03 novembre 2023 13:38

Quando il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha riportato l’atroce attacco di Hamas in un contesto storico più ampio, sottolineando che non era nato “dal nulla”, ma “dopo che il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione”, il ministro degli esteri israeliano Eli Cohen, puntando il dito verso di lui e alzando la voce ha chiesto: “Signor segretario generale, in che mondo vive?”.

Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre e i bombardamenti israeliani su Gaza, sembra che due mondi – due narrazioni – si stiano confrontando, senza condividere i valori e i punti fermi necessari per capirsi, a cominciare dal minimo comune denominatore, che dovrebbe essere il diritto internazionale umanitario. Vent’anni dopo l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan, l’Europa sostiene in blocco l’unilateralismo statunitense. Tuttavia, con l’Ucraina prima e la guerra a Gaza ora, si sta formando un’opinione pubblica che considera in modo critico la posizione dell’occidente.

Dopo settimane di guerra nella Striscia di Gaza, intellettuali e pensatori liberali del mondo arabo stanno scrivendo di questa divisione e della perdita di una traiettoria comune, osservando che i valori umanitari e il diritto internazionale si applicano alla guerra in Ucraina, ma non a Gaza. Così facendo, riflettono su come elaborare un nuovo pensiero del sud globale.

Secondo Rashid Khalidi, professore della Colombia university di New York, esperto di storia del Medio Oriente, la narrazione dei grandi mezzi d’informazione occidentali ricorda il periodo in cui i due blocchi della guerra fredda si scontravano: “Trovo che nella maggior parte delle testate più diffuse ci sia essenzialmente propaganda a favore della guerra totale. Gli statunitensi, gli europei, la bolla dei coloni bianchi (…) pensano ancora a loro stessi come ai padroni dell’universo. Sono invece una piccola minoranza della popolazione mondiale. India, Cina, Indonesia, Pakistan, Bangladesh e Brasile sono alcuni dei paesi più grandi del mondo, e le persone lì non vedono la situazione allo stesso modo”.

Molti commentatori ritengono che la distanza tra queste visioni sia stata segnata dall’invasione dell’Ucraina: i popoli del sud globale sono solidali con gli ucraini, ma non sono del tutto convinti della narrazione sulla guerra contro la Russia proposta dagli Stati Uniti e dalla Nato.

Pregiudizi e fragilità

In un editoriale intitolato “L’occidente immorale”, il quotidiano Al Araby Al Jadid scrive che mentre Stati Uniti e Regno Unito sostengono Israele come se fosse parte del loro interesse nazionale, “esiste un mondo – il mondo reale – che la pensa in modo completamente diverso. E inesorabilmente si allarga il divario con l’occidente. Qual è la differenza tra i civili disarmati che muoiono a Kiev e quelli che muoiono a Gaza, Jenin e Ramallah? Il diritto internazionale umanitario è usato in modo selettivo e crudele”.

La mancanza di empatia per gli abitanti della Striscia – tra cui si registrano novemila vittime, tra cui 3.760 bambini – e per i palestinesi della Cisgiordania svela per molti l’ipocrisia degli Stati Uniti e dell’Europa. “L’occidente è nudo”, scrive il poeta libico Ashour al Tuwaibi.

Secondo Khalidi la crisi svela anche la vulnerabilità occidentale: “Sta diminuendo il potere, la posizione e la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi alleati”.

L’occidente rivela i suoi pregiudizi, scrive Daraj: “Il sostegno occidentale nei confronti di Israele si è spinto a tal punto da limitare chiunque sia solidale con i palestinesi, tanto che mostrare la bandiera palestinese nelle piazze europee e statunitense è diventato un atto antisemita e una violazione della legge”.


Jessica Valentine, professoressa libanese immigrata negli Stati Uniti, scrive sulla rivista Raseef22: “L’adesione cieca a una visione sconcertante e sensazionale del conflitto, e le conversazioni casuali con estranei che rivelano un’inquietante miscela di ignoranza e odio, hanno scavato un abisso tra me, immigrata dal mondo arabo, e il mio nuovo paese, al punto da trafiggere la mia fiducia”.

Due pesi e due misure

Il settimanale marocchino Tel Quel titola in copertina: “Occidente contro sud globale, la spaccatura è in corso”. L’editorialista Reda Dalil scrive che i due pesi e le due misure erano già stati usati durante le guerre in Iraq, Afghanistan e Libia, paesi invasi senza richiedere un mandato dell’Onu.

Inoltre, nel caso dell’Ucraina, il sud globale ha potuto osservare come la macchina dell’accoglienza dei rifugiati si sia subito messa in moto, mentre siriani, pachistani o africani, anche loro scappati da guerre e violenze, sono stati abbandonati al loro destino. Secondo Tel Quel, “la vita di un bianco non sarà mai uguale a quella degli altri”.

Dall’Algeria lo scrittore e drammaturgo Hamida Aishi spiega che bisogna uscire dalla trappola coloniale, che presenta la questione palestinese come un conflitto tra due identità, due popoli o due religioni. Al contrario, bisogna mostrare “il conflitto (…) per quello che è veramente: una guerra di oppressori contro oppressi”, e non “del ‘bene contro il male’, in stile Hollywood”.

Le responsabilità

Il quotidiano Al Araby Al Jadid ha chiesto a scrittori e intellettuali arabi di mandargli testi brevi per “pensare collettivamente a ciò che la cultura araba può fare ora – e nei momenti cruciali che seguiranno – così da cominciare un suo percorso verso la liberazione, la giustizia sociale e la fine delle realtà coloniali e tiranniche”.

Nella storia del pensiero arabo moderno, la questione palestinese è sempre stata centrale. La sconfitta degli eserciti arabi nella guerra contro Israele del 1967 ha dato il colpo finale al rinascimento culturale e intellettuale in corso all’epoca. Da decenni gli intellettuali arabi, quasi rassegnati per via della loro impotenza, avevano insistito meno sul tema, lasciando credere ai “leader occidentali che Israele fosse sul punto di liquidarlo per sempre, con la complicità degli stessi arabi”.

Lo scrittore libanese Khaled Ziadah propone agli intellettuali arabi di ridefinire la questione arabo-palestinese, “ripristinando il ruolo della politica, dopo che la cultura araba si è persa tra guerre di religione e crociate”, e accettando innanzitutto “la nostra parte di responsabilità rispetto al grado di umiliazione che abbiamo raggiunto”. Per questo, l’unica soluzione è “attivare l’arte e parlare ancora più forte del solito”.

Hamida Aishi concorda che la responsabilità non è solo dell’occidente: “La causa palestinese è stata abbandonata dal punto di vista culturale, ridotta a calcoli politici dettati dal gioco di equilibri e dai rapporti di potere, spogliata di ogni suo significato simbolico e umano”. Uno dei doveri di intellettuali e pensatori arabi, secondo Aishi, è rimetterla al centro di un nuovo contesto culturale.

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