey, lo Hampshire e il Galles. Sistema il suo banco ottico su un cavalletto, inquadra in modo accurato e poi comincia ad avvolgere il tronco degli alberi, controllando man mano la messa a fuoco. Deve essere molto preciso, perché gli elementi non devono coincidere nello spazio tridimensionale, ma nell’immagine che verrà fuori dallo scatto. Per controllare che l’installazione sia come negli schizzi che aveva abbozzato, Olsen verifica sia a occhio nudo sia scattando delle polaroid.
L’illusione ottica di questo lavoro è basata sulla prospettiva e il punto di vista è alla fine quello della macchina fotografica. Questo approccio ricorda le illusioni ottiche di Georges Rousse, ottenute attraverso forme geometriche dipinte all’interno di luoghi abbandonati; o le frasi dello scrittore e fotografo Bernard Faucon, inserite nei paesaggi; o alcuni lavori di Nils-Udo, dove l’artista tedesco usa elementi della natura per ricostruire un mondo interamente vegetale, poetico, che combina la geometria con un’attenta scelta dei colori e delle forme.
Provando a mettere a confronto il lavoro di Olsen con quello di altri artisti, capiamo presto che il suo approccio non è quello della _land art _(una forma d’arte in cui l’autore crea delle installazioni nella natura), anche se ci sono alcuni elementi in comune. È un approccio meno rigoroso e più metafisico. Il predecessore più vicino potrebbe essere John Pfahl, l’artista statunitense morto nell’aprile del 2020 che trasformò la percezione del paesaggio, dando vita a un ritmo visivo fatto di rispetto, di poesia e di equilibrio.
Una proposta metafisica
Olsen però non cita nessuno di questi artisti quando gli si chiede chi lo ha ispirato o influenzato. L’ex studente di pittura del Chelsea college of art di Londra parla di James Turrell: “All’inizio del progetto ho pensato a Turrell, che in un certo senso nei suoi Skyspaces scolpisce il cielo come se fosse una materia. Ho pensato allo spazio tra gli alberi e ho avuto voglia di valorizzare una dimensione materiale del cielo intervenendo sugli alberi in modo che l’orizzonte diventasse evidente. Per questo motivo ho scelto delle giornate nuvolose, per evitare che ci fossero ombre e che le sfumature del cielo s’intonassero con quelle del tessuto, affinché tutto risultasse uniforme”. Gli Skyspaces di James Turrell, stanze senza soffitto aperte sul cielo, così come gli Skylight, le sue opere con la luce, sono delle proposte metafisiche. La stessa definizione può essere usata per capire le composizioni di Olsen, in cui gli alberi si trovano nel paesaggio dove sono cresciuti e lo trasformano con determinazione ed eleganza attraverso delle semplici strisce di tessuto.
L’artista spera di poter riprendere presto a lavorare a questa serie (che ha dovuto interrompere a causa della pandemia). L’ha cominciata nel 2004 scattando in pellicola e l’ha continuata con una macchina fotografica digitale mantenendo lo stesso metodo. Il suo obiettivo resta identico: mettere in discussione lo spazio e la nozione di orizzonte. È come un deus ex machina, il padrone di un mondo che può trasformare a suo piacimento. Forse Olsen ha in mente questa frase dello scrittore Jules Renard: “Guardare l’orizzonte è guardare lontano, ma anche guardare qualcosa di falso”. ◆adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1398 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati