Una tragedia nazionale. Un infinito psicodramma che ha lasciato l’opinione pubblica britannica stordita, confusa e senza gli strumenti necessari per capire cosa stia davvero succedendo. Oppure – specialmente per gli osservatori continentali – una gustosa commedia grottesca, con i suoi colpi di scena, la trama che scivola imprevedibile, la perfetta scenografia del parlamento di Westminster e un cast di eccentrici protagonisti: la caricatura dell’inglese posh incarnata dal conservatore euroscettico Jacob Rees-Mogg, l’algida e robotica premier Theresa May, il simpatico sbruffone Boris Johnson, lo speaker del parlamento John Bercow nei panni del vecchio zio burbero che fa rigare dritto i piccoli monelli, impersonati dai deputati di seconda fila della camera dai comuni, i cosiddetti backbenchers, ognuno con il suo caratteristico accento.

Sarà anche una fotografia piena di cliché, ma in qualche modo è emblematica del paese che il 23 giugno 2016 ha votato per uscire dall’Unione europea, immaginando un futuro di gloria, ricchezza e sovranità ritrovata, e che oggi annaspa ancora nell’incertezza di un negoziato complicatissimo. La Brexit promessa in campagna elettorale dai Boris Johnson, dai Michael Gove, dai Rees-Mogg – quella del take back control, dei 350 milioni di euro a settimana risparmiati e investiti nella sanità pubblica, del paese che torna a essere una potenza globale – si è rivelata una brutale menzogna. E la complessità del processo messo in moto dall’articolo 50 del trattato di Lisbona, che regola l’uscita volontaria dei paesi membri dall’Unione, ha rivelato l’inadeguatezza di una classe politica che dopo il trionfo del voto si è ritrovata senza una strategia, senza un piano negoziale, senza un’idea del futuro del paese.

Per chi aveva osservato la modestia culturale e intellettuale del dibattito della campagna referendaria – essenzialmente un esercizio di meschini calcoli su quanto costasse appartenere all’Ue, accompagnato da evidenti falsità e sparate retoriche, senza una minima riflessione sul senso dell’appartenenza a un grande organismo sovranazionale – l’impreparazione dei brexiter non è stata certo una sorpresa. Invece di guidare i negoziati, i britannici si sono sempre ritrovati a inseguire la diplomazia europea, che aveva preparato lo scenario del divorzio del Regno Unito con molta più cura.

Uscire da un progetto multinazionale com’è l’Unione europea è molto più complicato di quanto pensassero i brexiter

Con diverse soluzioni ancora possibili, non è eccessivo affermare che per i britannici finora la Brexit è stata un imbarazzante fallimento, una sconfitta politica epocale, lo smascheramento dell’illusione di essere ancora una forza globale ma allo stesso tempo insulare e isolata dal continente. Uscire da un progetto multinazionale com’è l’Unione europea è molto più complicato di quanto pensassero i brexiter, ed è evidente che la disfatta britannica sarà un monito efficacissimo per quelle forze politiche – per la verità sempre meno numerose – che in altre parti d’Europa sognano di liberarsi dall’abbraccio di Bruxelles.

Nelle ultime settimane la subalternità del Regno Unito, la sua debolezza e l’ottusità della sua classe politica si sono manifestate prepotentemente. Ricostruire per sommi capi le scelte del governo a cavallo del 29 marzo, la data che doveva segnare l’uscita del paese dall’Europa, può servire a illustrare l’improvvisazione con cui Londra ha gestito e sta ancora gestendo l’intero processo.

Dopo due bocciature parlamentari del suo accordo, a gennaio e a marzo, il 29 marzo la premier Theresa May ha sfidato lo speaker della camera dei comuni e ha riproposto in aula lo stesso testo per la terza volta, privato della parte sul futuro dei rapporti tra Londra e Bruxelles. E ha perso di nuovo. A quel punto i deputati hanno preso in mano la situazione, presentando e mettendo al voto alcune proposte (i cosiddetti indicative votes) per trovare un’alternativa da sottoporre all’Unione europea e negoziare così un’ulteriore proroga alla scadenza della Brexit, nel frattempo già spostata al 12 aprile. Tutti gli otto emendamenti sono stati però bocciati.

Una scelta obbligata
Tre giorni dopo la stessa sorte è toccata ad altre quattro proposte di altrettanti deputati. Il 2 aprile, dopo una riunione di sette ore con i suoi ministri, Theresa May ha fatto quello che probabilmente andava fatto da tempo: aprire ai laburisti. In sostanza, ha proposto al leader Jeremy Corbyn di sedersi e discutere un piano alternativo da proporre a Bruxelles, per ottenere più tempo ed evitare un’uscita senza accordo. La sera stessa la camera dei comuni ha bocciato l’ipotesi di tenere nuovi indicative votes (per la verità solo grazie al voto dello speaker Bercow, dopo che la votazione si era conclusa in parità) e in fretta e furia ha approvato una proposta di legge bipartisan per evitare lo scenario che molti temono ma che giorno dopo giorno si fa sempre più probabile: la Brexit senza accordo, il famigerato no deal.

Ora, la mossa di May sembra finalmente in grado di rompere lo stallo. Ma se arriva a tempo praticamente scaduto è perché presenta anche degli evidenti rischi politici, che finora la premier aveva preferito non correre. Con l’acqua alla gola la scelta è diventata inevitabile. Il primo è la spaccatura del Partito conservatore. Molti esponenti tory non accettano il dialogo con il “marxista Corbyn”, per usare le parole di Rees-Mogg, e considerano l’idea di una Brexit morbida come un tradimento della volontà popolare (altro concetto che è stato evocato con troppa leggerezza e brandito come una clava nel dibattito sulla Brexit, soprattutto dai leaver più spregiudicati).

In effetti non si tratta di una prospettiva facilmente digeribile in un paese che è forse l’unico dove i grandi partiti tradizionali godono ancora del sostegno della maggioranza della popolazione. In fatto di istituzioni e democrazia i britannici sono comprensibilmente orgogliosi delle loro tradizioni. E una spaccatura interna ai conservatori sarebbe un tradimento della vocazione maggioritaria, governativa e istituzionale del partito. D’altra parte, se la situazione è arrivata a questo punto di non ritorno è proprio perché nel processo della Brexit una parte dei tory, un minoranza rumorosa e ben organizzata, ha pervicacemente messo il proprio interesse di parte davanti a quello del partito e soprattutto del paese.

A un rischio di tipo diverso è esposto invece Jeremy Corbyn. In caso di fallimento della trattativa, l’apertura di May potrebbe infatti servire a scaricare la responsabilità sul leader laburista, anche perché il punto di partenza dei colloqui rimane l’accordo già bocciato in tre occasioni dal parlamento. Ma per Corbyn l’offerta è anche una grande opportunità. Finora il leader laburista, un brexiter riluttante che guida un partito diviso tra chi vuole rimanere in Europa e chi è pronto ad accettare un’uscita morbida, ha sempre esitato a prendere posizione, condannando il Labour a un ruolo di secondo piano in tutta la vicenda della Brexit. Se stavolta saprà giocare bene le sue carte, se dimostrerà senso di responsabilità e si rivelerà disponibile a fare compromessi nell’interesse del paese, magari pretendendo un nuovo voto popolare, potrà uscire da questa intricata situazione come il leader che ha portato il Regno Unito fuori dalla sua più grave crisi politica del dopoguerra.

Poi, quando tutto sarà risolto – con una Brexit morbida, un’uscita senza accordo o con il paese che rimane in Europa – i britannici dovranno necessariamente farsi una serie di domande scomode. Com’è stato possibile che per fare i conti con gli euroscettici tory e frenare l’emorragia di voti verso i nazionalisti di Nigel Farage – entrambe questioni interne al partito – un leader politico come David Cameron abbia messo a rischio con leggerezza sconsiderata il futuro del paese? Perché i conservatori si sono ritrovati ostaggi della loro ala più intransigente e di destra, un manipolo di irresponsabili? Perché una questione così complessa e dalle conseguenze così profonde per l’unità stessa dello stato e per la sua identità è stata affidata a un referendum con una scelta troppo brutale, fuori o dentro?

Che un paese europeo voglia rimanere fuori dall’Unione europea è perfettamente lecito. Che si interroghi sul suo ruolo nel mondo e in Europa è opportuno. E che si ostini a coltivare sogni di grandezza neoimperiali può essere comprensibile. Ma per affrontare questioni così essenziali servono riflessioni oneste e dibattiti pacati, non le bugie e le mistificazioni con cui la Brexit è stata venduta ai britannici.

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