La bellezza del paesaggio ripaga delle fatiche per arrivare a nord di Kaunas dove comincia la regione boschiva della Samogizia. A metà strada tra Panevėžys e Šiauliai, si trova Šeduva, una località di tremila abitanti quasi sconosciuta, con pochi edifici storici e costruzioni per lo più moderne, piuttosto banali, che riflettono le difficoltà dell’esistenza nella provincia lituana.

Alla periferia di Šeduva c’è un palazzo bianco di notevoli dimensioni molto integrato nell’ambiente circostante. Ha dodici blocchi collegati tra loro e il bianco s’armonizza con le sfumature di verde di prati e boschi e con il blu del cielo. Prima di arrivarci si nota il cimitero ebraico, uno dei pochi rimasti nelle piccole cittadine di questa zona d’Europa. La maggior parte, infatti, è stata distrutta dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. L’opera di distruzione è stata completata dopo il 1945 dalla comunità cristiana, che poi ha usato le lapidi come materiale da costruzione.

Il cimitero ebraico di Šeduva è un’eccezione: su una superficie di più di un ettaro sono conservate più di mille matzevot (le pietre tombali ebraiche), alcune risalenti alla fine del settecento. Fino a poco tempo fa era ricoperto dall’erba alta, che nascondeva quasi del tutto le lapidi. Dieci anni fa sono state restaurate e il muro di pietra che le circonda è stato ricostruito. Oggi l’intera area, con l’erba tagliata come un prato all’inglese, sembra quasi irreale. È difficile trovarne un altro così ben tenuto nell’Europa centrale e orientale.

Subito dietro il muro del cimitero si vede il bianco del museo di storia ebraica di Šeduva, chiamato “Lo shtetl perduto”. Il progetto dall’architetto Rainer Mahla­mäki, 69 anni, finlandese, è sorprendente ed entrerà nella storia dell’architettura. Mahlamäki è noto per aver progettato il Polin, il museo della storia degli ebrei polacchi di Varsavia. Il suo lavoro a Šeduva non è una coincidenza: è uno dei tanti rimandi al Polin, che infatti è diventato un punto di riferimento per i musei sulla storia degli ebrei in questa parte d’Europa.

Un mondo separato

Intorno al museo di Šeduva si estende il giardino della memoria, dove tra i prati fioriti sono stati piantati più di duecento alberi. Da questa prospettiva l’edificio sullo sfondo di un cielo punteggiato di nuvole bianche sembra quasi trasparente. L’intero complesso museale si estende su più di quattro ettari a testimonianza dell’ambizione di questo progetto.

Il museo racconta la storia dei tre secoli di presenza ebraica a Šeduva e delle migliaia di shtetl (piccola città, in yiddish) disseminati su un’area immensa, corrispondente grosso modo all’antica confederazione polacco-lituana. In questo territorio viveva la maggior parte della popolazione ebraica mondiale. Lo shtetl era solitamente un piccolo centro semirurale abitato in gran parte da ebrei che alcune volte rappresentavano la comunità dominante. Era un mondo separato e particolare che fu brutalmente cancellato dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale.

Il museo di Šeduva si differenzia da celebri istituzioni come il Polin e il museo ebraico di Berlino, che mostrano soprattutto la vita degli ebrei nelle città lasciando però gli shtetl ai margini. Quello di Šeduva cambia la prospettiva: dal giorno della sua inaugurazione, il 20 settembre 2025, si sta affermando come un posto di straordinaria importanza.

Per visitare la mostra bisogna scendere una lunga rampa di scale e raggiungere il livello sotterraneo. Qui, su una superficie di 3.400 metri quadrati, un gruppo di curatori lituani, in collaborazione con esperti provenienti da Germania, Israele, Polonia e Stati Uniti, ha ideato un’esposizone sulla comunità ebraica di Šeduva e sulla storia dello shtetl.

C’è anche una piccola sala cinematografica dove viene proiettato un documentario che ripercorre le vicende di una famiglia ebrea del paese dall’inizio del novecento fino alla Shoah.

La pellicola è della regista statunitense Roberta Grossman e tra i protagonisti c’è l’attrice polacca Karolina Gruszka. Il film accompagna i visitatori anche lungo il percorso: l’esposizione è intervallata da brevi sequenze di pochi minuti tratte dal documentario. Un espediente interessante e innovativo.

Nell’allestimento, curato dalla Ralph Appelbaum associates di New York, sono esposte vecchie fotografie di Šeduva e dei suoi abitanti, molte riprodotte in grande formato e accompagnate da spiegazioni sulla storia e sui vari aspetti della vita economica, sociale e religiosa, ordinati cronologicamente. Viene descritta anche la convivenza pacifica tra cristiani ed ebrei e la loro partecipazione alle guerre d’indipendenza lituana (1918-1920). Gran parte della storia locale è stata ricostruita grazie ai racconti dei pochi testimoni ancora in vita oppure dei loro discendenti.

L’emigrazione ha un ruolo centrale in questa storia: dalla fine dell’ottocento quasi due milioni di ebrei dell’impero russo, in realtà provenienti dai territori dell’ex confederazione polacco-lituana, partirono andando soprattutto negli Stati Uniti. Quelli provenienti da shtetl come Šeduva contribuirono in modo determinante a plasmare i moderni Stati Uniti.

Sotto un pavimento di vetro è visibile la vegetazione. È un riferimento simbolico alla foresta in cui furono uccisi gli ebrei del posto

Donazione privata

“Se fossi un Rothschild…”, era il sogno di molti ebrei di Šeduva, come si legge in una sezione del museo. Pare che comunque Šeduva abbia trovato i suoi Rothschild: l’esposizione è frutto di una donazione privata, ma i finanziatori preferiscono restare anonimi.

L’ultima parte racconta il periodo più tragico della storia ebraica di Šeduva. Il 24 agosto 1941 alcuni collaborazionisti lituani e due soldati tedeschi fucilarono 664 ebrei in un bosco vicino alla cittadina. Dopo la guerra non tornò nessuno.

L’allestimento fornisce informazioni sui 27 responsabili dell’eccidio, con nomi, foto e biografie. Erano vicini di casa delle vittime: calzolai, contadini, operai, autisti. Si tratta di un’iniziativa coraggiosa e senza precedenti poiché alcuni dei loro discendenti vivono ancora a Šeduva.

All’esecuzione sopravvissero solo undici ebrei: due veterani della lotta per l’indipendenza della Lituania, un medico, le loro mogli e i loro figli. Furono salvati dal parroco locale Mykolas Karosas e dalla famiglia Paluckas. Sopravvissero inoltre alcune decine di persone che erano state precedentemente deportate dai sovietici verso est o che erano riuscite a fuggire.

I due corridoi

La narrazione storica proposta nel museo di Šeduva è scrupolosa: affronta con onestà anche il capitolo più difficile, ovvero quello della collaborazione lituana e della complicità nell’Olocausto. Un tema che in Lituania è ancora molto delicato.

Un interessante espediente dell’architetto Mahlamäki è la presenza di due corridoi tra le varie esposizioni. Il primo è buio, alto diversi metri, con un pavimento di vetro sotto il quale è visibile la vegetazione. È un riferimento simbolico alla foresta in cui furono uccisi gli ebrei del posto.

Il secondo ha un significato completamente diverso: è grande, bianco e termina con un’enorme parete di vetro da cui si vedono il cimitero ebraico, i prati e i boschi circostanti. È una ventata di ottimismo: la Šeduva ebraica doveva essere cancellata non solo dalla faccia della terra ma anche dalla memoria. Ma sul secondo punto hanno fallito.

Il museo “Lo shtetl perduto” farà sicuramente parlare di sé perché è un progetto coraggioso di cui avevano bisogno sia la Lituania sia questa regione d’Europa. Per la prima volta, su ampia scala e con grandi ambizioni si racconta un capitolo importante della storia non solo degli ebrei ma anche della Lituania e della Polonia.

Si può pensare che il museo di Šeduva diventerà, dopo il museo Polin, un nuovo importante punto di riferimento per gli altri che saranno realizzati in futuro. ◆ sb

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Questo articolo è uscito sul numero 1637 di Internazionale, a pagina 74. Compra questo numero | Abbonati