Non era semplicemente bello: sarebbe più esatto dire che la sua bellezza era così prodigiosa da lasciare increduli. Quando lo vide per la prima volta, la madre perse i sensi: il bambino non aveva un corpo fatto di carne, ma era un cristallo di forma umana. Era tutto di cristallo: i capelli, gli occhi, le minuscole unghie… come se un bulino affilatissimo ne avesse cesellato anche i tratti più fini. Un pomeriggio, mentre era sola, era scivolato giù silenzioso dal suo ventre senza emettere neanche un vagito ed era rimasto tranquillo, disteso accanto alla donna svenuta, un piccolo essere diafano e levigato.

Al risveglio, la madre aveva visto il neonato di cristallo che stava lì quieto, con gli occhi aperti, sdraiato sul letto di vimini. Era così bello che era rimasta incredula: non riusciva a convincersi che quel bambino potesse avere un qualche rapporto con lei. Era come se qualcuno le avesse messo questa cosa nel ventre per farla venire al mondo. Dopo un attimo di smarrimento, scoppiò a piangere e si precipitò nel cortile chiamando il marito. In pochi istanti le sue grida si propagarono di bocca in bocca per tutto il paese e l’uomo, che stava scaricando delle merci in un negozio, si scapicollò a casa. Verso sera, la casa e il cortile erano stipati di gente. C’era chi rievocava i fatti bizzarri accaduti nella cittadina dai tempi di cui si conservava memoria, chi chiedeva dell’aspetto del neonato e chi, accorso con la ciotola di riso tra le mani, si protendeva ad ascoltare con gli occhi spalancati. Un gruppo di vecchi si era messo a discutere dell’origine di questo bambino straordinario senza riuscire a raccapezzarsi, arrivando all’unica conclusione che si trattava di una stranezza senza precedenti. Ma una cosa era certa: la bellezza sovrumana del bambino lasciava senza parole le persone che riuscivano a spingersi fino al letto per vederlo. La folla si disperse solo a notte inoltrata.

Al risveglio, la madre aveva visto il neonato di cristallo che stava lì quieto, con gli occhi aperti, sdraiato sul letto di vimini. Era così bello che era rimasta incredula

Nei giorni che seguirono, la gente del paese non si stancava mai di fare la spola per andare a vedere il neonato di cristallo. Per le donne sfaccendate e i ragazzini diventò un’abitudine, come far scorrazzare le galline e le oche fuori dal pollaio all’alba, mangiare un pezzo di torta a merenda o uscire dopo cena per fare due chiacchiere. Arrivavano tenendosi a braccetto, ammiravano il bambino e senza neanche rendersene conto alzavano gli occhi al cielo o guardavano nel vuoto. Poi, giorno dopo giorno, quella folla insolita piano piano si assottigliò.

L’estate stava cedendo il passo all’autunno e ogni tanto una raffica di vento frizzante sollevava qualche foglia secca; eppure, quando lo guardavano, i suoi genitori avevano ancora un’aria sconcertata e un po’ diffidente: quel bambino non sembrava avere alcun rapporto con loro, non poteva essersi cristallizzato dalla loro carne, chissà da dove era piombato così all’improvviso. La donna raccontava che non aveva sentito affatto i dolori del parto e che il neonato era semplicemente scivolato fuori. E quando, per l’ennesima volta, ne parlava con le altre donne, aveva un’espressione contrariata, come se non aver vissuto l’esperienza del travaglio fosse per lei un grande motivo di rammarico. Pur sentendolo così estraneo, però, offrì il seno al bambino e quando lui cominciò a succhiare il capezzolo con la sua boccuccia fredda, avvertì per un istante una sensazione confusa che la spinse a stringerlo più forte a sé; subito dopo però la sua bellezza la spaventò e le sue braccia lo allontanarono di nuovo. Lo adagiò sul letto di vimini e rimase lì imbambolata a guardarlo. Ma era una donna risoluta, per cui un giorno decise che quello era il suo bambino e lo baciò. Il padre, invece, continuò a evitarlo il più possibile: ne aveva timore, o forse, dentro di sé, lo odiava addirittura. Odiava quel bambino che gli aveva portato via il suo vero bambino, il bambino vivace che probabilmente avrebbe somigliato tanto a lui, al padre. Quando vedeva tutta quella gente che entrava e usciva da casa sua, provava un senso di umiliazione: nessuno credeva che quello potesse essere suo figlio, non ci credeva neanche lui.

Ma un vecchio si ricordò per caso di una storia che, agendo in modo impercettibile sul padre, gli fece cambiare atteggiamento, portandolo a superare la sua ostilità verso il piccolo e ad accettare il destino che il cielo gli aveva riservato assumendosi le proprie responsabilità paterne. La storia che il vecchio aveva letto in un libro, molti anni prima, narrava di una vergine che era rimasta incinta di un bambino senza aver mai avuto nessuna relazione con un uomo. Il bambino era figlio di un dio che aveva voluto farle portare in grembo quella creatura sovrumana destinata a salvare l’umanità. La storia del vecchio si diffuse per il paese, che iniziò a interrogarsi sull’arcana rivelazione: la bellezza del bambino in effetti non corrispondeva all’immagine che avevano di un mostro o di un cattivo presagio, l’idea che fosse stato mandato da un dio sembrava più plausibile. Ma erano sempre vissuti in pace: non sentivano la necessità di essere salvati. Forse – e ogni abitante del paese cominciò a covare un desiderio inconfessabile – quel dio voleva dare loro ricchezze e raccolti abbondanti. Spinti da quel desiderio nascosto, trattavano il padre con particolare riguardo.

Quell’improvvisa rivelazione e il senso di attesa resero gli abitanti del paese inquieti: alcuni addirittura persero il sonno. Si sentivano tutti stranamente allegri ed eccitabili: continuavano a entrare nella casa del neonato con ogni sorta di regali e, sperando di scorgere dei segni particolari nascosti nelle sue fattezze, ne scrutavano ogni minimo fremito dell’angolo degli occhi e delle piccole narici o la forma delle finissime rughe sopra i labbruzzi, arrivando perfino ad avvicinare di nascosto un occhio sulla conca del piccolo orecchio per scrutare all’interno. La gente, piena di dubbi e di ansie, cercava delle risposte nel volto del neonato e anche le donne si resero conto che accorrevano in quella casa non per la bellezza del bambino, ma per quel desiderio inconfessabile che ciascuno aveva riposto in quell’esserino. Assillati dall’attesa e dal lavorio incessante delle loro congetture, gli abitanti del villaggio furono presi da una specie di follia: alcuni proposero di strappare i vestiti di dosso al piccolo per studiarne il corpicino. Questi discorsi sacrileghi mandarono i vecchi su tutte le furie: la rivelazione divina non si può mica nascondere addosso come se fosse oro!, dicevano, e alla gente non restò che reprimere la propria brama.

Gli abitanti del paese iniziarono a passare tutto il giorno in casa. D’un tratto, presi da un brusco scatto d’ira, se ne uscivano con un’imprecazione, e il momento dopo si rimettevano in attesa con quella speranza che gli colmava il petto. Ma sul finire dell’autunno si resero conto all’improvviso di essere più poveri di prima: nei campi trascurati una buona metà del raccolto era andato perduto, i negozi non erano stati riforniti ed emanavano un tanfo di cibo avariato, le case, abbandonate all’incuria dalle donne che avevano preso l’abitudine di andarsene sempre in giro, erano disordinate e sporche come porcili, mentre i pidocchi si arrampicavano tra i capelli dei bambini. Naturalmente c’erano dei segreti nascosti con cura, come quello di una donna che aveva ridotto a brandelli i suoi vestiti brutti e rozzi, sicura di poter presto rinnovare il guardaroba in città. Un uomo, poi, piantò un bel seme nella pancia dell’amante, pensando che presto avrebbe potuto scialacquare a piacimento e che mantenere due mogli non sarebbe stato un problema. Fu così che in poco tempo il paese diventò sporco, trasandato e dissoluto.

Quell’inverno fu eccezionalmente freddo; gli abitanti del paese, trovandosi in ristrettezze, si rifugiarono in casa, a contare le scorte che gli rimanevano. Si sentivano frustrati, ma non si lamentavano: molti di loro erano superstiziosi e, anche se nel comportamento non mostravano una particolare reverenza verso quel dio, non osavano comunque ammettere che erano arrabbiati e delusi, che avevano previsto fin dall’inizio che quella strana creatura non avrebbe portato nulla di buono. I loro desideri più ardenti erano andati in cenere come carbone nella stufa; a volte una scintilla baluginava ancora, ma subito si spegneva. In uno di quegli interminabili e silenziosi giorni d’inverno, il vecchio saggio che aveva narrato a tutti la storia del bambino era morto ed era stato sepolto sotto la neve. La persona che più lo pianse fu forse la madre della creatura di cristallo: sentiva che il vecchio aveva portato via con sé qualcosa di indefinibile, lasciandola con un senso di angoscia. Tutti gli altri, occupati a fare progetti per la primavera a venire, dimenticarono presto la fac­cenda.

Piano piano cresceva anche lui, come un bambino normale, ma ora nessuno veniva più a trovarlo: erano tutti impegnati a seminare e a mietere, o erano presi dai loro giri di commerci o di debiti, mentre le donne si erano accorte che le faccende domestiche aumentavano di giorno in giorno e che era impossibile liberarsene. Solo uno sparuto gruppetto di ragazzini continuava a interessarsi a lui. Sfuggendo ai genitori del piccolo, che li scacciavano brontolando, i ragazzini circondavano il bambino e uno di loro a volte allungava una mano per sfiorarlo, mentre lui, che amava guardarsi intorno, scrutava con attenzione tutti quei volti. I suoi occhi sembravano nati per guardare: innocenti e assorti, non si stancavano mai finché, all’improvviso, la spossatezza non invadeva tutto il suo corpicino, le palpebre si chiudevano e sprofondava nel mondo dei sogni.

I suoi occhi sembravano nati per guardare: innocenti e assorti, non si stancavano mai finché, all’improvviso, la spossatezza non invadeva tutto il suo corpicino

Un giorno il bambino di cristallo accarezzò il braccio di uno dei ragazzini: nel graduale risveglio della sua coscienza, infatti, iniziava a notare che quel braccio aveva qualcosa di diverso dal suo. A quel contatto, il ragazzino corse via e l’intero gruppo si disperse terrorizzato, mentre il piccolo rimaneva seduto sul letto a riflettere sulla sensazione tattile appena provata. Quando si voltò a guardare la madre, lei ebbe la certezza che i suoi occhi le stessero comunicando il segreto che gli si era appena svelato, cioè che la sua carne non era morbida come quella degli altri bambini, che era diverso da loro.

Quando cominciò a muovere i primi claudicanti passetti, la madre era sempre in ansia, perché cadere per lui significava andare in frantumi e morire. Se era impegnata nelle faccende, lo legava alla gamba del letto con una cintura; all’inizio lui provava a divincolarsi, ma poi tante cose lo distraevano: un ramo che ondeggiava nella cornice della finestra, un raggio di sole che si proiettava nella stanza, un suono. Sembrava che i suoi occhi cercassero sempre qualcosa, ma nello stesso tempo si concentrava nell’ascolto del più lieve rumore. Quando lo vedeva così tranquillo e assorto, la madre a volte trasaliva per la paura, ma poi poco a poco il suo incantesimo agiva su di lei, e si fermava a guardarlo di nascosto da un angolo della stanza. Questo bambino che le era arrivato dal cielo, il cui corpo non aveva niente di umano, aveva il viso più perfetto che si fosse mai visto: come era possibile che fosse frutto del suo grembo?

Il padre, invece, lo evitava. Per lui quel bambino era come il destino che, quando ci coglie di sorpresa, ci fa sentire impotenti. Quell’inverno era stato duro anche per lui: il momento di popolarità, di cui aveva goduto subito dopo la nascita del bambino, era finito. Ora tutti lo evitavano con uno strano sguardo e sembravano aver completamente dimenticato la cordialità, la venerazione quasi, che gli avevano mostrato prima. Se un tempo gli portavano doni di ogni genere, ora cercavano i pretesti più assurdi per farseli restituire. Il padre non capiva perché la sua vita dovesse essere così stravolta. A volte, rientrando a casa dopo avere faticato tutto il giorno, alla vista della moglie che, nel cortile, insegnava al bambino a camminare cingendolo per la vita, gli veniva voglia di picchiarla: come faceva a baciarlo, a tenerlo in braccio, come se fosse davvero figlio loro? Come faceva a rimanere così imperturbabile e a fare tutto ciò che ci si aspetta da una donna? La sua calma lo spaventava e gli suscitava una strana invidia.

Anche le donne si resero conto che accorrevano in quella casa non per la bellezza del bambino, ma per quel desiderio inconfessabile che ciascuno aveva riposto in quell’esserino

Alla fine il bimbo fu in grado di camminare senza difficoltà per il cortile. Quando i passanti scorgevano quel visino che balenava tra le fessure dello steccato di bambù per fissarli, si ridestavano in loro i ricordi del neonato di cristallo che erano stati ricoperti dalla polvere della vita quotidiana. E così, pensavano con stupore, quell’essere di cristallo camminava e cresceva proprio come le persone normali. Questo pensiero li rendeva inquieti come quando, all’inizio, lui aveva fatto irruzione nel loro mondo. Ne evitavano lo sguardo, ma i suoi occhi, così limpidi da sembrare irreali, restavano impressi nella loro mente: gli abitanti del villaggio diventavano coscienti della banale bruttezza del proprio volto, su cui talvolta apparivano delle macchie grigie, e i vestiti che indossavano gli sembravano ancora più sudici, imbrattati com’erano di polvere e di unto. Allora affrettavano il passo, ma lui, nascosto dietro lo steccato, continuava a scrutarli sfacciatamente. Quello sguardo fisso era intollerabile, perché li costringeva a rivolgere l’attenzione verso se stessi.

Quell’estate fu molto secca: il vento era soffocante e il sole illuminava un cielo lattiginoso. Mentre le stagioni si avvicendavano, il bambino, seduto sotto il cornicione, osservava lo scenario del cortile che, nelle sue continue trasformazioni, aveva qualcosa d’immutabile. Il cielo scorreva via nella cornice disegnata dai rami e i batuffoli delle nuvole sembravano la schiuma candida prodotta dall’acqua che s’infrange. Si convinse così che il cielo e il fiume fossero un’unica cosa, e quando soffiava un vento che sembrava venire dalla linea dell’orizzonte, era un vortice che si formava nel fiume del cielo.

Quando si presentava l’occasione, sperava sempre che la madre lo portasse a camminare nei vasti campi fuori dal paese, ricoperti di fiori e di erba fitta: lì avrebbe potuto vedere un pezzo di cielo più grande e molte più nuvole. Ma quelle uscite lo spaventavano: mentre percorreva le strade stringendo un lembo del vestito della madre, tutti si fermavano a guardarli. Allora la mamma camminava più svelta, si metteva a correre quasi, e lui non riusciva a starle dietro. A quel punto saltavano fuori dei ragazzini che li seguivano sghignazzando, andandogli talmente vicino da sfiorare il suo viso con le loro facce e allungando le mani per toccarlo. La madre, furiosa, si metteva a urlare, suscitando l’ilarità degli adulti che assistevano alla scena. Le loro risa e i loro sguardi lo impaurivano, lo raggelavano. Quando finalmente quelli scappavano via e la madre, dopo essersi liberata dei suoi inseguitori, si chinava a raccogliere un fiore selvatico per farglielo odorare, non erano forse lacrime quelle che vedeva sul suo viso?

La donna capiva, ovviamente, questo suo desiderio segreto e si diceva spesso: “Devo portare il mio bambino fuori”, ma non ne aveva il coraggio, non poteva sopportare gli sguardi della gente, le canzonature, quella torma di ragazzini sporchi che li seguiva. Percepiva oscuramente che la gente odiava il suo bambino, che gli stessi che prima lo consideravano un dio, ora ridevano di lui senza pietà, come se fosse un ridicolo mostriciattolo. Eppure i tratti di quel bimbetto che sedeva in silenzio sotto il cornicione erano di una bellezza purissima. Ma era fragile, così fragile da essere del tutto inutile. Non sapeva neanche parlare. Talvolta nel cuore della madre, carico di pena, sorgeva un moto di repulsione. Aveva ragione il marito: quel bambino non era altro che una “faccia da idiota”, un menomato. Proprio così. Era del tutto inutile: non poteva arrampicarsi né rotolarsi per terra, non poteva cadere; era assolutamente impensabile mandarlo a pascolare il bufalo o a caricare e scaricare merci. Perché non era in gamba come quei ragazzi mezzi selvatici? Era un fardello di cui era impossibile liberarsi. Quando, ricorrendo a tutte le sue risorse, riusciva finalmente a reprimere questi impulsi negativi, il suo cuore si riempiva di paura: temeva che un giorno l’avrebbero sopraffatta, portandola a tradire il figlio. Ma poi trovava subito consolazione nel pensiero che il suo bambino era la creatura più bella del mondo. Lei stessa, però, vedeva come questa bellezza, di giorno in giorno, si facesse più sfocata ai suoi occhi, trasformandosi gradatamente in polvere. La bellezza, infatti, una volta bollata come “inutile”, riceve un trattamento ancora più ostile di quello riservato alla bruttezza. Ma il bimbo seduto sotto il cornicione a osservare il cielo non sapeva nulla di tutto questo, i suoi occhi limpidi non riuscivano a vedere questa verità: se ne stava seduto nel suo alone cristallino volubile come fumo, rapito da quel mondo che descriveva solo a se stesso. Il suo corpo era avvolto da una pace in cui ogni cosa sembrava potersi sedimentare, e quella pace era la dimostrazione che lui non aveva mai odiato nessuno.

I tratti di quel bimbetto che sedeva in silenzio sotto il cornicione erano di una bellezza purissima. Ma era fragile, così fragile da essere del tutto inutile. Non sapeva neanche parlare

Quando avevano visto per la prima volta il bimbo di cristallo per le vie del paese, gli abitanti, pur senza averne mai parlato tra loro, avevano provato tutti un’inspiegabile sensazione di disagio, o addirittura di rabbia. Confidandosi, si resero conto di condividere una preoccupazione: quel mostriciattolo che si pavoneggiava per le vie del paese avrebbe portato chissà quali disgrazie. Così scelsero un delegato per avvisare i genitori: se il bambino fosse uscito di nuovo, lo avrebbero rinchiuso in una gabbia come un animale.

Il padre e la madre non avevano il potere di opporsi alla decisione dell’intero villaggio: ormai avevano perso la forza di opporsi a qualsiasi cosa. Il messaggero insistette anche per parlare al bambino di persona e lo ammonì facendogli una specie di interrogatorio. Ma dovette subito rinunciare. Quando poi fece il giro di case da tè, osterie, piazze, insomma di tutti i posti di ritrovo, contenendo a malapena la sua agitazione, annunciò la notizia: il bambino era muto. A quel punto tutti frugarono nella propria memoria e si resero conto che, in effetti non gli avevano mai sentito proferire una parola. Questa volta, senza discuterne tra loro, provarono una sensazione di sollievo, anche se si mostrarono stupiti.

A casa del bambino non si parlò dell’episodio. La madre, che ormai reagiva con una sorta di torpore, preparava la cena in cucina. Il padre, abituato da tempo agli sguardi torvi e alle umiliazioni, era diventato indifferente a tutto: aveva sviluppato una tragica caparbietà di fronte ai colpi del destino, o per lo meno era convinto di essere pronto a sopportare tutto. Ma vedendo lo sguardo timoroso del figlio su di lui, provò un’invincibile ripugnanza: gli sembrò uno di quei furfantelli che rompono tutto, un buono a nulla che combina solo disastri, ma che continua a fare l’innocente. Voltò la testa per non vederlo. La donna, nel frattempo, lavava le verdure facendo un gran trambusto, rovesciava l’acqua, lasciava cadere il mestolo in terra. D’un tratto vide il viso, immacolato, senza un difetto, del bambino che la guardava attraverso la finestra. Quella vista la scombussolò: si sentiva sfinita, ma doveva comunque affrontare la situazione. Altrimenti qualcuno lo avrebbe chiuso in una gabbia, o lei avrebbe finito per lasciare il figlio nelle mani di quel padre debole e freddo. Lo sentiva così estraneo: come era possibile che proprio lei avesse messo al mondo quella creatura? Non riuscendo a capire, smarrita, piangeva.

Capì che il bambino soffriva dai suoi occhi, infossati e privi di luce come quelli di un moribondo. Per un momento anche il padre fu sopraffatto dal dolore e fu sul punto di scoppiare in lacrime, ma poi si voltò e si allontanò

Al bambino non restava che trastullarsi in cortile: si rendeva conto che il padre e la madre non avevano voglia di parlargli; sembrava, anzi, che lo evitassero, che non volessero neanche vederlo. Così tornò a guardare dalle fessure dello steccato, come quando era piccolo; osservò gli uccelli e gli altri animali scolpiti sui cornicioni, la carta colorata incollata sulle finestre, la strada che si dipanava verso luoghi lontani che non riusciva a raggiungere con lo sguardo e dove non sarebbe mai potuto andare.

Aveva una struggente nostalgia dei posti dove la madre lo portava da piccolo, quando l’erba verdissima e i fiori selvatici sugli steli sottili quasi lo ricoprivano, le farfalle si posavano sui petali bianchi e nel cielo frusciavano stormi di uccelli. Non gli era più permesso tornare laggiù. Doveva stare attento anche quando sbirciava da dietro lo steccato: se qualcuno se ne accorgeva gli sputava in faccia e, quando lui non faceva in tempo a evitare lo sputo, si allontanava con una risata. Spesso il bambino disegnava per terra i fiori, le farfalle e gli uccelli di cui serbava memoria. A volte disegnava delle ali di uccello su di una farfalla o tingeva le ali di un uccello del colore delle farfalle, perché non poteva verificare com’erano realmente.

Quando il padre vide quegli strani disegni che coprivano il selciato del cortile, non riuscendo più a contenere il suo senso di disgusto verso il figlio, accorse e li sfregò col piede, seppellendoli nella polvere. Ora il bambino doveva nascondersi anche per disegnare. Almeno non doveva preoccuparsi della madre, che quando vedeva queste cose al massimo gli gettava un’occhiata stupita: capiva sempre meno cosa attraversasse la mente del figlio, ma si era rassegnata all’impossibilità di comprendere, come si era rassegnata al fatto che la gente sputasse in faccia al suo bambino.

Tornò la bella stagione e i ragazzini, scatenati, ricominciarono a rincorrersi per le strade, ma quando gli sembrò di avere esaurito tutti i divertimenti, si ricordarono del bambino di cristallo rinchiuso nel cortile. I ragazzi sono sempre superiori agli adulti per curiosità e creatività, e a loro non interessava sputare addosso al bambino come facevano i grandi: nella loro mente si accumulavano domande a cui in genere cercavano di dare risposta nei loro giochi. Quel giorno, mentre gli adulti facevano il sonnellino pomeridiano, i ragazzini si raccolsero in un angolo, aspettando di intravedere il viso del bambino attraverso lo steccato.

Anche se era rimasto sottoterra molti anni, la sua lucentezza non era affatto sbiadita ed emanava un bagliore bianchissimo, illuminando il cortile, che sembrava sommerso dal chiarore lunare

Tutto era silenzio, quel pomeriggio. Il bambino scrutava tra le fessure la strada deserta, bianca, abbagliante: anche se era solo, a quell’ora non si sentiva minacciato. Volgendo lo sguardo verso l’alto, intravedeva uno scorcio dei tetti variopinti, che visti da lì sembravano sovrapporsi l’uno sull’altro. Non era mai passato per quelle case ignote, non aveva mai visto come erano fatte le loro porte né quali alberi e quali piante vi crescessero davanti. Talvolta, la notte o al mattino presto, sentiva il suono di un canto che proveniva da una casa vicina o un tintinnio di campanellini appesi a una finestra e, mentre ascoltava assorto, immaginava l’aspetto di quella casa o di quei campanellini e si chiedeva come fosse la persona che cantava o quella che aveva appeso i campanelli. Ascoltava assorto i rumori più intensi e quelli più fievoli, i momenti di silenzio e quelli di trambusto. Nel suo orecchio si conservava il resoconto più ricco e dettagliato della vita del paese, una storia composta solo di suoni. Ma lui aveva deciso di non pronunciare una sola parola.

I ragazzini videro comparire il suo volto tra le fessure, intento a guardare incantato verso l’esterno. Uscirono dal loro nascondiglio: avevano tutti stampato in faccia un sorriso diverso. Quando li vide avvicinarsi con quei sorrisi bonari che gli ricordarono i volti dei bambini che attorniavano il suo letto quando era un neonato, il bambino, anche se un po’ intimorito, non si ritrasse. In effetti erano proprio gli stessi volti che in passato lo avevano circondato per osservarlo, ma non li riconobbe: non avrebbe mai potuto immaginare che il tempo li avesse trasformati tanto.

I ragazzini si stufarono presto di osservarlo. Uno gli chiese se voleva giocare con loro e lui annuì ripetutamente. Allora un altro tirò fuori una corda, dicendo che il gioco poteva iniziare solo dopo avergliela legata al polso. Vedendolo titubante, il primo ragazzino gli spiegò che, siccome non poteva uscire, l’unico modo per giocare insieme era di legargli la mano con una fune. Il loro entusiasmo lo convinse: tirò fuori un braccio e si lasciò legare. A quel punto un ragazzo particolarmente robusto tirò l’altra cima e l’esile braccetto del bambino, stretto dalla fune, rimase sospeso nel vuoto fuori dalla fessura. Gli arrotolarono la manica e il suo polso traslucido luccicò. Il bambino trasalì: quel gioco sembrava molto pericoloso. Cercò di ritrarre il braccio, ma la fune era molto tesa e il ragazzo robusto non aveva nessuna intenzione di allentarla. Allora il primo ragazzino tirò fuori un coltellino, sfidando i compagni a indovinare se il muto provasse dolore. Quelli lo guardarono esitanti, e lui spiegò che in linea di principio non avrebbe dovuto sentire nulla: le pietre sentono forse dolore? Il cristallo è una pietra. Mentre pronunciava queste parole, la lama del coltello lampeggiava al sole. Sul volto del bambino si disegnò un’espressione di terrore, ma nessuno in quel momento lo guardava in viso: tutti gli occhi erano rivolti al braccino tremante stretto in trappola.

Angelo Monne

L’esperimento cominciò: la lama, affilatissima, gli scalfì il braccio. Ci fu uno sfavillare di raggi e si sentì un suono stridente. Subito dopo il braccio iniziò a muoversi convulsamente e nell’aria baluginò un pulviscolo luminoso. Rimasero a fissarlo e si accorsero che dalla ferita non colava sangue. Il bambino si morse con forza le labbra: quei nemici che gli facevano così male con una freddezza scientifica lo disorientavano. In effetti, la crudeltà dei ragazzi è dovuta proprio all’inconsapevolezza della loro crudeltà. Pur notando l’espressione di pena sul volto del bambino, conclusero che il taglio non gli aveva procurato alcuna sensazione di dolore. Allora un altro ragazzino tirò fuori una scatola di fiammiferi. Il bambino si dimenò, cercando di ritrarre il braccio, ma subito qualcuno tirò la corda e quelli si misero a bruciare il braccino ferito con la piccola fiamma degli zolfanelli. A un certo punto i ragazzini sentirono una specie di mugolio che non veniva dalla gola del bambino, ma da qualche parte dentro il suo corpo. Videro che dai suoi occhi scivolavano delle cose trasparenti come gocce d’acqua che appena toccavano il suolo si solidificavano e rotolavano via lampeggiando tra la polvere. Poi il bambino emise lo strillo più acuto che si fosse mai sentito, come se quel suo corpo duro e fragilissimo si fosse infranto in mille pezzi. Quello strillo svegliò di soprassalto la madre che accorse dalla casa, vide quella torma di ragazzini pietrificati dalla paura, la corda, il coltellino e i fiammiferi ancora fumanti. Urlando furibonda, afferrò un bastone, ma quando si slanciò fuori per inseguirli quelli erano già tutti corsi via. Rientrando, ancora sconvolta, vide che il bambino era caduto a terra esanime; sul braccino, che finalmente era riuscito a ritrarre, era ancora legata la corda, simbolo di fervore scientifico e di ferocia. Purtroppo non si accorse delle perle che erano rotolate vicino al muro. Di notte i ragazzini tornarono e raccolsero di nascosto quelle lacrime dure che non si scioglievano.

Prendendolo in braccio per riportarlo in casa, la madre si accorse che il corpicino era completamente zuppo. Sdraiato sul letto, tremava e spasimava dal dolore. Ma sul braccio si vedevano solo una scalfittura bianca e il segno giallastro lasciato dalla bruciatura. Per il padre fu difficile rendersi conto del dolore che provava il figlio: non si vedevano né tracce di sangue, né i lembi di carne viva della ferita aperta. Ma capì che il bambino soffriva dai suoi occhi, infossati e privi di luce come quelli di un moribondo. Per un momento anche il padre fu sopraffatto dal dolore e fu sul punto di scoppiare in lacrime, ma poi si voltò e si allontanò, sciogliendosi dall’impercettibile stretta di quella manina. La madre, dal canto suo, non sapeva come curare la ferita del bambino. Sentendone il corpicino gelido, lo strinse forte a sé, per scaldarlo con il proprio calore.

I ragazzini usarono le perle che avevano raccolto come biglie. Ma un giorno, mentre giocavano, furono notati dagli adulti, che gli confiscarono, una per una, le loro perle luccicanti. Le donne notarono che quelle gemme dalla forma perfetta, levigatissime, erano l’ideale per farne delle collane, perciò le forarono, vi introdussero un filo e se le misero al collo. Gli uomini, per quanto resi ottusi dalla fatica, si accorsero subito che erano preziose e proposero al padre del bambino di scambiare le perle con sacchi di cereali o altri prodotti.

Il padre fu stupito di quell’onore: la gente all’improvviso aveva ricominciato ad adularlo con sorrisi melliflui, ma lui, incredulo, soppesando in mano una di quelle “lacrime”, si chiedeva: possibile che possano esistere delle lacrime così pesanti? Rientrato in casa, mostrò la perla alla moglie, riferendole dell’affare che gli avevano proposto. Lei lo fissò stupefatta come se lo vedesse per la prima volta. Ma, pensava il padre, perché avrebbe dovuto vergognarsi? In fondo era solo una lacrima e per un bambino piangere e versare lacrime non è forse la cosa più naturale del mondo?

Angelo Monne

L’uomo allora andò dal bambino, supplicandolo di versare qualche lacrima. Lui, vedendo la perla nella mano del padre, sentì un misto di dolore e terrore invadergli il cuore, proprio come i nembi scuri si addensano in cielo prima di un temporale. Eppure i suoi occhi rimanevano asciutti e, per quanto il padre lo scuotesse e lo minacciasse, non riusciva a piangere. Poi si accorse della madre che singhiozzava in un angolo come implorandolo, con gli occhi arrossati, e non poté più trattenersi. Non appena le sue lacrime scivolarono sul pavimento, il padre si accovacciò a raccogliere le perle che rotolavano dappertutto.

Le lacrime del bambino diventarono così una fonte di ricchezza a portata di mano: la gente le usava come merce di scambio. Il bambino vedeva le persone andare e venire dal suo cortile, esponevano le perle su un panno e ne valutavano il peso e la forma stringendole tra le dita, contrattando sul prezzo. Lo costringevano a piangere sempre più spesso, finché un giorno cominciò a versare lacrime senza più provare alcun dolore. L’indomani quelle lacrime furono esposte come sempre nel mercatino vicino alla porta di casa, dove furono esaminate da una moltitudine di occhi esperti. Ma neanche gli occhi più perspicaci furono in grado di distinguere se queste perle di lacrime fossero davvero originate dal dolore.

Il bambino, intanto, dimagriva facendosi sempre più smunto e quell’alone baluginante che gli avvolgeva il corpo sbiadiva di giorno in giorno, ma nessuno ci fece caso. Un giorno la madre lo vide seduto imbambolato in un angolo del cortile e si rese conto all’improvviso che il suo viso sembrava uno straccio vecchio. Pensò che da molto tempo non osservava più con intensità il cielo, i rami o i tetti: nel suo sguardo non c’era più quello sfavillio prodotto dai suoi pensieri e dalla curiosità. Era come se la sorgente dei suoi occhi si fosse prosciugata. Notando che la madre lo fissava, il bambino si alzò e si allontanò per raggomitolarsi in un angolo buio della casa da dove poteva vedere un fascio di raggi di sole pallidi e polverosi che penetravano nella stanza cupa e fredda attraverso il lucernario. Sentì che qualcosa dentro di lui si allentava fino a schiantarsi e provò un tale senso di sfinimento che iniziò a tremare tutto. Con il corpicino ancora contratto si arrampicò sul letto e, proprio come quel pomeriggio in cui era venuto al mondo, rimase sdraiato con gli occhi sbarrati, immobile. Sentiva la madre che si muoveva nel cortile e il sussurro del vento tra le cime degli alberi, mentre la polvere e i raggi nella stanza proiettavano davanti ai suoi occhi incavati l’ultima immagine che il mondo gli avrebbe lasciato. Non c’era nessuno quando la morte si posò silenziosa sul suo corpo gelido e una stanchezza immane gli chiuse finalmente le palpebre.

Angelo Monne

Nel paese vi furono accese discussioni su cosa fare del piccolo cadavere, ma alla fine la madre lo seppellì nel cortile. Trascorreva lì tutto il giorno, sorvegliandolo, attenta a ogni minimo rumore e alla gente che passava. Non parlava mai con nessuno e i suoi capelli, improvvisamente, diventarono tutti bianchi.

Era l’inizio dell’autunno, dopo un’interminabile torrida estate, quando il tintinnio dei campanellini di un cavallo portò nel paese un forestiero dall’aspetto singolare che attirò subito l’attenzione di tutti. Quando andava all’osteria, era circondato da una folla di gente che gli chiedeva notizie del mondo. Qualcuno gli raccontò la storia della strana creatura nata nel villaggio, sperando di rivendergli qualche perla di cristallo. In seguito il forestiero non andò più all’osteria, ma la gente del paese lo vide camminare avanti e indietro vicino al cortile del bambino di cristallo, finché finalmente un giorno la porta del cortile si aprì per farlo entrare richiudendosi alle sue spalle.

Attraverso lo steccato, qualcuno vide che, di notte, disseppelliva la salma del bambino. Lo straniero rimosse delicatamente lo spesso strato di terra che ricopriva il corpicino: quel bambino di incredibile bellezza sembrava profondamente addormentato. Anche se era rimasto sottoterra molti anni, la sua lucentezza non era affatto sbiadita ed emanava un bagliore bianchissimo, illuminando il cortile, che sembrava sommerso dal chiarore lunare.

Il forestiero si fermò alcuni giorni a casa del bambino. Indugiava a lungo davanti al cadavere: a volte era immerso in profonde riflessioni, a volte camminava agitato avanti e indietro, borbottando qualcosa tra sé. Una notte in cui si distingueva nitidamente la Via Lattea, si sedette con la madre nel cortile e finalmente, tra il ronzio incostante delle zanzare e il fruscio delle foglie sopra le loro teste, espresse la sua richiesta: voleva portare il bambino in un posto migliore. Che posto?, chiese la madre. Un luogo meraviglioso, dove tutti vedendolo ne avrebbero celebrato la bellezza. Lo straniero non poteva dire altro. La donna non rispose. Dopo un po’, lui riprese: quando tu non ci sarai più, cosa gli farà la gente del villaggio? In quel posto, invece, sarebbe rimasto sempre intatto, sarebbe stato venerato dagli uomini come una cosa preziosa, come “arte”. Cos’è l’“arte”? La madre del bambino non era in grado di capire, ma era commossa: intuiva vagamente che tutto questo era legato all’effimera e sofferta esistenza del suo bambino, al suo sguardo che si soffermava così a lungo sulle cose, agli uccelli e alle farfalle che disegnava per
terra.

Mentre l’autunno si faceva sempre più pungente, gli abitanti sentirono dire che il forestiero aveva comprato il bambino di cristallo, lo aveva infilato in uno zaino e se lo era caricato in spalla, lasciando il paese in groppa al suo cavallino baio. Perplessi, si fermarono a guardare la strada e la sua sagoma che scompariva, facendo congetture sull’entità della somma di denaro che aveva speso, con cui, dicevano, si sarebbe potuto comprare mezzo paese. Non riuscivano a immaginare per quale motivo lo straniero fosse rimasto così ammaliato da un pezzo di cristallo, ma intuivano che quel cadavere incorruttibile che era stato portato via celava un mistero insondabile, un valore che non avrebbero mai potuto neanche concepire.

Ci fu un po’ di trambusto, una sensazione di dubbio e di vuoto oscurò il villaggio come una nube, finché finalmente dagli spessi nembi non cominciò a gocciare una pioggia autunnale. Schizzava sui tetti bianchi, azzurri e grigi, picchiettava sulle gronde ricurve verso l’alto, colava sui vetri delle finestre chiuse ermeticamente. I campanellini appesi sopra una finestra risuonarono ancora del loro tintinnio che sembrava venire ora da lontano ora da vicino. La terra era completamente ricoperta dalle nuvole. Nell’incessante rumore della pioggia, la gente si sovvenne di un visino che si faceva sempre più nitido: possibile che avessero visto davvero una cosa così bella? Alcune donne si tolsero dal collo le collane di gemme di cristallo: quelle perle così finemente levigate, così splendenti, mettevano i brividi. Poi si volsero a guardare fuori: la pioggia intrideva i davanzali delle finestre, i tetti, le strade e le insegne dei negozi che stavano lì solitarie, tingendo tutto del colore delle foglie imputridite. ◆

Zhang Huiwen è una scrittrice originaria della provincia dello Henan, nella Cina centrale. Nata nel 1978, ha studiato a Singapore e vive negli Stati Uniti. Il titolo originale di questo racconto è Shuijing haitong (Il bimbo di cristallo). La traduzione è di Anna Di Toro.

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Questo articolo è uscito sul numero 1390 di Internazionale, a pagina 116. Compra questo numero | Abbonati