C’è un luogo in cui il teatro ha salvato un paese intero. O, quanto meno, ha salvato la sua comunità, tenendola unita e viva, e ben radicata alla propria storia. E per di più, avendo favorito una piccola economia locale, l’ha anche protetta, per quanto possibile, da un turismo che altrove dilaga rapinosamente. Quel luogo è Monticchiello, piccolo centro della val d’Orcia, in Toscana. Nella sua piazza ogni estate va in scena una stagione teatrale, con uno spettacolo ideato, scritto e recitato dagli stessi monticchiellesi. Il progetto si chiama Teatro povero di Monticchiello, ed è in piedi ininterrottamente dal 1967.

Il titolo dello spettacolo dell’estate 2025 è stato La casa silente. La vicenda si svolge nel 2059. Protagonista è Tacito, che da giovane cerca di conservare la storia della propria comunità, custodendo gli oggetti che la rappresentano, fino a rompere il fidanzamento con Margherita, che lo accusa di pensare solo alle “cose morte”. Secondo lui invece in quegli oggetti “c’è dentro la vita”. Intanto, attorno a loro le vecchie case sono comprate una dopo l’altra da ricchi stranieri finché il paese, ormai svuotato, è ridotto a sfondo per il turismo di lusso.

Sulla scena sono rappresentati, insomma, il rapporto tra il paese e il turismo, lo spopolamento delle aree interne, e un futuro che parrebbe travolgere ogni cosa, oppure svanire insieme a chi il paese lo abita.

Non è la prima volta in sessant’anni che lo spettacolo è dedicato a questo genere di questioni. “Il Teatro povero è nato come risposta all’emorragia demografica della fine degli anni sessanta del novecento, quando il paese perse quasi la metà degli abitanti”, racconta Chiara Del Ciondolo, socia e amministratrice della cooperativa che oggi gestisce, tra le altre cose, anche l’organizzazione degli spettacoli.

All’epoca la mezzadria, il sistema che da queste parti fin dal medioevo aveva dominato i rapporti nelle campagne, conobbe un forte declino, prima ancora di essere ridimensionata per legge negli anni successivi. All’incertezza prodotta da questi cambiamenti, si sommavano le notizie in arrivo da chi si era già trasferito in città dove si lavorava per un salario fisso. E qualcuno aveva già l’auto.

Lo spettacolo “La casa silente” a Monticchiello, 14 agosto 2025. (Alessandro Calvi)

E poi queste campagne erano decisamente marginali. “Eravamo un po’ abbandonati, non avevamo neanche una strada asfaltata, nelle campagne non c’era luce elettrica, le case erano senza servizi igienici”, racconta Arturo Vignai, uno dei fondatori del Teatro povero, in Tutti o nessuno, storie di comunità cooperanti, documentario del regista Luca Criscenti dedicato alla storia di Monticchiello e alle cooperative di comunità.

Con i contadini che andavano via, i poderi finivano per essere usati come rimesse. E la miseria era piuttosto diffusa. “Quando Federico Fellini venne per lo spettacolo, fu alloggiato a Chianciano, dove c’erano i grandi alberghi per via delle terme, perché farlo stare in paese pareva una vergogna”, racconta il direttore della cooperativa dietro al Teatro povero, Fabio Rossi. Insomma, la val d’Orcia era davvero un altro mondo rispetto a quella che i turisti vedono oggi.

L’idea del Teatro povero nasce per raccontare i cambiamenti che stavano investendo il mondo rurale, travolto dall’affermazione della civiltà dei consumi. “Fu una reazione, una riappropriazione della propria lingua, della propria storia, della tradizione contadina della quale non ci si voleva più vergognare”, dice il drammaturgo Gian Piero Giglioni, regista insieme a Manfredi Rutelli di La casa silente. “Di fronte alla crisi dello spopolamento”, aggiunge, “il teatro fu un tentativo di costruire un senso condiviso delle trasformazioni che stavano avvenendo, anche attraverso il processo creativo che portava allo spettacolo”. In questo modo infatti “si rafforzavano legami e determinazione ad agire, mentre si poneva in atto una denuncia pubblica dei problemi affrontati dalla comunità”. Ancora oggi è così.

Identità in vendita

“Di solito cominciamo a discutere a inizio febbraio, in assemblee alle quali intervengono gli abitanti del paese, i componenti della compagnia e magari anche persone esterne”, spiega Giglioni. “In questa fase” aggiunge, “io e Rutelli ci limitiamo a prendere appunti. Poi, progressivamente si mettono a fuoco alcuni temi, e allora si comincia a lavorare su un soggetto”. L’intero processo creativo resta comunque un fatto collettivo fino alla chiusura del testo. E questa sua caratteristica ha fatto sì che dal 1967 “il Teatro povero abbia saputo accompagnare le trasformazioni che questa terra ha conosciuto nei decenni successivi”.

E nei decenni successivi proprio il turismo è stata una delle questioni ad aver investito la valle. A partire dagli anni settanta del novecento, infatti, Monticchiello ha cominciato ad attirare molti intellettuali proprio a causa di ciò che, con il Teatro povero, iniziava a rappresentare. Poi, come altrove, si è diffuso il fenomeno delle seconde case che però, spiega Giglioni, “qui a volte era anche una forma di ritorno al paese di origine”. Accanto ai flussi di visitatori di natura più popolare, come quello dei frequentatori delle terme di Chianciano, che poi visitavano i paesi dei dintorni, si è sviluppato anche un turismo di lusso che, dice il regista, “ha favorito la gentrificazione delle campagne e dei piccoli centri”.

Infine, negli ultimi anni la val d’Orcia ha modellato la propria identità sui desideri di un turismo che si ferma giusto il tempo di vivere un’esperienza e poi via, a scattare foto altrove. Nel tentativo di compiacere i turisti, ha finito per dissipare proprio parte della propria identità, assumendo a tratti l’aspetto di una caricatura della toscanità. “È successo perché la val d’Orcia parla di sé solo in un certo modo”, spiega De Ciondolo. “Se punti solo sul tuo mucchietto di cipressi, poi le persone vengono a cercare solo quello. Anche per questo noi pensiamo che serva un racconto diverso. Con il teatro cerchiamo di presidiare il territorio anche con le parole, per evitare che questa nostra terra si svenda”.

Le sorgenti dell’Ermicciolo a Vivo d’Orcia, 26 agosto 2025. (Alessandro Calvi)

Tuttavia, anche a Monticchiello ormai si sente la pressione del turismo. Come altrove negli ultimi anni hanno aperto ristoranti e bed & breakfast. E, col turismo, i prezzi delle case sono saliti, causando una nuova espulsione di residenti. Una ventina di anni fa, proprio sotto il centro abitato, accanto a una famosa strada che risale sinuosamente la collina, fu progettata un’espansione moderna del paese.

Si trattava di un corposo lotto di villini a scacchiera. L’operazione fece molto discutere. Erano gli anni in cui quello stesso paesaggio entrava nella lista Unesco. Il caso assunse anche rilevanza nazionale dopo un intervento molto critico dello storico della letteratura Alberto Asor Rosa. Alla fine i villini furono costruiti ma, racconta Del Ciondolo, “l’azienda fallì, alcune case finirono all’asta e questo diede la possibilità ad alcuni di tornare a vivere in paese”.

Si tratta di una storia emblematica perché, osserva Criscenti, “da altri luoghi le persone sono costrette ad andare via in cerca di lavoro, qui invece il lavoro c’è. Il teatro e la cooperativa sono anche questo”. Qui, dice ancora il regista diTutti o nessuno, “a causa del turismo il problema è soprattutto la casa”. Anche per questo, aggiunge Del Ciondolo, “ancora oggi non è facile rimanere, visto che ormai le case possono permettersele solo i turisti ricchi”.

Eppure Monticchiello resiste, diversamente da chi, anche in val d’Orcia, ha fatto scelte diverse. È il caso, per esempio, di Montalcino e Pienza – della quale peraltro Monticchiello è una frazione – che da molto tempo sono, per così dire, la due capitali della gentrificazione turistica di un territorio in cui le istanze di alcuni grandi portatori di interessi economici hanno prevalso su quelle della comunità. Ma è il caso anche di San Quirico, che da qualche tempo questo processo di trasformazione lo sta vivendo con una certa inconsapevolezza.

Monticchiello invece resiste e lo fa soprattutto perché le persone ragionano anche in termini collettivi. Si tratta, spiega Del Ciondolo, dell’eredità più nobile dell’esperienza fatta in questi decenni con il Teatro povero, che “ha plasmato il paese e lo ha educato a sentirsi una comunità”.

Non a caso, a partire dagli anni ottanta del novecento, il Teatro povero è diventato una cooperativa, e ha cominciato a occuparsi anche di attività di natura sociale, gestendo un emporio che fornisce quei servizi che nei piccoli centri spesso non esistono più. Un’edicola, per esempio. O semplicemente un luogo per prendere un caffè la mattina presto prima di andare al lavoro, quando tutto è chiuso perché a quell’ora di turisti in giro ancora non ce ne sono. E poi anche un ufficio turistico, il museo del teatro popolare tradizionale toscano, una ciclofficina, una foresteria, due ristoranti e, in passato, anche l’accoglienza per le persone richiedenti asilo.

Si tratta a tutti gli effetti di una piccola economia germogliata sull’esperienza del Teatro povero, che ha consentito anche il recupero di un patrimonio edilizio che altrimenti sarebbe andato perduto o, nel migliore dei casi, sarebbe stato trasformato in ville o alberghi, com’è successo altrove. Un esempio lo si trova a pochi chilometri da qui, a Castiglioncello del Trinoro, spopolatosi quasi completamente e poi venduto pezzo dopo pezzo a un investitore statunitense che lo ha trasformato in un resort di lusso, acquistando perfino la chiesa e l’antica piazza, ora diventata il dehors del ristorante.

Monticchiello, 9 luglio 2025. (Alessandro Calvi)

A Monticchiello invece la cooperativa è riuscita a comprare i locali del vecchio granaio della fattoria padronale, trasformando in un luogo di cultura quello che per secoli aveva rappresentato l’infinita fatica dei contadini. Il valore simbolico di questa operazione è evidente. Lo diventa ancora di più nel confronto con il destino della chiesa e della piazza di Castiglioncello.

Monticchiello, insomma, sembra offrire un’alternativa culturale ed economica alla visione di molti imprenditori e amministratori della valle che sembrano ancorati a modelli di sviluppo già fallimentari vent’anni fa, per i quali l’unica opzione è rappresentata da un’economia legata esclusivamente al turismo, e che utilizza il proprio patrimonio e la propria storia, e perfino la propria identità, per estrarre valore senza restituire nulla.

Per quanto unica, la storia di Monticchiello si inserisce comunque in un contesto più ampio, con protagonista una forma particolare di impresa che si sta sviluppando negli ultimi anni.

Si tratta delle cooperative di comunità. Manca ancora una legge nazionale che se ne occupi, ma sono già una quindicina le regioni che hanno provveduto, a partire da Toscana, Emilia-Romagna e Puglia che, come spiega il responsabile di Legacoop nazionale per le cooperative di comunità, Paolo Scaramuccia, “hanno previsto risorse importanti fin dall’inizio”. “Noi abbiamo cominciato a chiamarle così già nel 2011”, aggiunge, “e la prima che abbiamo costituito dal notaio con questa denominazione era una di Melpignano, in Puglia. Poi ci siamo resi conto che in Italia ci sono tante cooperative sociali o di lavoro che sono molto più di questo, avendo al centro del proprio oggetto sociale l’interesse della comunità di appartenenza”.

Attualmente il centro studi Aiccon in Italia ne stima 321, 106 delle quali aderenti a Legacoop, con una presenza maggiore nelle aree interne appenniniche. In media ogni cooperativa ha 51 soci e dà lavoro a sette persone. Operano nel turismo, nella tutela ambientale, nel sociale, ma anche nell’agricoltura, nel settore energetico e nella formazione professionale. “Spesso”, dice Scaramuccia, “questa forma di impresa rende più facile la collaborazione con le istituzioni locali, ed è un efficace strumento di sviluppo locale”.

Gli effetti della loro attività sono particolarmente significativi sul piano sociale. Molte infatti operano in aree marginali e, fa notare il dirigente di Legacoop, “sette persone occupate, significa sette famiglie che non se ne sono andate, cioè tante persone che possono restare a vivere in territori a rischio spopolamento”. Sono insomma “uno strumento di autodifesa per le persone che hanno ancora voglia di vivere insieme nei luoghi ai quali appartengono. E funzionano perché creano un’economia locale e posti di lavoro”, aggiunge Criscenti.

Non è un caso se questa forma di cooperazione negli ultimi anni sta avendo una certa diffusione. Non lontano da Monticchiello, per esempio, c’è Vivo, piccola frazione di Castiglione d’Orcia. Si trova nei boschi del monte Amiata, a quasi mille metri di altitudine. Rispetto alla porzione di val d’Orcia più frequentata dai turisti, Vivo è un altro mondo. Un mondo di “pan di legno e vin di nuvole”, come dice Fabio Rossi, ovvero di castagne e d’acqua che, insieme al legno, sono ciò che nei secoli ha consentito la sopravvivenza delle persone sulla montagna. Rossi è anche presidente della cooperativa di comunità che gestisce il parco Vivo, un’area boscosa un tempo abbandonata e che in pochi anni è stata completamente trasformata.

Oggi, lì dove i faggi, vista l’altitudine, cominciano a sfidare i castagni, c’è un teatrino all’aperto, un chiosco, alcuni tavoli. Poco più avanti, seminascosti tra gli alberi, la chiesetta romanica di San Benedetto e i secolari essiccatoi delle castagne. Infine, ecco le sorgenti dell’Ermicciolo dove nasce il fiume Vivo, decisamente scenografiche anche per le strutture d’epoca realizzate per l’acquedotto.

“La cooperativa esiste dal 2018”, racconta Rossi, “e nasce dal dispiacere di vedere spopolato e abbandonato un posto come questo, che sembrava non avere alternative. Ci sono dodici soci. Oltre alle attività nel bosco, in paese c’è un museo dell’acqua. La cooperativa si occupa anche di ripopolamento ittico, lavora con le scuole e può contare su una decina di guide ambientali. “Abbiamo circa quattromila visitatori all’anno, che in un luogo così piccolo sono una fonte economica importante. Un po’ come il Teatro povero di Monticchiello, che fa numeri simili”, spiega Rossi. “Ma l’aspetto economico è secondario, perché il vero guadagno è sul piano umano. È come se ci sentissimo meno soli, come se fosse rinata una comunità”.

Questo fa della cooperativa anche un progetto politico. “Il fatto che la stessa comunità si sia fatta imprenditrice”, dice Rossi, “rende più difficile per le istituzioni locali dire che non ci sono alternative allo spopolamento o svendere il territorio a qualche grande imprenditore venuto da fuori”. Insomma, “qui, come a Monticchiello, anche il turismo è gestito dagli abitanti attraverso le cooperative. Ed è questa la differenza con altri luoghi dei dintorni: è ancora forte la consapevolezza di essere una comunità”.

“Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”, scriveva Cesare Pavese nel suo romanzo La luna e i falò (Einaudi 1950). Chissà se Tacito, il protagonista di La casa silente, ha letto Pavese. Viene da pensare di sì. Comunque sia, dopo essere sparito per gran parte dello spettacolo, un Tacito ormai invecchiato ricompare a sorpresa nel finale, attraversando la platea. È un colpo di teatro notevole, e decisamente commovente, anche perché a interpretarlo è Vignai, ancora in scena a più di novant’anni. Il ritorno del vecchio Tacito nella Monticchiello del 2059 scioglie la storia, riportando le cose a misura di umanità. Chissà se nei paesi della val d’Orcia ci sono altri Tacito. Forse sì. O forse sono rimasti solo a Monticchiello.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it