Questo articolo è stato pubblicato il 21 agosto 2020 nel numero 1372 di Internazionale.
Ogni mercoledì sera ricevo un’email dal climate team del New York Times, uno dei più importanti quotidiani del mondo. La newsletter offre una comoda panoramica dei loro articoli sul cambiamento climatico che, com’è normale quando si tratta di questo argomento, hanno spesso un tono decisamente cupo. Per non scoraggiare subito il lettore, c’è sempre un articolo con consigli per agire in prima persona: “Come ridurre gli spostamenti in automobile”, “Cosa succederebbe se limitassimo tutti il consumo di carne”, “Come ridurre la posta indesiderata”, “Quale albero piantare”, “Come lavare la macchina”, “Organizzare un barbecue sostenibile”, “Il modo migliore per far bollire l’acqua”.
È una scelta intelligente: di fronte alle notizie deprimenti sul triste stato del clima, le persone hanno bisogno di sapere di poter fare qualcosa. L’azione è un potente antidoto all’avvilimento che può sopraffarci di fronte a un problema più grande di noi. E pochi problemi sono più grandi del cambiamento climatico.
Seguire i consigli del New York Times aiuta a risollevare il morale per un po’. Ricevete ancora posta cartacea? Potete salvare qualche albero iscrivendovi a un apposito registro perché non vi sia più recapitata. Volete piantare un albero in giardino? Prima individuate la specie che offre i maggiori benefici per il clima. Fortunatamente si può risparmiare un po’ di tempo portando la macchina all’autolavaggio, che è più ecosostenibile della pompa in giardino.
L’idea di riuscire a limitare le proprie emissioni di gas serra e di contribuire in qualche modo alla salvaguardia dell’ambiente dà una certa soddisfazione. Quando il telegiornale parla della plastica negli oceani e della scomparsa degli insetti, uno può pensare: “Almeno non è colpa mia”. Ma chi attribuisce più importanza alla pulizia del pianeta che a quella della propria coscienza non può non provare frustrazione di fronte al disastro ecologico, che prosegue malgrado gli sforzi individuali. Come mi ha detto un giovane attivista: “Avevo smesso di mangiare carne, ma i politici continuavano a rilasciare permessi per trivellazioni e nuovi oleodotti. Mi sentivo impotente”.
Per contrastare questa sensazione dobbiamo fare i conti con il mito del consumatore verde, che ormai da trent’anni confonde le acque del dibattito sulla sostenibilità. Finché ci concentreremo sui comportamenti individuali non ci avvicineremo a una soluzione. Per un cambiamento strutturale serve l’intervento politico. Perché se da un lato alcuni cittadini si vergognano della propria impronta ecologica, dall’altro le aziende inquinanti tengono consapevolmente in piedi un sistema distruttivo.
Da bambino mi fu inculcata l’idea che potevamo salvare il pianeta limitando i consumi di cibo ed energia. “La salvaguardia dell’ambiente comincia da te”, recitava una campagna del governo olandese. Un messaggio che trasmisi ai miei genitori, che diligentemente installavano lampadine a basso consumo e differenziavano i rifiuti. Era un piccolo sforzo. Per dare il nostro contributo a un mondo migliore non dovevamo ridurre drasticamente i consumi: potevamo comunque andare in vacanza in Francia in macchina e mangiare carne cinque volte alla settimana. Secondo le pubblicità era sufficiente acquistare i prodotti sostenibili, che erano sempre più numerosi.
Negli anni settanta gli scienziati del Club di Roma avevano messo in guardia dai “limiti dello sviluppo”, ma negli anni novanta i loro allarmi erano già considerati obsoleti. Il concetto di “limite” è stato soppiantato da quello più ottimista dello “sviluppo sostenibile” e di “responsabilità sociale d’impresa”. I politici consideravano le aziende partner importanti nella lotta al cambiamento climatico e gli amministratori delegati vedevano nuove opportunità commerciali nella crescente coscienza ecologica dei consumatori.
Da allora l’imprenditoria sostenibile si è diffusa in tutto il mondo. Oggi le aziende competono per un buon piazzamento nella classifica internazionale della sostenibilità del Dow Jones, si è affermata la figura del sustainability consultant e si moltiplicano i premi per manager e imprese “verdi”. Solo nei Paesi Bassi esistono quasi cento marchi di qualità che identificano banane, caffè e prodotti caseari sostenibili. L’idea è che se vogliamo che le aziende diventino più verdi, dobbiamo essere noi consumatori a esigerlo. Il mondo non si migliora con la scheda elettorale, ma con il carrello della spesa.
Esistono innumerevoli progetti e iniziative che invitano i consumatori a sviluppare una maggiore consapevolezza ambientale. Alcuni sono sicuramente mossi dalle migliori intenzioni, mentre altri appaiono più sospetti.
Qualche tempo fa su Twitter mi è comparso un annuncio con dei consigli su come risparmiare energia. Potevo comprare un frigorifero più efficiente, lavare i vestiti a trenta gradi e farli asciugare al sole. Per preparare il caffè non dovevo usare più acqua del necessario. Trovo sempre irritante questo tipo di sciocchezze pseudoambientaliste, ma mi sono proprio infuriato quando ho visto da chi proveniva il messaggio: ExxonMobil, una delle più grandi aziende petrolifere del mondo, che ogni anno spende miliardi per estrarre combustibili fossili ed è al centro di vari casi giudiziari per aver ingannato i cittadini nel tentativo di ostacolare le politiche contro il cambiamento climatico.
La Exxon non è la prima azienda dei combustibili fossili che si serve della pubblicità per suscitare sensi di colpa nei consumatori. Il concetto dell’impronta ecologica individuale si è affermato nel 2005 grazie a una campagna della Bp, che voleva costruirsi un’immagine di azienda attenta all’ambiente. Un esempio da manuale di greenwashing, perché nella sostanza ben poco era cambiato. La Bp aveva messo a punto un calcolatore con cui ogni famiglia poteva misurare le proprie emissioni di anidride carbonica. Il messaggio sottinteso era: nessuno è senza peccato, quindi finché voi non cambiate non aspettatevi che lo facciamo noi.
I grandi inquinatori scaricano il barile sui clienti per sviare l’attenzione dal problema reale, cioè che venti società energetiche sono responsabili del 35 per cento di tutte le emissioni di gas serra dal 1965, come emerge dall’inchiesta Carbon majors pubblicata nel 2019 dal Guardian. Per liberarsi da questo peso non basta certo comprare un frigorifero efficiente e lavare a freddo.
Può darsi che sia sciocco prendere a esempio i frigoriferi. Ovviamente non risolveremo la crisi climatica con i consigli della Exxon o del New York Times, ma ciò non toglie che alcune scelte possano avere un impatto significativo. Fare docce più brevi non aiuta molto l’ambiente: si risparmiano appena novanta chili di anidride carbonica all’anno. Ma un volo da Amsterdam a New York produce 1.700 chili di anidride carbonica in un colpo solo. Volare di meno, quindi, fa davvero la differenza. E anche mangiare meno carne, perché gli allevamenti emettono più gas serra di tutto il settore dei trasporti. Passare a una dieta vegetariana è uno dei contributi più efficaci che un individuo possa dare alla lotta al cambiamento climatico.
Non siamo la Shell
L’estate scorsa ho assistito a una presentazione dell’ultimo libro di Jonathan Safran Foer. La sala era piena di persone in attesa di ascoltare lo scrittore statunitense. Foer è famoso per i suoi romanzi – Ogni cosa è illuminata (Guanda 2002) e Molto forte, incredibilmente vicino (Guanda 2005) – ma anche per i suoi saggi. In Se niente importa (Guanda 2016) ha illustrato gli orrori degli allevamenti intensivi e ha messo in discussione l’idea stessa di mangiare animali morti. Nel suo nuovo libro Possiamo salvare il mondo, prima di cena (Guanda 2019) scava ancora più a fondo: mangiare carne non è solo moralmente discutibile da una prospettiva animalista, ma anche insostenibile a livello ambientale.
All’inizio ero un po’ perplesso. In che senso Foer dice che il clima siamo “noi”? Crede davvero che una colazione vegana possa salvare il mondo? Ma quando ha cominciato a parlare i dubbi hanno ceduto il passo all’ammirazione. Era disarmante sentirlo condividere con il pubblico i suoi dilemmi interiori. Foer non puntava il dito e ammetteva i suoi limiti. Si definiva vegetariano, ma non era sicuro che durante il tour promozionale non avrebbe ceduto alla tentazione di un hamburger. Non voleva convertire i lettori al veganesimo, perché non si trattava di scegliere tra tutto o niente. Chiedeva solo di riflettere di più su ciò che mangiamo. Siate sinceri sulle vostre difficoltà, consigliava Foer, perché così è più facile farsi ascoltare.
Ma nel corso della presentazione i miei dubbi hanno preso di nuovo il sopravvento. Foer ha letto un brano in cui paragona la lotta al cambiamento climatico alla seconda guerra mondiale. Allora, ha detto, si era disposti al sacrificio. Nessuno statunitense si lamentava della benzina razionata, dei limiti al consumo di carne e delle tasse più alte. Pagare le tasse era un atto patriottico. Così come condividere un’automobile, perché – secondo uno slogan dell’epoca – chi viaggiava da solo aveva “Hitler come passeggero”. La grande differenza è che nella seconda guerra mondiale gli statunitensi sapevano chi era il nemico: la Germania nazista, dove regnava il male assoluto. Ma contro chi stiamo combattendo nella lotta al cambiamento climatico? Contro noi stessi, sosteneva Foer. “Il nemico possiamo vederlo solo allo specchio”.
Mi ha fatto ripensare a quando, durante un dibattito, qualcuno mi aveva detto che era “troppo facile” prendersela con la Shell. “Anch’io sono la Shell”, aveva affermato quella persona. “Lo sei anche tu”. Quell’osservazione avrebbe risuonato a lungo nella mia testa. Anch’io sono la Shell? Non ho una macchina ed è raro che mi fermi a una stazione di servizio, ma ovviamente non era questo il punto. Tutti noi usiamo servizi e prodotti che esistono grazie ai combustibili fossili. Io riscaldo la mia casa, giro per il mondo, carico il mio cellulare grazie al petrolio, al carbone e al gas estratti da aziende come la Shell. In quanto consumatore faccio parte del sistema che critico. Gli allevamenti intensivi esistono perché moltissime persone vogliono mangiare carne a basso prezzo. Per citare Foer: “Le aziende producono quello che compriamo. Gli agricoltori coltivano quello che mangiamo. Siamo i mandanti dei loro crimini”.
Secondo Foer i produttori di carne sarebbero cambiati in risposta alle nuove esigenze del mercato. C’è qualche motivo per essere ottimisti: Kentucky Fried Chicken e Burger King hanno inserito opzioni vegetariane nei loro menù, e Beyond Meat, produttore di hamburger vegani, ha riscosso un enorme successo in borsa. Siamo forse sulla buona strada?
Alla presentazione, con gli interventi del pubblico è arrivata l’inevitabile domanda: “E allora la Cina? I cinesi stanno diventando più ricchi e vogliono mangiare carne”. Foer era impaziente di rispondere. “Per fortuna si sbaglia”, ha detto con gentilezza. “Il governo cinese vuole dimezzare il consumo di carne entro il 2030. È un obiettivo più ambizioso di quelli che si sono posti tutti i paesi occidentali”
Ci ho messo un po’ a rendermi conto che la risposta di Foer rivelava il punto debole del suo discorso. La riduzione del consumo di carne in Cina è una decisione politica imposta dall’alto. Probabilmente la classe media cinese preferirebbe mangiare bistecca più spesso, ma lo stato cerca di mettere un limite. Lo stesso vale per la seconda guerra mondiale: il governo statunitense non aspettò che i cittadini comprassero meno benzina o pagassero più tasse di propria iniziativa, ma prese delle misure e la popolazione le accettò.
Il parallelo con la mobilitazione bellica è efficace, ma per ragioni diverse da quelle che sostiene Foer. Dimostra che per contrastare una minaccia esistenziale abbiamo bisogno di un governo attivo e di grandi piani. E diversamente da quanto diceva Foer, non combattiamo contro noi stessi, ma contro nemici chiaramente identificabili. Esistono industrie potenti che fanno grandi profitti inquinando il pianeta e assumono agenzie di comunicazione per gettare sabbia negli occhi dei cittadini e dei politici in modo da poter continuare ad agire indisturbate.
Quindi no: io non sono la Shell. Dipendo dalla Shell, ma questa è un’altra storia. Attraverso le loro campagne di disinformazione, le aziende petrolifere ci hanno deliberatamente resi dipendenti dai loro prodotti e continuano a fare tutto quello che possono perché restiamo tali. Un singolo automobilista può tutt’al più optare per un modello meno inquinante o, se può permetterselo, per un’auto elettrica, mentre la Shell può decidere di investire nelle fonti rinnovabili anziché in nuovi gasdotti e piattaforme. Il governo può scegliere se destinare i fondi alla rete stradale o al trasporto pubblico. A differenza dei consumatori, gli amministratori delegati e i politici hanno il potere di dare forma alle infrastrutture e orientare la società in una direzione più sostenibile.
Lo stesso discorso vale per i nostri comportamenti alimentari e per come è prodotto quello che mangiamo. La politica agricola dell’Unione europea ha incentivato gli allevatori ad aumentare costantemente la produzione. Secondo Greenpeace ogni anno trenta miliardi di euro, circa un quinto del budget europeo complessivo, sono destinati all’allevamento intensivo e ai produttori di mangimi. I predicatori della teoria secondo cui la tutela dell’ambiente comincia da noi prestano poca attenzione a queste cose.
La colpa non serve
Non voglio sostenere che le scelte individuali non producano alcun effetto: è chiaro che le norme sociali sul consumo di carne stanno cambiando. Se fino a cinque anni fa chi chiedeva un menù senza carne a una festa di compleanno era guardato strano, oggi è da maleducati non offrire un’alternativa vegetariana. Nei supermercati si moltiplicano gli scaffali dei sostituti di carne e latticini. Nel 2018 è emerso che quasi la metà degli olandesi stava cercando di ridurre il consumo di prodotti di origine animale.
A quanto sembra, però, non ci stanno riuscendo. Lo stesso anno i ricercatori dell’università di Wageningen hanno rilevato che tra il 2005 e il 2017 il consumo di carne nei Paesi Bassi è calato pochissimo. Senza norme più rigide, evidentemente, non siamo in grado di cambiare in modo sostanziale il nostro comportamento collettivo. Per questo è sbagliato non prendere in considerazione il ruolo della politica. Se il governo decidesse di limitare gli allevamenti intensivi ridurremmo le emissioni di anidride carbonica come non potremmo mai fare limitandoci a promuovere gli hamburger vegani. Cancellare il progetto del nuovo aeroporto di Lelystad sarebbe più utile di tutti i discorsi sulla vergogna di volare.
Più attenzione alla responsabilità collettiva si traduce in più volontà di agire
Chi auspica uno stile di vita più sostenibile può essere certo che le sue azioni finiranno sotto la lente d’ingrandimento. I leader di alcuni partiti ambientalisti olandesi sono stati criticati per aver viaggiato in aereo. Ma non sono solo i politici a essere presi di mira. Quando diecimila studenti sono scesi in piazza a manifestare per il clima, alcuni commentatori cinici si sono scagliati contro di loro. I manifestanti volevano solo saltare la scuola, dicevano. Se davvero fossero stati preoccupati per il clima poi non sarebbero andati da Burger King.
Questo atteggiamento degrada il dibattito pubblico e non fa nulla per migliorare la sostenibilità. A nessuno piace sentirsi in colpa, e spesso ignorare o negare il problema è più facile che cambiare abitudini. Non è un caso se quelli che tendono a minimizzare la crisi climatica sono i primi a denunciare l’“inquisizione verde”. “Carne razionata – l’accordo sul clima si intromette nelle abitudini alimentari degli olandesi”, ha titolato il quotidiano De Telegraaf. “I democratici dichiarano guerra agli hamburger”, tuona Fox News. Chi chiede un’azione più decisa sul clima è accusato di far parte di una setta che vuole imporre agli altri la propria morale.
Molte campagne ambientaliste insistono sul tema della responsabilità individuale, che offre una prospettiva d’azione concreta. Le analisi astratte sul “sistema” rischierebbero invece di offrire un alibi per non fare nulla. Sembra logico, ma i ricercatori dell’università della California hanno fatto un esperimento e sono giunti alla conclusione opposta: instillando un senso di colpa si ottiene un effetto contrario a quello sperato. Chi è spinto a riflettere sulle cause strutturali del cambiamento climatico tende a donare più soldi alle campagne ambientaliste rispetto a chi si interroga sulla propria condotta individuale. Un dato forse ancora più sorprendente è che i primi sono anche più disposti a cambiare il proprio stile di vita. Sotto vari punti di vista, perciò, una maggiore attenzione alla responsabilità collettiva si traduce in una maggiore volontà di agire.
Non stupisce che molti abbiano una reazione di rifiuto quando qualche eco-snob compiaciuto li rimprovera per aver messo il latte nel caffè o si vanta dei pannelli solari che ha fatto installare sul tetto di casa. Non tutti possono permettersi uno stile di vita verde. I sostituti della carne sono cari, un’auto elettrica costa molto più di un diesel usato e migliorare l’efficienza energetica di un’abitazione richiede un grosso investimento iniziale. Il rischio è che vengano a crearsi due mondi distinti: una “classe verde” che consuma in modo etico e una “classe grigia” che pensa più alla fine del mese che alla fine del mondo.
In realtà la “classe grigia” contribuisce di meno al riscaldamento globale. Gli studiosi hanno concluso più volte che redditi più alti corrispondono a maggiori emissioni di gas serra. Il perché è facile da capire: chi guadagna di più tende a vivere in case più grandi, ad andare più spesso in vacanza e a fare più acquisti. I ricchi possono installare lampadine a risparmio energetico e bere latte d’avena invece che di mucca, ma le loro abitudini di consumo hanno un forte impatto ambientale. La regola generale è: maggiore è il reddito, maggiore è l’impronta ecologica. Anche se si guida una Tesla.
Alcuni psicologi definiscono il cambiamento climatico “il problema venuto dall’inferno”: le sue cause sono così strettamente legate allo stile di vita moderno da renderci tutti complici. Chi compra uno smartphone è corresponsabile delle condizioni di lavoro disumane nelle miniere congolesi, chi fa shopping nelle catene di abbigliamento più economiche favorisce il lavoro minorile in Bangladesh. Nemmeno il burro d’arachidi con olio di palma “sostenibile” garantisce di non contribuire alla deforestazione.
“Non si dà vita vera nella falsa”, ha scritto il filosofo tedesco Theodor Adorno. In un sistema inquinante è praticamente impossibile avere le mani pulite, per cui bisogna cambiare il sistema. Sia chiaro, non voglio scoraggiare nessuno dall’adottare uno stile di vita più ecoconsapevole. Nella mia vita quotidiana, come Jonathan Safran Foer, cerco sempre di scegliere il male minore e sarebbe sciocco nascondermi dietro il “sistema”. Ma non mi illudo che le mie scelte possano fermare l’abbattimento delle foreste primigenie, rallentare il traffico aereo o ridurre le emissioni di anidride carbonica.
Nell’antropocene, l’era dell’essere umano, anche l’individuo più volenteroso è inerme. Almeno finché si concentra sul proprio stile di vita. Se guardiamo solo gli altri o noi stessi, le cause strutturali continueranno a sfuggirci e i veri colpevoli a farla franca. Mentre noi ci chiediamo quale gelato sia il più sostenibile e facciamo la spesa al supermercato biologico, le aziende petrolifere continuano a pompare indisturbate.
Consumatori o cittadini
Per fortuna è nata una nuova generazione di attivisti che sembra averlo capito. Mentre quand’ero bambino interiorizzavo il senso di colpa per il disastro ecologico, i giovani ambientalisti di oggi puntano il dito contro gli amministratori che stanno rovinando il loro futuro. Non si limitano a mangiare vegetariano e a riciclare i rifiuti, ma hanno il coraggio di individuare i veri responsabili. “Come osate?”, ha chiesto Greta Thunberg ai leader mondiali durante il suo appassionato discorso a un vertice delle Nazioni Unite. “La gente soffre, muore, interi ecosistemi sono al collasso. Siamo alle porte di un’estinzione di massa e voi parlate di denaro e di crescita senza limiti. Come osate?”.
E non sono solo i ragazzi a fare pressione. Ci sono gli avvocati che portano in tribunale i governi lassisti e le aziende inquinanti. E gli attivisti di Extinction rebellion che bloccano le strade e occupano gli aeroporti per richiamare l’attenzione sull’emergenza ecologica. Iniziative simili hanno fatto sì che la politica non potesse più nascondere la testa sotto la sabbia.
“Sono state le proteste per il clima a rendere possibile il green deal europeo”, ha dichiarato il commissario europeo per l’ambiente e la pesca Virginijus Sinkevičius al quotidiano olandese Nrc. È la dimostrazione che non siamo inermi. Non è solo come consumatori che possiamo agire. Possiamo far sentire la nostra voce di cittadini, nella consapevolezza che un pianeta migliore non comincia da noi stessi, ma da un impegno collettivo.
(Traduzione di Stefano Musilli)
Per il progetto Washed up, il fotografo messicano Alejandro Durán ha raccolto i rifiuti di plastica che il mare deposita sulle spiagge della riserva naturale di Sian Ka’an, nel sudest del Messico.
Questo articolo è stato pubblicato il 21 agosto 2020 nel numero 1372 di Internazionale.
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