◆ C’è qualcosa di forte e simbolico nella caduta. Dalla favola della cacciata dal paradiso terrestre al precipitare dal picco della fama all’infamia, come nel caso di Oscar Wilde, nella caduta è inciso un destino. Ma cadere per strada, da pedoni esistenziali e poi in qualche modo morirne com’è successo a Goffredo Fofi, ci riporta alla caduta più spicciola e cruda, quella senza volo, pur dopo una vita spesa in ogni suo minuto. Il 13 luglio davanti alla cappella del cimitero monumentale di Gubbio si è ritrovata una piccola parte della vasta comunità formata dal lavoro instancabile sulle relazioni umane tessuto da Goffredo. Piero Giacchè ha ricordato che “Goff” cominciò da giovanissimo a evadere dalla città della folle corsa dei ceri: prima al cinema, poi in biblioteca, e perfino nelle edicole, dove poteva leggere di tutto, gratuitamente. Non aspettò nemmeno di essere maggiorenne per raggiungere Danilo Dolci nella sua rivoluzionaria esperienza in Sicilia. Da allora non si fermò più. Ora, dopo la caduta, è tornato a Gubbio. Un paese bisogna avercelo, almeno per potersene andare. E anche per tornarci per sempre. Assieme al dispiacere, però, si respirava un’aria di gratitudine in quel commiato. Tanto per la sua generosità, quanto per il suo bastone. Soprattutto per il lascito di una vita che Giacchè ha riassunto così: “Nessuno può insegnare niente a nessuno, ma tu puoi apprendere da tutti”.
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Questo articolo è uscito sul numero 1623 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati