La notizia non è arrivata inattesa, Mosca ci lavorava da tempo, ma il riconoscimento ufficiale del governo afgano dei taliban da parte della Russia, annunciato il 3 luglio, potrebbe segnare un punto di non ritorno. Il motivo per cui finora nessun paese aveva fatto il grande passo è più o meno lo stesso per cui l’8 luglio la Corte penale internazionale ha spiccato due mandati d’arresto nei confronti di altrettanti leader del gruppo che il 15 agosto del 2021 ha ripreso il controllo del paese costringendo le truppe statunitensi a una fuga scomposta.

Ci sono, si legge nella dichiarazione della corte, “ragionevoli motivi per ritenere” che il leader supremo dei talibani, Haibatullah Akhundzada, e il capo della giustizia afgana, Abdul Hakim Haqqani, abbiano ordinato politiche che privano le donne e le ragazze “dell’istruzione, della privacy e della vita familiare e delle libertà di movimento, espressione, pensiero, coscienza e religione”. Quella che i difensori dei diritti umani definiscono “apartheid di genere” e che di fatto si traduce in una cancellazione della popolazione femminile dagli spazi pubblici.

Molti temono che la mossa di Mosca, giustificata da vari motivi, possa avere un effetto domino, aprendo la strada all’uscita dei taliban dall’isolamento e vanificando un mezzo che l’occidente “difensore delle donne afgane” poteva usare come leva per cercare di migliorarne la condizione (sull’invasione occidentale dell’Afghanistan per liberare le afgane dal burqa Rafia Zakaria aveva scritto questo).

In realtà in quattro anni non ci sono state grandi pressioni sul regime in questo senso, per lo meno nulla che abbia prodotto risultati tangibili, e oggi rispetto alla prima volta che andarono al governo, negli anni novanta, i taliban sono molto meno isolati.

Dopo la presa di Kabul, nel 2021, Iran, Cina, Pakistan, gran parte delle repubbliche centrasiatiche, il Qatar, gli Emirati Arabi, la Turchia e la Russia hanno mantenuto una presenza diplomatica in Afghanistan, con missioni operative. E a oggi, anche senza riconoscere formalmente l’Emirato islamico (il nome ufficiale del regime dei taliban), più di una decina di paesi hanno nominato un ambasciatore a Kabul. Tra questi il Giappone, la Cina, l’Iran, l’Arabia Saudita.

L’India, come il Kirghizistan e il Tagikistan, hanno un incaricato d’affari che mantiene una qualche relazione diplomatica con il paese, mentre Stati Uniti, Regno Unito, Italia, Paesi Bassi e Corea del Sud usano le loro missioni di Doha, in Qatar. Altri, tra cui il Belgio e il Brasile, si affidano alle loro ambasciate in Pakistan. Insomma, l’isolamento dei taliban era di fatto già relativo.

Le ragioni di Mosca, che ad aprile, dopo più di vent’anni, aveva tolto i taliban dalla lista dei gruppi terroristici, sono diverse. Ha bisogno della loro collaborazione contro la minaccia del gruppo Stato islamico, che l’anno scorso ha rivendicato l’attentato a una sala da concerti fuori Mosca in cui sono morte 149 persone. Mantenere buoni rapporti con Kabul serve ad alimentare il suo ruolo di potenza nella regione a livello strategico e geopolitico e garantire sicurezza e stabilità ai paesi dell’Asia centrale.

Quanto agli Stati Uniti, invece, a marzo c’era stato un segnale di novità nell’atteggiamento di Washington nei confronti di Kabul. In cambio del rilascio di un cittadino statunitense, in carcere in Afghanistan da più di due anni, gli Stati Uniti hanno tolto le taglie su tre leader taliban della rete Haqqani. Questi sviluppi, scriveva Foreign Policy allora, “sono da attribuire al carattere transazionale dell’amministrazione Trump”: in sostanza cercare di raggiungere obiettivi limitati, come il rilascio di altri cittadini statunitensi e la restituzione di armi lasciate dalle truppe in fuga nel 2021, senza mirare a qualcosa di più ambizioso come aiutare le donne afgane e in generale la popolazione, precipitata in una crisi umanitaria che i tagli agli aiuti di Washington hanno ulteriormente peggiorato.

Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.

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