All’epoca, mentre facevo i lavori di ristrutturazione, mi aveva avvertita: evita di allacciarti alla canna fumaria comune, falla sigillare e installa un tubo per l’aspirazione sulla parete esterna. Ma non l’ho ascoltato. Bene: ora i fumi dei vicini entrano nel mio appartamento e invadono la cucina. Chi siano non lo so. Il nostro è una palazzo di sedici piani, con sette appartamenti per ogni piano. In base alle planimetrie, dovrei condividere la canna fumaria con quelli degli appartamenti a ovest; in linea di principio, i fumi dovrebbero andare dal basso verso l’alto, quindi tutti quelli che stanno sopra di me sono da escludere. Non so bene cosa succeda con quelli che abitano al mio livello: ma visto che abito all’undicesimo piano, le possibilità dovrebbero limitarsi agli appartamenti dal decimo in giù, due per piano. Certo, ne rimangono icomunque tanti: se si esclude il pianterreno, che ospita gli uffici dell’amministrazione condominiale, e casa mia, restano comunque ventuno appartamenti, abitati più o meno per due terzi. In altre parole, il mio tubo potrebbe essere condiviso da dodici o tredici condomini. In teoria dodici o tredici famiglie possono spedire i loro odori in casa mia. Ma oramai ho imparato a distinguerle.

Sono arrivata alle mie conclusioni grazie a lui, all’odore: sì, perché ha un suo percorso e una sua personalità. Come dire: ha una sua dignità. Mentre sfrigolano in padella, pepe del Sichuan, peperoncino, cipolla, zenzero, aglio e anice esplodono e si levano fieri nell’aria. Farebbero pensare alla cucina del Sichuan, ma non è detto. Cipolla, zenzero e salsa di soia le trovi ovunque, rimandano piuttosto ai piatti del nord. In definitiva, quanto ad alimentazione questa famiglia è di ampie vedute e alquanto imprevedibile: peculiare, singolare e dirompente. Non ho dubbi: il fumo che entra nel mio tubo viene da una famiglia precisa. Per qualche ragione, invece di uscirsene dritto, a metà strada viene attirato dal mio aspiratore. O forse, semplicemente, tutti gli altri avevano messo in conto che un problema del genere avrebbe potuto verificarsi, e hanno sigillato per tempo l’impianto: tutti, tranne due.

Un’altra cosa caratterizza il cibo che mangiano i miei vicini: deve essere saltato e fritto. Fritto: a ogni pasto, a ogni costo. La mattina arriva per primo l’odore dello scalogno, seguito da un sentore di farina bruciacchiata: è il momento delle piadine alla cipolla. Un odore che si appiccica ferocemente al palato, penetrando oltre le labbra e in mezzo ai denti. A pranzo è facilmente il turno della carne saltata con rafano piccante. Fanno andare il rafano finché perde metà della sua acqua, ed ecco l’olio, seguito dall’odore della padella di ferro: tutti odori pungenti all’inizio, poi più morbidi e alla fine mescolati assieme, perché è arrivata l’aggiunta di acqua. A cena il menù si fa più ricco. È il pasto principale, quello in cui ci si rilassa. Gli odori sopraggiungono in ranghi, uno dietro l’altro. Il pepe del Sichuan e il peperoncino costruiscono le teste di ponte, poi arrivano le retroguardie, trascinandosi appresso ogni genere di compagnia. Ho anche scoperto che in quella casa amano ungere la padella con l’olio di sesamo, che si spande ovunque. Gli odori fluttuano e si dilatano nella mia cucina. Si diffondono in un istante, all’ora deputata, sempre intorno alle sette, con assoluta regolarità. I miei vicini non amano solo friggere, i piatti devono essere anche belli carichi: maiale, manzo e anatra sono all’ordine del giorno. Oltre al pepe del Sichuan, all’anice e al finocchietto, mi sembra aggiungano delle erbe medicamentose. Le pietanze infatti sprigionano dapprima un odore acre di medicina, che poco alla volta vira verso una fragranza delicata e tenue di erbe e, cacciando il grasso della carne, lascia spazio a un afrore proteinico. Ogni dieci o quindici giorni è la volta della trippa. L’inevitabile vampata sulfurea viene soffocata subito in una generosa dose di liquore, ma quel tanfo come di pesce se ne resta lì, diventando alla fine quasi piacevole e dilatandosi sciropposo per lasciare poi di nuovo spazio al pepe del Sichuan, all’anice, alla cipolla, all’aglio. Tutti, dal primo all’ultimo, esplodono insieme vigorosi. Eh sì, i miei vicini sono dei buongustai!

Ho pensato ad alcune soluzioni per bloccare i fumi, come siliconare il giunto tra l’aspiratore e il tubo, ma non è servito a niente. Ho applicato una sorta di banderuola giravento sulla bocchetta dell’aspiratore: quando è acceso, l’aletta ruota, aprendo la bocchetta. Una volta spento, l’aletta si posa sulla bocchetta richiudendola. Tutto inutile. L’odore s’insinua come prima attraverso la minuscola fessura. E a quel punto è un odore tenacissimo; non avendo vie d’uscita dalla cucina, senza altri spiragli, spinge con tutte le sue forze per scostare l’aletta. Qualche volta lo sento, toc torotoc, come se partisse da qui. Insomma, non riesco a eliminarlo. Semmai volessi davvero deviare il corso del tubo di aspirazione e bloccare il condotto, dovrei fare dei grossi lavori. Ma ho appena finito la ristrutturazione, non mi va di ricominciare. Quindi, l’odore faccia un po’ come crede. Io non posso fare altro.

Non ho dubbi: il fumo che entra nel mio tubo viene da una famiglia precisa. Per qualche ragione, invece di uscirsene dritto, a metà strada viene attirato dal mio aspiratore

Con il tempo, questi vicini mi sono perfino diventati simpatici, mi sembra che vivano una zelante e operosa vita quotidiana, ordinata, senza stranezze e senza eccessi. Quel friggere onesto e quotidiano, ogni giorno, a ogni pasto, col suo odore denso di olio e di salsa di soia, fa pensare all’appetito e ai gusti di gente che fatica, che lavora. Gente solida, di sicuro. Ecco perché mangia pesante. Che io ricordi, non hanno mai saltato un pasto. Puntuali a mezzogiorno arrivano gli odori e s’irradiano in ogni angolo della cucina. Dopo un’ora spariscono. Non durano mai di più. Passata un’ora si ritirano. Questo indica due cose: regolarità e sobrietà. Tutte qualità che impressionano favorevolmente. È il sapore di una misurata agiatezza.

Questa mattina presto, prima della cipolla fritta, è arrivato un odore sconosciuto, leggero, che si è diffuso inaspettatamente fino al salotto e in un batter d’occhio ha riempito la casa. In un primo momento ho pensato che stesse bruciando qualcosa, perché era un odore di fumo che aveva finito col materializzarsi, mentre l’aria cambiava di colore, un po’ grigia un po’ bianca. Un attimo dopo mi sono resa conto che era l’odore di un’erba, un odore strano: amaro, terroso, allappante. E un po’ alla volta ho capito: certo, era artemisia!

È il quinto giorno del quinto mese lunare, oggi cade la festa delle Barche drago e tutti bruciano rametti di artemisia. Che vicini deliziosi! Riescono a farlo anche in un appartamento ai piani alti del caseggiato. In fondo perché no? L’artemisia ha un profumo buonissimo, secco, nitido, avvolgente. Si porta appresso un’idea di pulito e si porta via ogni altro sentore. Rimane a lungo negli ambienti, almeno un giorno intero. Che sia rafano o cipolla, pepe del Sichuan, anice stellato o semplice padella, gli odori si dissolvono tutti nei vapori dell’artemisia. Al loro entusiasmo sono concessi tre minuti al massimo, poi basta, se ne vanno senza lasciare strascichi. L’odore di artemisia pulisce tutti gli altri. Odori depositati strato su strato, un giorno dopo l’altro: via. E quelli che arrivano il giorno successivo sono netti: la carne è carne, il pesce è pesce, le spezie sono spezie, mentre fino a lì si erano mescolati e affastellati uno sull’altro.

Francesca Ghermandi

Odori così gagliardi i miei vicini possono ottenerli solo grazie a una cottura in padelloni, a fuoco vivo. D’altra parte, non mi pare che siano interessati a pietanze troppo raffinate; gli odori che mi arrivano non sono mai gentili, freschi e discreti, e tantomeno dolci. Nel mangiare, la loro parola d’ordine è: profumi. I profumi sono l’anima dei loro piatti, semplici ma possenti. Solo così possono entrare nel tubo di aspirazione e raggiungere la mia cucina, ormai immersa nel… profumo! Stoviglie, superfici, frigorifero, contenitori, tutti impregnati di profumi oleosi. Non avevo mai avuto un legame così intimo con dei vicini.

Un giorno, nell’intervallo tra un pasto e l’altro, per due volte si è aggiunto un odore nuovo di erbe medicamentose, come sempre denso e forte. Ha esitato un istante, poi si è catapultato in cucina. Tutti i loro odori hanno la potenza di un salto mortale. Sotto quel sentore di medicina, vivace, pungente e amaro, stava disteso l’odore terroso di una pignatta in terracotta. Forse a causa dei vapori medicamentosi, quel giorno i tre pasti avevano dispiegato afrori meno intensi. Non voglio dire che avessero alzato bandiera bianca, ma almeno stavano concedendo una tregua. Nell’olio bollente, pepe del Sichuan, anice, peperoncino, aglio, cipolla, pesce e trippa avevano abbandonato l’usuale accanimento e si erano un tantino ricomposti, rivedendo il loro piano di battaglia. Si stavano dando agli stufati? In pentola bolliva un brodo di pollo e questa volta senza nient’altro, puro brodo di pollo. Era quasi assente l’odore miscidato e indistinto di spezie: brodo, semplice brodo.

In quel periodo la mia cucina era un tripudio di odori. Uno sull’altro, stratificati. Poi alla festa delle Barche drago l’artemisia ha ripulito gli ambienti, subentrando con la sua fragranza

Però a pensarci bene era un odore un pochino più pieno. Terso ed essenziale sì, ma con una grinta, una forza che esaltava l’originario sentore di pollo. E se fosse stato prosciutto? No, non erano gente da prosciutto, e del prosciutto affumicato non avevo mai avvertito l’odore. L’ho già detto, non mangiano cose così ricercate. Carne affumicata ovviamente no. Una carne speziata, cotta a fuoco vivo con cipollotti di Pechino e germogli d’aglio, sarebbe subito arrivata in casa, caracollando con un sussulto. E non era neanche di cosciotto di maiale in salamoia. Loro non mangiano quei cibi camuffati da cibi freschi, un po’ fetenti, vagamente stantii. I gusti incerti non li amano. Non è solo questione di distinguere profumi e puzze, gli odori devono essere espliciti, schietti e sonori. Seguendo la scia densa del brodo di pollo, finalmente ho capito: nel brodo avevano messo una tartaruga. Di sicuro non era una tartaruga d’allevamento, perché avrebbe avuto un che di aspro, mentre questa fragranza era limpida e dieci volte più intensa. L’odore vagamente alcolico del brodo fluiva borbottando in casa mia e il suo retrogusto sarebbe rimasto lì per due giorni interi. L’odore fiero del fritto, come compresso e soffocato, si sentiva appena.

La tartaruga è durata un bel po’: un brodo alla settimana per quattro o cinque settimane. Insomma, ne sono venuta fuori in un mesetto. L’odore amaro di medicinale e il profumo di brodo in quel periodo hanno fatto da nota di fondo all’odore del fritto, sono diventati la tonica della frittura. Ma erano anche i sentori di una coscienziosa convalescenza: paziente, costante, positiva, costruttiva, perseverante. Il gusto di medicinale non è rimasto identico nel tempo, per un periodo è prevalso l’amaro, poi, pur rimanendo amaro, ha accolto una nota di dolce. Poi si è fatto strano, un afrore limaccioso di alghe. In ogni caso, non ha saltato un giorno: arrivava puntuale nella mia cucina alle nove del mattino e alle quattro del pomeriggio lentamente si dileguava. Il brodo di pollo olezzava per ventiquattr’ore; come ho detto, era uso attardarsi, poi invariabilmente lasciava il posto ai soliti tre pasti al giorno. In quel periodo la mia cucina era un tripudio di odori. Uno sull’altro, stratificati. Poi alla festa delle Barche drago l’artemisia ha ripulito gli ambienti, subentrando con la sua fragranza. Anche la medicina, però, ha contribuito a purificare l’aria, e lo stesso ha fatto l’odore terroso del tegame di terracotta. Hanno spazzato via il tanfo di grasso, rinfrescando, ripulendo e rigenerando un poco l’atmosfera densa e oleosa.

Ma un giorno, all’improvviso mi si è riversato torrentizio in cucina l’olezzo di una zuppa di montone alla quale era stato aggiunto chissà quale elisir, perché non puzzava, anzi era gradevole. Era densa ed etilica, un borbottio mi invadeva la cucina. Come facevo a sapere che era montone in brodo e non stufato o spadellato? Perché mancava la nota di grasso sfrigolante, era un gusto semplice ma ricco, in cui si avvertivano lo zenzero e la cipolla. Ma in seguito si sono aggiunti nuovi elementi, dal coriandolo all’olio piccante, e l’odore si è fatto incisivo, penetrante, e…vagamente eretico. Aveva un’indole scismatica, confermata dal fatto che, dovunque si annidasse, sembrava abbandonare l’originaria natura, pur mantenendo la sua nota dominante. Un fiume mutato in mare di cui udivo lo sciabordìo. A un certo punto ho capito. Il vicino malato era ormai guarito e andava recuperato il tempo perduto, bisognava rinfrancarsi un poco e ritrovarsi tutti insieme. Incontri conviviali senza lussi particolari. Dopo un po’ anche quel persistente sentore di bollito è scomparso e si è tornati agli usuali tre pasti quotidiani, ben fritti.

Un giorno il manzo in salsa di soia con aggiunta di cipolla, aglio pepe del Sichuan e anice è all’improvviso annegato in un effluvio di rum, come se un liquore speziato stesse cuocendo. Poi è sopraggiunto l’aroma amaro e allappante della birra e alla fine il coriandolo

Colazione: gusto forte di porro o sfrigolante di uova, carne… focaccette ripiene o ravioli brasati? Pranzo: olio di sesamo e profumi fermentati in salsa di taccole. Cena: allegra gazzarra di spezie in morbide ondate. Che esuberanza, la cucina dei miei vicini! Non so se lo facciano consciamente, ma dopo ogni periodo di grassa abbondanza comincia sempre una fase di erbosa sobrietà. Per esempio arriva inaspettata l’artemisia della festa delle Barche drago o altre fragranze galeniche. In autunno, poi, è il turno della foglia di loto. Fagottini di carne in foglia di loto, pepe, di funghi e farina di riso entrano in cucina, nettando ancora una volta la stanza oleosa. Un odore di stoppie e di risaie mescolato ad afrori di carne, scalogno, anice, cannella e salsa di soia dispiega le sue ali in direzione di casa mia: in breve, a volte mi spediscono il profumo di queste mie terre e da questo capisco quanto i miei vicini siano attenti alle stagioni e ai prodotti locali.

Dopo un periodo piuttosto lungo di pienezza olfattiva, nella mia cucina è arrivato un ospite inaspettato: il profumo di caffè. È un filone del tutto nuovo, che con i miei vicini non ha nulla a che vedere. Si è intrufolato quatto quatto tra gli effluvi di pepe, un sentore, una piroetta che porta con sé qualcosa di sfrontato, del tutto estraneo al loro stile. Da questo ho desunto che è arrivato qualche inquilino nuovo che, senza nulla sapere, si è collegato alla canna fumaria comune. Così con grande tempismo anche il suo profumo si è unito alla festa degli odori in corso nella mia cucina. È entrato in punta di piedi, indeciso e guardingo. Poi si è accompagnato con una sottile variante, una tenue scia di formaggio, un sentore paffuto e rotondetto del tutto nuovo e insolito, una puzza di pecora, ma diversa. In questo modo, tra i miei vicini, è sempre chiaro chi viene e chi va. Loro e i loro odori, seguendo ciascuno la propria strada. Quelli nuovi hanno poi introdotto la cipolla rossa, l’alloro e l’aglio liofilizzato. Va detto che l’aglio e l’aglio in polvere sono diversi, anche se di poco. Il primo ha un odore più pungente, l’altro è meno forte. Di poco, ma tanto basta a renderlo diverso, sembra più un profumo e ha un’aria straniera. È arrivata anche la fresca fragranza dell’olio di oliva. Quello perseguito dai nuovi inquilini è un cammino più dolce e tranquillo, è un ornamento in più: induce a sognare a occhi aperti. Mentre con i vecchi vicini un odore è un odore, il piccante è piccante, il croccante è croccante, stimola l’appetito. Ma convivono in santa pace. L’ultimo arrivato è proprio un tipo discreto: arriva senza farsi sentire e se ne va altrettanto quieto. Ma ha un suo tratto vagamente irrazionale: non rispetta i tre pasti quotidiani, non è molto regolare. Capita si manifesti una volta al giorno, ma anche due, oppure mai. E non all’ora deputata, ma quando gli gira. Se si ricorda di mangiare bene, altrimenti niente. Come se fosse un poco inappetente. Mentre i vecchi vicini di pasti non ne saltano uno e in un momento l’odore è ovunque per poi scomparire altrettanto in fretta. Il nuovo, invece, a volte arriva mestamente nel cuore della notte e dovunque si diffonde il profumo leggermente amaro del caffè.

Alla fine gli odori si sono mescolati un po’, ma senza confondersi. Uno viene e uno va, uno sale e uno scende. Dopo un po’ ne è spuntato un altro, sembra venire dalla regione tra Suzhou e Wuxi, un sentore dolce che si taglia col coltello, di olii vari e di liquore, seguito a ruota dalle conserve in salamoia, vigorose a sufficienza per imbibire i germogli di bambù e far sì che il sentore ambiguo della carne sotto sale diventi limpido e chiaro. Certo, una diversa scuola di odori, ma è pur sempre la stessa gente e lo stesso paese, hanno comunque una lingua comune. Così, pian piano si sono integrati. Ma il precedente, per quanto flebile, proprio perché straniero ha mantenuto la propria indipendenza e si è ritagliato il proprio spazio. Ma eccone un quarto. Da un lato privo di personalità, dall’altro ecumenico e onnicomprensivo: profumato, piccante, aspro, dolce, con venature d’aglio in spicchi e in polvere, di olio di sesamo e d’oliva. Un giorno il manzo in salsa di soia con aggiunta di cipolla, aglio, pepe del Sichuan e anice è all’improvviso annegato in un effluvio di rum, come se un liquore speziato stesse cuocendo. Poi è sopraggiunto l’aroma amaro e allappante della birra e alla fine il coriandolo. Il risultato è stato un’assemblea generale, da quel momento non si riusciva più a distinguere quale fosse l’odore di chi. Tutti condivisi tra noi vicini, tutti insieme appassionatamente.

Oggi è tornato il sentore affumicato dell’artemisia. Ed è di nuovo la festa delle Barche drago. L’artemisia si porta via tutti gli altri odori, rimane solo il suo. Il tanfo oleoso di un anno si dissolve e sparisce lentamente nella fragranza di quest’erba. Un po’ alla volta l’aria cambia perfino colore e in quest’aura biancastra tutti i fumi illimpidiscono chiari. L’aria tersa non è trasparente, ha un suo colore. ◆

Wang Anyi è nata a Nanchino nel 1954 e vive a Shanghai. È autrice di romanzi, racconti e saggi. In Italia ha pubblicato L’amore in una vallata incantata (Argo 1995) e La canzone dell’eterno rimpianto (Einaudi 2011). Il titolo originale di questo racconto è Bilin er ju (Vicini di casa). La traduzione è di Stefania Stafutti.

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Questo articolo è uscito sul numero 1390 di Internazionale, a pagina 110. Compra questo numero | Abbonati