In vista del Natale e dell’anno nuovo, per la maggior parte dei clienti del mercato di Bridgwater è difficile immaginare l’aumento dei prezzi e la penuria di merci che potrebbero essere dietro l’angolo. Le bancarelle di questa cittadina del Somerset, che nel 2016 ha votato a larga maggioranza per la Brexit, vendono frutta, verdura e formaggi in gran parte provenienti da Spagna, Francia e Paesi Bassi. I prezzi sono ragionevoli. Eppure, tra clienti e negozianti stanno crescendo dubbi, paure e un certo risentimento per le incertezze del futuro.

I politici favorevoli all’uscita dall’Unione europea avevano promesso che il Regno Unito e i britannici sarebbero diventati più forti e più liberi. Ma tra meno di due settimane i quattro anni e mezzo di tortuosi negoziati sui rapporti futuri con l’Unione potrebbero concludersi senza un accordo. Se le cose andassero così, ci sarebbero dazi doganali, quote e altri ostacoli imposti alla circolazione dei beni e delle persone. Il libero accesso al continente e al mercato unico diventerebbe un ricordo del passato. Questo porterebbe a un aumento dei prezzi, a una perdita di posti di lavoro e a una riduzione della potenza economica del Regno Unito.

In entrambi gli schieramenti aumentano le accuse e le recriminazioni

Nelle ultime due settimane, più che in qualsiasi altro momento dopo il referendum del 2016, la gente di Bridgwater e del resto del paese ha cominciato a fare i conti con cosa vuol dire davvero separarsi dall’Unione europea senza un accordo, il famoso no deal. Al momento, però, nessuno sembra in grado di fermare questa corsa verso il disastro.

Nei giorni scorsi il presidente del gruppo di grande distribuzione Tesco ha dichiarato che una Brexit “dura” potrebbe provocare un aumento del 5 per cento della spesa alimentare dei britannici. Nel frattempo i segnali dei possibili problemi futuri ci sono tutti. Lungo le autostrade dirette a sud sono presenti cartelli per indicare che dal 31 dicembre sarà necessario compilare una serie di documenti aggiuntivi in tutti i porti del paese. Il rischio di grandi ingorghi è più che reale. Quello che secondo i sostenitori della Brexit doveva essere un divorzio facile, immediato e indolore rischia di sfociare nel caos. Con sempre meno tempo per trovare un’intesa, la situazione si fa di giorno in giorno più tesa. Il 12 dicembre il titolo di prima pagina del Times alludeva a possibili soluzioni militari: “La marina militare contro i pescherecci francesi”. “Navi da guerra per proteggere il nostro pesce”, gli faceva eco il tabloid Daily Express.

In quelli che rischiano di essere gli ultimi giorni del Regno Unito all’interno del mercato unico e dell’unione doganale, il governo del premier conservatore Boris Johnson e i fanatici della Brexit vorrebbero che i britannici si facessero trasportare dallo slancio patriottico. Ma nel mondo reale molti sembrano indifferenti. “La situazione è stata gestita nel modo sbagliato. Tutto quello che secondo Johnson doveva essere facile si è rivelato impossibile”, dice Andy Tipper, un ex magazziniere che nel 2016 ha votato per l’uscita dall’Unione europea. “Sembra che il primo ministro stia giocando. È successa la stessa cosa con il covid. Un disastro dopo l’altro”.

Tipper, 50 anni, era convinto che la Brexit avrebbe significato più risorse per il sistema sanitario e maggiori opportunità di lavoro, ma ora ammette che se ci fosse un altro referendum non andrebbe nemmeno a votare. “Ho creduto a quello che leggevo. Dicevano che c’era un accordo già pronto e che sarebbe stato tutto semplice. Ora invece parlano di no deal”.

La moglie di Tipper, Mia, 52 anni, lavora a scuola e si sente presa in giro da Johnson: “Ha fatto marcia indietro su tutto. Ha mentito in continuazione. Mi ha mentito in faccia. Mi hanno mentito tutti, fin dall’inizio. Vorrei non aver votato per la Brexit”.

La decisione peggiore

Ma ci sono anche sostenitori della Brexit che incolpano l’Unione europea per lo stallo nelle trattative. “Vogliono i nostri soldi, ma non li avranno”, dichiara Tony Squirrell, 76 anni, ex caporale dell’esercito. Squirrell non è preoccupato dalla prospettiva di un’uscita senza accordo ed è pronto a stringere la cinghia: “Ce la siamo sempre cavata. In giro c’è molto allarmismo. Non seguo nemmeno più i notiziari, mi fanno imbestialire”.

La maggior parte dei britannici, tuttavia, è preoccupata. David Payne, 37 anni, gestore del negozio Somerset Deli, ammette che dovrà aumentare i prezzi dei formaggi europei che vende insieme alle specialità locali. “Tutto questo avrà un impatto negativo sulla nostra attività”, conferma Payne mentre serve i clienti. Con le trattative agli sgoccioli, molti sostenitori di entrambi gli schieramenti sono ancora aggrappati all’esile speranza che Londra e Bruxelles possano trovare un’intesa a metà strada, convinti che ci debba essere per forza un modo per appianare le divergenze sulle aree di pesca e l’accesso al mercato unico.

Ma in entrambi gli schieramenti aumentano le recriminazioni e le accuse reciproche. Il 12 dicembre il conservatore Chris Patten – ex commissario europeo e ultimo governatore di Hong Kong – ha sostenuto che Boris Johnson, considerato il suo sprezzo per gli interessi del paese, non può essere considerato un vero tory. “Penso che sia un nazionalista inglese. Tutto ciò in cui i conservatori credevano – la difesa dell’unità del regno, il rispetto delle istituzioni e l’impegno per la cooperazione internazionale – è andato a farsi benedire”, ha detto Patten al programma Today della Bbc Radio 4. “Non so come andrà a finire”.

L’opinione
La forza tranquilla dell’Unione

◆ Se la posta in gioco non fosse così alta, l’ennesimo rinvio, il 13 dicembre, della scadenza dei negoziati sui futuri rapporti commerciali tra Regno Unito e Unione europea farebbe sorridere, arrivato com’è dopo tante altre “scadenze cruciali” rimandate. Invece di prendere atto del fallimento, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il premier britannico, Boris Johnson, hanno annunciato un prolungamento dei colloqui, che a questo punto riguardano soprattutto due questioni: come evitare che le aziende britanniche facciano concorrenza sleale a quelle europee e come gestire la pesca dopo che Londra avrà ripreso il controllo esclusivo delle sue acque territoriali.

Comunque vada a finire questo interminabile negoziato, la Brexit è un errore che pagheranno, in modo diverso, tutti i popoli d’Europa. Al di là delle attuali discussioni tecniche, la conclusione o meno di un accordo e il suo eventuale contenuto determineranno la misura dei danni causati dalla Brexit, soprattutto all’occupazione. La scelta tra un accordo e il no deal dipende da decisioni politiche. Johnson è davvero pronto a infliggere al suo paese l’enorme trauma che sarebbe causato dal ritorno dei dazi e delle barriere doganali con un partner che vale la metà del suo commercio? Ed è abbastanza cinico da scommettere su un’impennata di nazionalismo provocata dalla rottura con l’Europa per far passare in secondo piano le critiche alla sua stravagante gestione della pandemia? Ripetendo che i negoziati sarebbero stati una passeggiata, e negando la disparità delle forze in gioco, Johnson ha mentito ai britannici. Affermando che avrebbe potuto ottenere il libero accesso al mercato europeo e la piena sovranità nazionale, ha ostacolato la ricerca di un compromesso. Preparando una legge che rinnegava gli impegni presi sulla questione dell’Irlanda del Nord, ha tradito la fiducia dei paesi dell’Unione.

In questo contesto, l’Europa ha dato prova di una virtù importante: l’unità. La cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron hanno sempre rifiutato la proposta di Johnson di negoziati separati. Di fronte alla minaccia di Londra di mobilitare la marina militare per difendere il “pesce britannico”, i paesi dell’Unione devono continuare a manifestare la loro forza tranquilla. La tutela del mercato unico , che è alla base della loro forza collettiva, è una condizione necessaria di ogni futuro accordo.

Un no deal non sarebbe una soluzione “meravigliosa”, come dice Johnson. Sarebbe un fallimento terribile. Bisogna cercare un accordo. Ma non a ogni costo. Per gli europei il peggio sarebbe ritrovarsi davanti alla porta di casa un concorrente incontrollabile. Le Monde


Michael Heseltine, un altro storico politico conservatore, è altrettanto deluso, e sulle pagine dell’Observer ha affrontato la prospettiva di una Brexit “dura”: “Questo governo sarà ritenuto responsabile, come è giusto che sia, della peggiore decisione presa in tempo di pace nella storia moderna del paese. Conosco diversi parlamentari che condividono la mia opinione. Non riesco a capire il loro silenzio”, ha scritto. “E così siamo arrivati a questo punto. Il Natale è vicino e prima che il paese torni al lavoro saremo finalmente soli, sovrani, ai comandi. Ma questo non crea un singolo posto di lavoro, una sterlina d’investimenti o un minimo miglioramento del tenore di vita dei britannici. Invece rischiamo di compromettere il nostro rapporto con il mercato più grande del mondo, che si trova a due passi dai nostri confini: un mercato che rappresenta metà delle nostre importazioni ed esportazioni”.

Secondo David Gauke, ex ministro del governo di Theresa May e contrario all’uscita dall’Unione, la crisi attuale è una conseguenza dell’irrealistica propaganda fatta dai sostenitori della Brexit nel 2016: “Allora sono state fatte due promesse incompatibili tra loro. La prima era che non ci sarebbero state conseguenze economiche negative e che il paese avrebbe mantenuto un accesso preferenziale al mercato unico. La seconda era che avrebbe riacquisito la sovranità totale, assumendo il controllo sulle leggi e sui confini”.

Alla fine si è scoperto che conservare l’accesso al mercato unico più grande del mondo e contemporaneamente mantenere integra la propria sovranità era impossibile. Un altro ex ministro ha commentato: “Le stesse tensioni che hanno caratterizzato la nostra permanenza in Europa, e che alla fine ci hanno spinti verso la Brexit, ora ci stanno scaraventando verso gli scogli di un’uscita senza accordo. Volevamo i vantaggi del progetto europeo e del mercato unico, ma siamo diventati sempre più ostili all’idea di rispettare le regole che lo governano e di cedere parte della nostra sovranità. Il risultato logico è un’uscita senza accordo”.

Da sapere
L’ultimo rinvio

◆ Il Regno Unito e l’Unione europea hanno tempo fino al 31 dicembre 2020 per trovare un accordo sui futuri rapporti commerciali. I negoziati sono cominciati il 2 marzo 2020, circa un mese dopo l’uscita ufficiale del Regno Unito dall’Unione, il 31 gennaio 2020. I nodi ancora da sciogliere riguardano l’accesso alle aree di pesca e gli standard da rispettare per garantire una concorrenza leale tra le imprese britanniche e quelle dei ventisette paesi europei.

◆ Il 14 dicembre il capo negoziatore europeo, Michel Barnier, ha dichiarato che un accordo è ancora possibile. Il 13 dicembre la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il primo ministro britannico, Boris Johnson, avevano rinviato la scadenza dei colloqui, fissata per la mezzanotte del giorno stesso, decidendo di continuare a negoziare.


Gauke racconta di aver capito che l’esito finale sarebbe stato il _no deal _ai tempi del governo di Theresa May, quando, nel luglio del 2018, i ministri si sono riuniti nella residenza di Chequers per valutare la proposta di accordo della premier. “Era la prima volta che il governo affrontava l’idea di fare delle concessioni”, ricorda Gauke. “Si parlava di un ipotetico regolamento comune, del fatto che se fossimo rimasti allineati a Bruxelles su merci e standard, saremmo potuti andare avanti per la nostra strada nel campo dei servizi e avremmo potuto eliminare la libertà di movimento. Era questo il piano di May”.

Ma quei compromessi si sono dimostrati inaccettabili. Il giorno seguente alla riunione di Chequers, il ministro per la Brexit David Davis si è dimesso. In seguito è stato Boris Johnson a lasciare il suo incarico di ministro degli esteri. Nessuno dei due era disposto ad accettare un codice di regole condiviso. Gauke è convinto che Johnson, dopo la nomina a primo ministro e la vittoria alle elezioni del dicembre 2019, ottenuta grazie alla promessa di “realizzare la Brexit”, si sia ritrovato in un vicolo cieco: doveva consegnare ai britannici una Brexit dura, cioè senza accordo. “Ai britannici era stato promesso l’impossibile. Poi, con il passare del tempo e con la situazione che continuava a trascinarsi senza progressi, è emersa la rabbia dei cittadini verso i politici incapaci di mantenere gli impegni presi. Ora il governo sta dando agli elettori che hanno votato per la Brexit quello che vogliono. Boris Johnson si sente obbligato a raggiungere un obiettivo talmente assurdo che, se fosse stato dichiarato nel 2016, avrebbe fatto vincere a mani basse chi voleva rimanere nell’Unione, conclude Gauke.

Stewart Wood, ex consulente del primo ministro laburista Gordon Brown, concorda sul fatto che “il momento chiave è stato il discorso di Chequers. May aveva l’opportunità di definire la Brexit in modo realistico e pragmatico, ma alla fine si è deciso di puntare sull’uscita dall’unione doganale, dal mercato unico e dalla Corte di giustizia europea, sul controllo totale dei confini e, allo stesso tempo, sul mantenimento di un accesso immutato al commercio con l’Unione europea. È una combinazione improponibile, che rende impossibile qualsiasi soluzione positiva dei negoziati. Il paese intero, e soprattutto il Partito conservatore, si aspettavano qualcosa che non sarebbe mai potuto succedere”.

Le promesse irrealizzabili

Mentre il governo di Johnson si trincerava sempre di più sulle sue posizioni, gli europei facevano lo stesso, determinati a non permettere che chi decide di uscire dal club possa farlo a condizioni vantaggiose. Come ha dichiarato un ex ambasciatore britannico, “la principale preoccupazione di Emmanuel Macron è che Marine Le Pen (leader del partito di estrema destra Rassemblement national, all’opposizione) possa dire: ‘Guardate, i britannici sono usciti dall’Unione e hanno ottenuto un ottimo accordo’. Per il presidente francese un esito di questo tipo sarebbe fatale”.

Fabian Zuleeg, direttore dello Euro­pean policy centre, è convinto che Londra abbia sottovalutato la volontà dell’Euro­pa di proteggere l’integrità del mercato unico e dell’Unione. “In parte è successo perché il Regno Unito non ha mai capito i meccanismi, i limiti invalicabili e le priorità dell’Unione europea. Londra, inoltre, ha sopravvalutato il proprio potere nel negoziato, sottovalutando invece la coesione dell’Unione quando si tratta di affrontare un paese terzo”.

Tornando a Bridgwater, il leader del gruppo laburista nel consiglio municipale, Brian Smedley, racconta di essere rimasto estremamente deluso dal risultato del referendum e da come aveva votato la sua città. “Questa gente è stata presa in giro. Per molti votare la Brexit è stato un gesto di ribellione”, spiega. Con il no deal sempre più vicino, Smedley è preoccupato per le ricadute sulle aziende locali. “Qui ci sono molti magazzini della grande distribuzione e società di trasporti. Saranno sicuramente penalizzati”.

Mentre Smedley esprime i suoi timori, su entrambi i lati della Manica politici e negoziatori stanno ancora cercando un accordo. Ma quello che finora era stato chiaro solo per alcuni – cioè che il dibattito sulla Brexit è uno scontro tra posizioni inconciliabili, alimentato da una retorica aggressiva e da promesse irrealizzabili – sta diventando evidente per tutti. Intanto il conto alla rovescia prosegue. E non ci sono segnali che facciano pensare a una soluzione. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1389 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati