Il 1 dicembre, al Politecnico di Milano, l’ex presidente della Banca centrale europea ed ex presidente del consiglio Mario Draghi ha partecipato all’inaugurazione dell’anno accademico con un discorso sul destino tecnologico dell’Unione europea.

Draghi ha parlato di produttività e stagnazione, debito pubblico e crescita, innovazione e intelligenze artificiali. Di queste tecnologie, ha detto che potrebbero rappresentare la svolta necessaria per evitare il declino economico del continente; ha anche spiegato che, se non colmiamo il divario con gli Stati Uniti e la Cina, rischiamo di restare marginali per generazioni.

Secondo Draghi, l’Europa ha una regolamentazione troppo rigida, mercati troppo frammentati e una spesa pubblica dispersa, oltre a scontare un atteggiamento culturale che ha preferito la cautela all’audacia. Per questo oggi produce solo tre modelli avanzati di intelligenza artificiale contro i quaranta statunitensi e i quindici cinesi.

Ricette già sentite

Fin qui, l’analisi è sicuramente accurata. Ma dopo l’elenco dei problemi servono le proposte per risolverli. La ricetta di Draghi sembra già vista: più coordinamento, più capitale privato, più efficienza regolatoria. È, letteralmente, il linguaggio dei piani di investimento europei dell’ultimo decennio, fatti di incentivi e strumenti finanziari sofisticati ma, nei fatti, poco capaci di incidere davvero sulla struttura dell’innovazione.

È stata proprio questa, per esempio, la logica del cosiddetto piano Juncker, che prometteva miracoli mobilitando il settore privato con garanzie pubbliche, ma che nella pratica ha prodotto progetti a basso rischio, pochi cambiamenti sistemici e nessuna vera discontinuità, lasciando ai singoli paesi la responsabilità di attrarre investimenti privati in assenza di una regia industriale comune. In effetti è la stessa strategia annunciata a febbraio del 2025 durante il vertice di Parigi, quando è stato promesso un generico finanziamento da 200 miliardi di euro per le ia.

Draghi chiede che si raddoppi il bilancio dell’European research council (Erc), l’organismo dell’Unione europea che finanzia le ricerche cosiddette di frontiera; chiede che si riducano gli ostacoli burocratici per le startup e che, in questo modo, si renda l’Europa più interessante per i talenti scientifici di tutto il mondo.

Ma questa è esattamente la strategia che è già stata usata con il programma Horizon: se non ha funzionato fino a questo momento, perché mai dovrebbe funzionare adesso?

Le ia generative non sono una tecnologia leggera. Non si sviluppano in laboratori isolati, richiedono potenza di calcolo, accesso ai dati, finanziamenti continui e lungimiranza: non è detto che le architetture attuali di queste tecnologie siano l’unica strada da seguire. Nessuna singola università, per quanto eccellente, può permettersi questo tipo di ricerca. Nessuna startup europea può, oggi, costruirla da sola. Sperare che il mercato colmi questo vuoto significa semplicemente rassegnarsi alla dipendenza dai monopoli della Silicon valley o dai modelli open cinesi.

Non solo. Un problema strutturale degli investimenti secondo il modello europeo adottato fin qui è il dogma del divieto degli aiuti di stato, che impedisce ai singoli paesi di avere una propria politica industriale innovativa.

Draghi, poi, insiste sulla crescita economica e ironizza sulla decrescita felice, che definisce “un’illusione seducente”; ricorda che il debito pubblico è sostenibile solo se l’economia cresce più in fretta degli interessi e continua a parlare di un mondo che deve seguire le uniche regole possibili.

In effetti, se pensiamo che l’unica strada percorribile sia quella della crescita che deve sostenere il debito contratto dagli stati, le soluzioni di Draghi sembrano più che logiche. Ma non sono mica leggi di natura.

Chi ha detto che le ia – o qualsiasi altra tecnologia innovativa – debbano servire solo alla crescita? Se usata con intelligenza politica, la tecnologia può migliorare i servizi pubblici, ridurre le disuguaglianze, liberare tempo. Può trasformare la vita sociale prima ancora dell’economia. Cosa succederebbe, per esempio, se volessimo usare le ia per ridurre l’orario di lavoro? Se le macchine possono fare, con supervisione, lavori noiosi o pericolosi, perché dovremmo inventare occupazioni inutili? Per tenere alto il pil? Lo stesso Draghi cita un uso delle ia per ridurre le liste d’attesa della sanità pubblica: ebbene, quello è un esempio di progresso senza crescita di produttività o di consumi materiali.

Nel discorso di Draghi gli effetti sociali positivi sono evocati, ma solo come conseguenze secondarie della crescita da inseguire a ogni costo. Eppure sappiamo che l’Europa, con queste strategie, ha già perso le rivoluzioni del computer, di internet, del cloud.

La sensazione è che, se continuerà a rincorrere l’innovazione solo per provare a regolamentarla e per far tornare i conti, resterà sempre un passo indietro. Le intelligenze artificiali sono, potenzialmente, una nuova infrastruttura della conoscenza e anche del lavoro: possono aiutarci a cambiare interi pezzi della nostra società. Come ogni infrastruttura fondamentale, andrebbero costruite insieme e dovrebbero essere pubbliche, aperte e accessibili.

Purtroppo, questa prospettiva – di cui parliamo spesso su Artificiale – è quasi completamente priva di rappresentanza nelle sedi istutizionali.

Questo testo è tratto dalla newsletter Artificiale.

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