Forse gli ultimi sei mesi di caos politico in Corea del Sud hanno trovato il loro epilogo il 3 giugno con l’elezione alla presidenza del candidato progressista Lee Jae-myung, che ha vinto con un ampio margine. L’instabilità era un lusso che il paese non poteva permettersi a lungo, in un contesto regionale e internazionale estremamente instabile.
La crisi era stata aperta dall’imposizione della legge marziale da parte del presidente conservatore Yoon Suk-yeol, immediatamente contestata dalla mobilitazione dei parlamentari e dei cittadini scesi in piazza per opporsi. In seguito il paese aveva faticato a ritrovare la stabilità politica ed economica. Le elezioni presidenziali dovrebbero scrivere la parola “fine” su questa crisi, anche se il paese resta diviso.
Lee Jae-myung prende in mano le redini di un paese scosso da sei mesi agitati e alle prese con sfide proibitive, a cominciare da quelle presentate dalle due potenze nucleari vicine, la Cina e la Corea del Nord, e da quelle del suo principale alleato, gli Stati Uniti, diventati ormai imprevedibili (per usare un eufemismo).
La Corea del Nord rappresenta per definizione la minaccia più insidiosa. Le due Coree non hanno mai firmato un trattato di pace dopo l’armistizio del 1953 e dunque sono tecnicamente ancora in guerra. Il problema è che il regime di Kim Jong-un, a nord, si è dotato della bomba atomica e ha adottato una retorica aggressiva nei confronti di Seoul e di Washington.
Lee Jae-myung, avvocato di 61 anni, è l’erede della corrente che ha sostenuto a lungo la cosiddetta sunshine policy, un approccio di apertura nei confronti del Nord che ha vissuto alti e bassi ma non ha mai offerto una soluzione definitiva. Oggi le parole sono molto più prudenti, soprattutto dopo che la Corea del Nord ha inasprito considerevolmente la sua posizione e si è allontanata dai princìpi di riunificazione.
Di recente un funzionario sudcoreano mi ha spiegato che il coinvolgimento nordcoreano nella guerra in Ucraina ha cambiato radicalmente le carte in tavola. Seoul considerava la guerra in Europa un conflitto lontano, fino a quando è arrivata la notizia della presenza di truppe nordcoreane al fianco di quelle russe. Oggi l’eco del conflitto si fa sentire anche nella penisola coreana.
L’elezione di Donald Trump ha aggiunto una grande dose d’incertezza. Ricordiamo ancora il tentativo di avvicinamento fallito fra Trump e Kim in occasione del primo mandato del presidente statunitense. Ora Trump non risparmia Seoul dall’offensiva dei dazi doganali, mentre gli Stati Uniti si preparano a richiamare diverse migliaia di soldati del loro contingente nella penisola.
Malgrado alcune garanzie offerte da Washington, la Corea del Sud deve affrontare lo stesso problema di tutti gli alleati degli Stati Uniti: fino a che punto è giusto fidarsi della promessa di sicurezza americana? Domanda accessoria: allo stato attuale la Corea del Sud non farebbe forse meglio a dotarsi dell’arma nucleare come strumento di dissuasione nei confronti del vicino ostile?
Il funzionario sudcoreano a cui ho parlato dei miei dubbi e dell’ipotesi che Seoul possa ottenere l’arma nucleare nel giro di pochi mesi mi ha risposto in modo semplice: “Sì, è vero”. Ecco perché è un bene che la Corea del Sud abbia un presidente stabile con un mandato solido. Le sfide che attendono il paese, infatti, sono potenzialmente esplosive.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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