La scoperta di un focolaio di covid-19 nell’azienda avicola Aia di Vazzola, in provincia di Treviso, riaccende i riflettori sul ruolo degli impianti di produzione di carne industriale nella diffusione del nuovo coronavirus. Su 560 lavoratori testati, ben 182 sono risultati positivi. In accordo con l’Unità locale sociosanitaria (Ulss), i responsabili hanno deciso di ridurre le linee di produzione, aumentare i distanziamenti, ma non chiudere lo stabilimento. Secondo quanto sottolineato dall’agenzia Ansa, in caso di chiusura si sarebbe dovuto procedere all’abbattimento forzato di 1,5 milioni di capi di pollame.
Quello dello stabilimento di Vazzola, di proprietà del gruppo Veronesi, è a oggi il focolaio più rilevante in un impianto di macellazione registrato nel nostro paese. Ma al livello internazionale si tratta solo dell’ultimo di una lunga serie: negli Stati Uniti il mattatoio di Sioux Falls, in South Dakota, di proprietà dell’azienda Smithfield, ha registrato a fine marzo più di 800 casi tra i lavoratori ed è rimasto chiuso per circa tre settimane. A questo sono seguiti decine di altri stabilimenti in varie zone degli Stati Uniti.
A giugno, nel mattatoio Tönnies di Rheda-Wiedenbrück, nel land tedesco Nord Reno-Westfalia, sono stati registrati più di 1.500 casi tra gli operai. L’impianto, che è il più grande d’Europa con i suoi 20mila capi di suini macellati ogni giorno, è stato chiuso per venti giorni mentre una zona rossa veniva imposta ai 560mila abitanti delle città vicine per evitare la propagazione del virus. Altri casi si sono avuti in mattatoi di Regno Unito, Francia, Paesi Bassi, Polonia, Spagna e Belgio.
In Italia, focolai più piccoli sono stati registrati a giugno in mattatoi di suini del mantovano e nell’azienda di lavorazione carni di Palo del Colle, in provincia di Bari.
L’importanza delle modalità di lavoro
Perché il covid-19 si diffonde in modo così rapido e virulento nei macelli? Secondo un rapporto della Federazione europea dei sindacati dei settori alimentari, agricoltura e turismo (Effat), sarebbero le modalità di lavoro la principale causa della trasmissione. Gli operai nelle linee, costretti a stare a scarsa distanza tra loro e in condizioni igieniche precarie, avrebbero maggiore facilità a infettarsi. Le temperature refrigerate renderebbero poi più efficace il virus, che avrebbe maggiore agilità nel diffondersi.
Condizioni di lavoro che sono rese ancora più disagevoli dalla deregolamentazione del sistema. Gli operai impiegati nel settore sono in maggioranza stranieri privi di tutele, che non ricevono alcun sussidio se non vanno a lavorare e che in molti casi sono quindi costretti ad andare anche se temono di infettarsi o addirittura se hanno sintomi.
È un sistema produttivo di scarsa elasticità e che deve continuare a funzionare in condizioni di ridotta sicurezza per non andare in tilt
Come racconta un’inchiesta della Bbc, nell’impianto Smithfield di Sioux Falls “si parlano 80 lingue: i lavoratori provengono da paesi come Etiopia, El Salvador, Birmania, Repubblica Democratica del Congo”. Molti degli addetti hanno raccontato all’emittente britannica di essersi trovati a dover compiere una “scelta impossibile” tra lavoro e salute. In Germania, paese europeo con i più grandi mattatoi, gli addetti sono per circa un terzo immigrati provenienti dall’Europa centrale o orientale. Lo studio dell’Effat, che analizza il sistema nei singoli paesi, sottolinea come anche in Italia “il modello dominante nel settore della carne prevede il ricorso a cooperative a cui viene subappaltato tutto il ciclo produttivo (dalla macellazione al confezionamento), con contratti che prevedono salari più bassi e minori garanzie”. A queste considerazioni, il gruppo Veronesi risponde che nello stabilimento di Vazzola i lavoratori “sono sì assunti da cooperative, ma con impieghi stabili e con scarso turnover” e che gli ambienti all’interno sono ventilati con impianti di ultima generazione per ridorre il rischio di diffusione del virus.
Il fatto che si sia deciso di non chiudere lo stabilimento Aia di Vazzola per evitare l’abbattimento forzato dei capi di pollame – che saranno poi comunque macellati per destinarli alla commercializzazione – mostra la scarsa elasticità di un sistema produttivo che deve continuare a produrre in condizioni di ridotta sicurezza per non andare in tilt. La progressiva concentrazione degli stabilimenti di macellazione, che aumentano di dimensioni e diminuiscono di numero, rende questi impianti imprescindibili, trasformandoli in vere e proprie bombe sanitarie.
Negli Stati Uniti, i tre quarti della produzione di carne di manzo sono controllati da tre mega-aziende, che macellano i capi in pochissimi stabilimenti. L’impianto di Sioux Falls della Smithfield, chiuso per coronavirus, produce il 5 per cento della carne di maiale venduta nel mercato nazionale. In Germania il gruppo Tönnies detiene il 27 per cento del mercato della carne di maiale.
La tendenza verso una produzione sempre più intensiva non risparmia il nostro paese. Come sottolinea una ricerca condotta dall’associazione Essere animali, in Italia negli ultimi anni hanno chiuso 1.500 allevamenti suinicoli, ma il numero di capi allevati è rimasto invariato. Il 99,8 per cento degli allevamenti di polli ha ormai più di cinquemila capi. La produzione di carne industriale si regge sempre di più su un sistema di economie di scala: pochi grandi allevamenti e sempre meno impianti di macellazione. Nei primi gli animali sono ammassati spesso in condizioni tremende, nei secondi i lavoratori sono costretti a turni sfiancanti in linee di produzione sovraffollate.
Il fatto che i mattatoi in tutto il mondo si siano trasformati in focolai di infezione non sorprende, ma dovrebbe costituire un monito per invertire la tendenza: produrre in modo più sostenibile rispettando maggiormente il benessere animale e quello degli addetti, senza trasformarli a loro volta in carne da macello.
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