Si tratta di un percorso e non di una retrospettiva, una parola che fa paura a Sarah Moon. Anche se le immagini sono organizzate in capitoli – ognuna ha un titolo, una data e a volte un luogo – e anche se il titolo PasséPrésent (PassatoPresente) fa capire che confrontarsi con il tempo è essenziale, la mostra nasce soprattutto dall’idea di fare il punto sull’opera di Moon, senza imporre un’organizzazione definitiva. In ognuna delle sezioni, che portano spesso il titolo di suoi film (Circus, 2002; Le fil rouge, 2005; Le chaperon noir, 2010; L’effraie, 2004; Où va le blanc?, 2013), si mescolano i diversi aspetti dell’eclettismo di Moon, senza rispettare la cronologia delle opere.
Moon dice sempre di voler “raccontare delle storie come Guy Bourdin ed Helmut Newton” e sa di essere arrivata alla fotografia attraverso il cinema, che fin dall’adolescenza l’ha influenzata e l’ha stimolata: “Avevo undici anni quando ho visto La signora Miniver e ne sono rimasta affascinata”. Il percorso non è nemmeno diviso in categorie – la moda (che l’ha resa famosa), il ritratto, i racconti, i paesaggi, gli animali – ma è articolato come in un sapiente disordine, che segue i sentimenti, le ispirazioni e le intuizioni dell’artista.
Può essere spiegato attraverso questa riflessione di Moon: “Le mie fotografie sono degli haiku. Gli haiku sono molto fotografici. I giapponesi non hanno bisogno di spiegare, hanno bisogno di sentire”. Passando da una sala all’altra, come se si sfogliasse un libro, s’incrociano i volti – a volte parzialmente nascosti, spesso leggermente cancellati – di modelle o di statue, di complici o di sconosciuti, in un’atmosfera di dolcezza. E gli sguardi: di donne ovviamente, ma anche di animali. Lo sguardo del ragazzo in uniforme dal volto serio, ai limiti della tristezza, è al tempo stesso commovente e delicato mentre ci guarda da sotto il suo kepi di cuoio. È il giovane che interpretava il soldatino della favola di Andersen che Sarah Moon ha raccontato nel suo film L’effraie. L’immagine s’intitola _C’est trop beau pour durer, pensait-il… _(È troppo bello per durare, pensava…).
Tra gli animali fotografati ci sono gli uccelli: sono spesso solitari, come i fenicotteri che in un grigio delicato scandiscono l’inquadratura con i loro colli a forma di punto interrogativo; un pavone orgoglioso della sua ruota elegante; uccelli neri e spigolosi che volano sopra a un cartello con la scritta “Exit” andando chissà dove. E cani che corrono e saltano su una spiaggia. Più violenta e inattesa invece è la scena – risultato di una delle numerose visite dell’artista al museo di Storia naturale e della sua conoscenza dei diorami – che mostra dei leopardi impegnati a divorare un altro animale, un’antilope o un bufalo, non importa. Ciò che conta è che “la tassidermia somiglia alla fotografia. I bravi tassidermisti ricostruiscono un momento, altrimenti vedremmo solo un animale impagliato. Sono vite silenziose, ma rimangono comunque delle vite”. Il bestiario di Moon accoglie anche dei pachidermi, come l’elefante del circo Drurova e i rinoceronti, immobilizzati per l’eternità. È un’atmosfera sospesa, come in tante fotografie incorniciate da bordi fragili, dove si conservano piccoli elementi accidentali che gli restituiscono vita, e che sono al tempo stesso materia e tempo: “Mi piace che la fotografia sia vulnerabile, del resto le tracce presenti sulle Polaroid sono già segni del tempo e della decomposizione; in questo caso la minaccia appare già nell’inquadratura. Mi piace che l’immagine sia sfuggente, che sia solo l’ultimo istante del tempo che ho impiegato a farla. Quando ci riesco è quest’ultimo sguardo che mi interessa”, dice Moon. Nel percorso della mostra ci si può anche perdere nei vasti paesaggi. Paesaggi che respirano, che sono più impressioni di spazi che descrizioni precise. Paesaggi morbidi, sensuali, come l’insieme dell’opera di Moon, o in cui ci si può immergere quando è nevicato. Ci sono quelli da guardare a distanza per cogliere, per esempio, la dimensione scultorea dell’immensa roccia circondata dai flutti in Portogallo; o quelli a cui bisogna avvicinarsi, come quando la cascata mostra tutta la sua forza, le palme disegnano il cielo o nei porti, diventati spazi privilegiati di evasioni fotografiche, le ciminiere e le gru danno forma al grigiore. Il paesaggio può anche diventare il ritratto di un albero, così come dei fiori, a colori o in bianco e nero, possono diventare delle nature morte, delle sculture, o simboleggiare semplicemente il tempo che passa.
L’intera opera di Moon è caratterizzata dall’intensità di una tonalità grigia e dalle dissonanze dei bianchi puri o dei neri profondi, che definiscono l’immagine senza prevalere mai sulla visione d’insieme. Anche le fotografie a colori conservano l’effetto della sfumatura monocromatica: succede per esempio con il piumaggio cangiante di un pappagallo o con l’arancione e il grigio di un completo di Issey Miyake usati in alcune stampe al carbone. Ma non si tratta di un effetto: “Ho sempre amato il pittorialismo e mi è stato spesso rimproverato, ma i fotografi che ho amato veramente sono Robert Frank, Diane Arbus e Henri Cartier-Bresson. La realtà è spietata. Non posso fotografarla. Devo evadere per potermici avvicinare. Quello che mi fa sentire in colpa sono i miei privilegi. Accettare di credere in quello che si fa quando non si crede a niente è la contraddizione assoluta. Qualcosa di vertiginoso”. Da queste riflessioni nasce la sensazione che la fotografia di Moon sia fuori dal tempo, capace d’inventarsi un tempo autonomo, di pura finzione. Eppure si parla di memoria: “La fotografia, anche se non ci restituisce il passato, ci dice che bisogna pensare alla percezione in rapporto a quello che non è più presente, in rapporto alla struttura della memoria in generale. Questo significa che la percezione comincia solo quando si allontana, quando quel che è visto non può essere visto”. Il percorso finisce con un’immagine bianca, una fotografia della scomparsa o della materia, da contemplare. Un modo anche per rendere omaggio a Robert Delpire, il grande editore e compagno di Sarah Moon per 48 anni, morto tre anni fa, a cui è dedicata una sala della mostra. Senza porsi troppe domande, bisogna immergersi in un universo consapevole della scomparsa ineluttabile, della fragilità degli esseri e delle cose. “Non so se cerco un significato nell’immagine. Se ce n’è uno è come un miraggio, appena ti avvicini scompare. La fotografia, come ha detto Diane Arbus, ‘is a secret about a secret’, è un segreto su un segreto. La nostalgia è il sogno di qualcosa che non è esistito. È il sogno di un sogno”. ◆ _ adr_
◆ La mostra PasséPrésent di Sarah Moon al Museo d’arte moderna della città di Parigi durerà fino al 10 gennaio 2021. Il catalogo della mostra, con lo stesso titolo, è stato pubblicato da Paris Musées.
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Questo articolo è uscito sul numero 1381 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati