Questo articolo è stato pubblicato il 23 dicembre 2005 nel numero 622 di Internazionale.
Sulla mia scrivania, come sulla maggioranza delle scrivanie di chi si occupa di ricerca scientifica, c’è un gran traffico di riviste accademiche e articoli. Montagne di pagine sulle ultime fondamentali scoperte, destinate a invecchiare nel giro di una settimana. Ma lo studio A cross-cultural summary, scritto nel 1967 da Robert Textor, antropologo di Stanford, resiste da anni saldamente piantato sul mio tavolo, non solo perché le sue tremila pagine lo rendono difficile da spostare.
Il tomo contiene una riflessione sulle correlazioni tra le culture portatrice d’interrogativi inquietanti su come noi esseri umani abbiamo reso il mondo ciò che è. Ultimamente ci torno su spesso e volentieri.
In tutto il mondo, ogni cultura ha qualcosa da spartire con l’ecosistema in cui si trova. È più probabile che le società tradizionali della tundra abbiano modelli culturali simili tra loro, piuttosto che ci siano somiglianze con quelle delle foreste tropicali. E il comune antenato ancestrale conta poco. Le civiltà degli altopiani differiscono in modo sistematico da quelle dei pescatori degli arcipelaghi.
Alcune di queste distinzioni sono ovvie: i tuareg non hanno 27 vocaboli diversi per indicare la neve o gli ami da pesca. Tuttavia, secondo Textor, ci sono correlazioni che non sono affatto ovvie e hanno contribuito a fare del mondo quel casino sociopolitico in cui ci troviamo.
I tentativi di collegare civiltà, clima e situazione ambientale hanno una lunga storia (ci aveva già provato Erodoto, ben prima di Montesquieu), ma quando l’antropologia è diventata materia di studio lo sforzo si è fatto scientifico. I primi tentativi spesso erano fesserie razziste sul maschio bianco. Ogni studio pareva offrire una prova indiscutibile di come gli ecosistemi dell’Europa settentrionale avessero dato origine a civiltà superiori, più progredite dal punto di vista morale, tecnologico e intellettuale (e più brave a cuocere le cotolette).
Invece, molta dell’antropologia contemporanea rappresenta una traumatica marcia indietro rispetto agli errori dei padri della disciplina. Una soluzione è stata quella di eliminare del tutto la comparazione culturale, preludio di un’epoca in cui un antropologo rischia di passare l’intera carriera a documentare il rito d’ingresso nella pubertà di una tribù di contadini del nordest del Camerun.
Tuttavia, alcuni studiosi “generalisti” esistono ancora e si sono occupati dei modelli culturali comparati evitando con cautela i pregiudizi ideologici. Molti hanno continuato ad analizzare il modo in cui il contesto ambientale agisce sulle civiltà. Un vero pioniere è stato John Whiting di Harvard che, nel 1964, ha scritto un articolo intitolato “Effetti del clima su alcune pratiche culturali”.
Confrontando i dati delle società non occidentalizzate dei quattro angoli del pianeta, ha notato che i mariti e le mogli delle popolazioni che risiedono in climi più freddi dormono più spesso insieme di quanto non facciano i coniugi alle latitudini tropicali, e si è accorto che i popoli degli habitat dove le diete sono povere di proteine osservano più restrizioni riguardo al sesso postparto. Ciò lo ha portato a ipotizzare che, per bilanciare la scarsità proteica, i bambini richiedano un allattamento più lungo e che questo renda preferibili gravidanze più distanziate nel tempo.
Altri antropologi hanno studiato le radici ambientali della violenza. Nel 1982 Melvin Ember, dell’università di Yale, ha scoperto che gli ecosistemi più stabili e clementi favoriscono l’unità delle famiglie, che anno dopo anno coltivano il loro pezzo di terra o cacciano e raccolgono nelle foreste circostanti. In ambienti meno ospitali, i gruppi familiari sono spesso costretti a separarsi per lunghi periodi; per esempio, nella stagione secca le mandrie vengono divise e i membri della famiglia si sparpagliano in pascoli lontani con greggi più piccole. In situazioni del genere è più facile che nascano le classi dei guerrieri (è il caso dei pastori masai dell’Africa orientale); così se un nemico attacca mentre gli uomini sono via con il bestiame, c’è sempre un esercito pronto a intervenire.
Cuoio e giochi di destrezza
Negli anni sessanta Robert Textor si è avvicinato alle ricerche di comparazione culturale con un approccio completamente diverso. Ha raccolto le informazioni su circa quattrocento popoli del mondo classificandoli in base a oltre cinquecento caratteristiche, come il sistema legale, la sussistenza, le credenze sulla vita ultraterrena, le conoscenze di metallurgia, o quali popoli prediligano i giochi di fortuna e quali quelli di strategia. Poi ha inserito queste variabili in uno dei primi mastodontici computer e le ha incrociate traendone alcuni dati significativi.
Il risultato è il monumentale A cross-cultural summary, pieno di tabelle che rivelano tra le altre cose come le differenze culturali siano statisticamente collegate alle differenze ambientali. Si tratta di un libro che, pur non essendo una lettura da ombrellone, tra le migliaia di pagine di correlazioni nasconde un non so che d’irresistibile. Dove altro è possibile scoprire che i popoli che non sanno lavorare bene il cuoio non possiedono giochi di destrezza? E come lo si spiega?
Da questi criteri antropologici è emersa una dicotomia basilare tra due tipi di società provenienti da ecosistemi molto diversi: quelle che si sono sviluppate nelle foreste pluviali e quelle fiorite in zone desertiche. Prendiamo i pigmei rispetto ai beduini del Medio Oriente, o i nativi dell’Amazzonia e i nomadi del Gobi: fra loro ci sono differenze sostanziali e profonde. Ovviamente ci sono anche le eccezioni, e alcune sono clamorose. Ma nel complesso, le correlazioni sono incredibili.
Partiamo dalle credenze religiose. La maggioranza delle popolazioni che vive nelle foreste pluviali è politeista e adora un alto numero di spiriti e divinità. Il politeismo è prevalente tra le tribù del bacino dell’Amazzonia, delle foreste pluviali africane, della Nuova Guinea e del sudest asiatico (dal Borneo al Vietnam).
Invece, le popolazioni delle zone desertiche – beduini d’Arabia, berberi del Sahara orientale e varie tribù del deserto del Kalahari o delle zone fra Sudan e Kenya – sono soprattutto monoteiste, benché non mancano, nonostante la devozione a un’unica divinità principale, altri esseri soprannaturali come angeli, folletti o Satana. Ma la gerarchia è marcata e le divinità minori sono sottomesse all’Onnipotente.
Questa divisione ha un senso dal punto di vista ecologico: il deserto insegna la vastità e la singolarità, come il suo paesaggio, che è duro, avaro e respingente; il mondo si riduce a elementi semplici e asciutti. Pensiamo invece alle tribù delle foreste, immerse in un’incredibile varietà di piante commestibili ed erbe medicinali, capaci d’identificare più specie di formiche su una sola pianta di quante sia possibile trovarne in tutto l’arcipelago britannico. Che in un simile ambiente ci sia un’infinità di dèi, sembra naturale.
Inoltre, anche quegli abitanti delle foreste che sono monoteisti sono assai poco propensi a credere che il loro dio metta il naso negli affari degli altri popoli influenzando il tempo, mandando disgrazie o altre amenità. Invece, il deserto dà l’impressione di fomentare il fatalismo, la fede in una divinità interventista dai progetti capricciosi.
Classi guerriere
Un’altra differenza fondamentale è stata messa in luce da Melvin Ember. Le culture del deserto, i cui rappresentanti sono sparsi qua e là per badare a capre e cammelli, di solito offrono terreno fertile alla nascita di classi guerriere e di tutto ciò che è legato alla guerra. Ecco allora che i trofei bellici diventano pietre miliari per lo status sociale e la morte in battaglia costituisce una garanzia per una gloriosa vita ultraterrena; e poi c’è la schiavitù. Inoltre, queste civiltà sono spesso stratificate in più classi sociali con un’autorità centrale; hanno una cosmologia, composta da un dio onnipotente che domina su un esercito di divinità minori, che trova un parallelo naturale nella rigida gerarchia sulla Terra.
Nel lavoro di Textor emergono altre differenze tra popoli del deserto e popoli delle foreste. Tra questi ultimi, l’acquisto o la contrattazione delle mogli sono rari e di solito le donne sposate formano il nocciolo della comunità, e non sono spedite lontano in nome di redditizie politiche matrimoniali. Tra i popoli del deserto sono le donne che di solito hanno l’arduo compito di costruire l’accampamento e andare in cerca di acqua e legna da ardere, mentre gli uomini se ne stanno a contemplare i loro maestosi branchi di animali pianificando l’incursione successiva.
Nelle foreste di solito sono gli uomini a svolgere i compiti più faticosi ed è raro che si sviluppino idee sull’inferiorità delle donne. Non è facile trovare preghiere in cui i maschi ringraziano per non essere nati femmine, come nel caso di almeno una famosa religione derivata dalle culture del deserto. E da ultimo, le genti del deserto tendono a insegnare ai loro bambini il pudore e l’imbarazzo della nudità a un’età molto minore rispetto a quelli delle foreste e hanno regole molto più severe a proposito di sesso prematrimoniale.
Ma allora con quali popolazioni sarebbe meglio avere a che fare? Quando si arriva agli argomenti religiosi, secondo me, ormai è ovunque praticamente la stessa cosa. Come per le altre correlazioni, le civiltà delle zone desertiche – con il loro militarismo, gli strati sociali, la sopraffazione nei confronti delle donne, i formalismi riguardo all’educazione e alla sessualità – sembrano poco attraenti.
Eppure ci ritroviamo in un mondo dominato dai discendenti culturali degli abitanti dei deserti. Queste popolazioni, partendo dal Medio Oriente, si sono sparse sconfinando nell’Eurasia, trascorrendo gli ultimi cinquecento anni a sottomettere le popolazioni indigene in giro per il mondo, prima nelle Americhe, poi in Africa, quindi in Australia. Con il risultato che il nostro è un mondo giudaico-cristiano-musulmano, e non originario delle tribù delle foreste.
Così adesso abbiamo cristiani, ebrei e musulmani nei campi di grano del Kansas, nei cantoni alpini e nella foresta pluviale della Malesia. La forma mentis del deserto, con il bagaglio che si porta dietro, si è dimostrata straordinariamente elastica nel diffondersi sull’intero pianeta. D’accordo, pochi oggi vivono ancora come pastori nomadi, accudendo le greggi. Ma centinaia, e addirittura migliaia, di anni dopo la comparsa di queste culture, continuano a portare i segni del loro passato nel deserto.
I taliban, i nemici che abbiamo vinto in Afghanistan, e i nostri amici sauditi, così ben introdotti, hanno creato società spaventosamente repressive. Negli ultimi anni a Gerusalemme, gli zeloti ultraortodossi si sono scontrati con la polizia cercando di far chiudere le strade per rispettare il sabato, imponendo la loro visione religiosa restrittiva. In molte zone degli Stati Uniti è la destra cristiana a indicare quali fatti e verità un insegnante con una curiosa propensione per il darwinismo debba insegnare ai ragazzini.
Purtroppo, la forma mentis delle foreste appare non solo assai meno adatta a diffondersi, ma anche molto più fragile quando viene sradicata, più di una pianta da serra. Il disboscamento, l’agricoltura e l’allevamento ci hanno messo poco a deforestare l’Europa. Stiamo assistendo a un’estinzione mai vista prima di specie viventi così come di culture e dialetti.
William Sutherland, un biologo che si occupa di popolazioni all’università dell’East Anglia, ha dimostrato come le zone del mondo più ricche di biodiversità siano anche quelle con il maggior numero di lingue, e che queste corrono un pericolo perfino maggiore degli uccelli o dei mammiferi. E lo stesso sta accadendo alle genti delle foreste, con la loro fragile molteplicità figlia di un mondo lussureggiante cui nulla mancava, e che ora si liquefanno nelle fogne a cielo aperto di Rio, Lagos e Jakarta.
Che farsene delle correlazioni tra ambiente e pratiche culturali? Perché tutto torni, basta pensare a noi umani come a quei primati che in effetti siamo. Andiamo a scoprire due nuove specie di scimmie: di loro non sappiamo nulla, se non che una vive sugli alberi di una foresta amazzonica e l’altra vaga per le lande desolate della Namibia. Un esperto di proscimmie potrà stabilire in anticipo (e assai accuratamente) i diversi comportamenti sessuali delle due specie, qual è la più aggressiva, quale la più territoriale e via dicendo. In questo senso siamo soggetti alle influenze dell’ambiente naturale come qualsiasi altra specie.
Ma ci distinguono due grandi differenze. Nell’uomo le eccezioni alla regola sono molte e più complicate, rispetto agli altri primati. In fondo il nostro vecchio e brutto mondo giudaico-cristiano-musulmano ha prodotto anche gente pacifica come i quaccheri o i sufi. Invece, nessun babbuino della savana, habitat che favorisce gli onnivori, si è mai convertito, per questioni etiche, alla dieta vegetariana.
Il secondo tratto distintivo della cultura umana è la sua inclinazione esistenziale. Non mi riferisco solo al grado d’influenza che le condizioni ambientali hanno esercitato sul modo di costruire le punte di freccia o se, durante una cerimonia nuziale, si suona il sonaglio prima o dopo aver danzato con il teschio di iena. In ballo ci sono le preoccupazioni profonde e categoriche dell’uomo: dio esiste (o gli dèi esistono)? E si occupa (occupano) di noi? Che succede quando moriamo e quanto le azioni compiute in vita pesano su ciò che viene dopo? Il corpo è una cosa fondamentalmente sporca e vergognosa? E il mondo è fondamentalmente un luogo ospitale?
In fin dei conti, se vogliamo trovare risposte a queste domande estremamente personali, individuali, dobbiamo ammettere un sottofondo biologico. Ormai conosciamo i molti modi in cui la genetica, la neurochimica e l’endocrinologia sono coinvolte nella depressione, tanto da far vedere alle persone la vita come un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Abbiamo addirittura cominciato a scoprire una biologia della fede religiosa: ci sono danni neurologici che causano manie religiose, e disturbi neuropsichiatrici associati a modi di pensare “metamagici”.
Ci sono regioni del cervello che regolano la maniera più o meno rigida con cui un organismo s’interroga sui rapporti di causa-effetto, con la conseguenza potenziale di offrire dei punti di vista segreti su quello strano fenomeno che chiamiamo fede.
Per rispondere alla domanda “come sono diventato ciò che sono?”, dobbiamo riunire una miriade di fattori sottili e interconnessi, dalle pressioni evolutive che, milioni di anni fa, hanno dato forma al nostro gorgo genetico, all’attivazione dei neurotrasmettitori avvenuto un microsecondo fa. Forse è giunto il momento di inserire nella lista un’altra strana variabile biologica: quando i nostri antenati s’interrogavano sui grandi quesiti dell’esistenza lo facevano contemplando una cortina inestricabile di alberi o un orizzonte senza fine?
(Traduzione di Mariangela Viscio)
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