Il 31 agosto 2019 un gruppo di poliziotti armati di maganelli si precipita in una stazione della metropolitana di Hong Kong per rincorrere dei presunti manifestanti lungo le carrozze di un treno fermo. Sopra le loro teste suona la sirena dell’allarme. Come molti momenti cruciali del movimento di protesta a Hong Kong, la scena viene ripresa e trasmessa in streaming da giornalisti e passanti. L’immagine più famosa mostra un piccolo gruppo di persone accalcate vicino alla porta della metropolitana. Tra loro c’è un uomo accucciato a terra, angosciato e spaventato, che si ripara con una mano mentre i poliziotti gli spruzzano addosso dello spray urticante.
A quel punto le manifestazioni a Hong Kong vanno avanti ormai da quasi tre mesi, e la prova di forza della polizia segna una svolta importante. I giornalisti locali cercano di dare un senso a ciò che vedono e di spiegare l’enormità del momento: c’è stata un’irruzione in una stazione della metropolitana, fino a quel momento considerata uno spazio sicuro per i pendolari; e gli agenti, fino a pochi mesi prima considerati elementi fidati della comunità, hanno aggredito dei civili anche se non c’erano prove evidenti di gravi minacce alla sicurezza.
Quel giorno al South China Morning Post (Scmp), il più grande quotidiano in lingua inglese di Hong Kong, la redazione è impegnata nella consueta rincorsa alle notizie dell’ultim’ora, che durerà fino all’alba. Il modo in cui il giornale alla fine tratterà la vicenda sarà motivo di tensione tra i giornalisti, scatenando una discussione emblematica – così mi hanno raccontato molti di quelli che erano lì – del più ampio scontro di opinioni sulla libertà d’informazione a Hong Kong in un momento storico così incerto.
Quando ho chiesto al direttore del South China Morning Post di ripercorrere l’episodio, e più in generale di spiegarmi come il giornale ha scelto di raccontare il movimento di protesta, mi ha risposto con un’appassionata difesa d’ufficio. Chi li criticava, dice, ha cercato di intimidire i giornalisti del quotidiano per “condizionare” la loro narrazione. “Dovremmo piegarci a questo tipo di pressioni?”, ha chiesto.
Il South China Morning Post non ha lo stesso numero di lettori delle testate internazionali con cui vorrebbe competere, ma proprio per la sua singolare posizione – è il principale quotidiano in lingua inglese di una città di grande importanza strategica – ha un ruolo fondamentale nell’orientare il modo in cui il mondo guarda agli eventi di Hong Kong e della Cina.
Una prima bozza dell’articolo sui fatti del 31 agosto 2019, o almeno la versione che abbiamo letto, descriveva la “scena caotica e sconvolgente” dei poliziotti che se la prendevano con dei “pendolari indifesi”. Ma non è questa la versione pubblicata alla fine. Il pezzo modificato, e poi ripetutamente aggiornato, racconta che “i corpi d’élite della polizia di Hong Kong” si erano gettati all’inseguimento di “manifestanti radicali” con i volti coperti da “maschere” nella stazione della metropolitana.
L’episodio, testimoniato da due fonti che hanno accettato di parlare a patto di rimanere anonime, è un tipico esempio della revisione pesante e tendenziosa a cui sono stati sottoposti gli articoli del South China Morning Post durante le proteste. Alcuni giornalisti, magari dopo ore passate in strada in mezzo ai gas lacrimogeni, agli spray urticanti e ai proiettili di gomma, si sono visti riscrivere da capo i pezzi dai loro superiori prima della pubblicazione sul giornale o sul sito. Negli articoli i poliziotti erano tipicamente rappresentati come eroi e i manifestanti come delinquenti, con poche informazioni sulle motivazioni e le posizioni di ciascuna parte e poco contesto. “È frustrante”, mi ha detto un giornalista che ha documentato le proteste (anche lui, come altri con cui ho parlato, ha chiesto di rimanere anonimo). Gli articoli pubblicati in prima pagina “davano l’impressione che il quotidiano fosse contro i manifestanti. Ma in quanto giornalisti, non dovremmo essere pro o contro”.
A Hong Kong c’è una lunga tradizione di giornalismo aggressivo e vivace, sia in cantonese (la lingua dominante) sia in inglese. I giornali sono molto letti e spesso sono molto critici verso l’operato del governo e della polizia. Queste libertà sono state un caposaldo del paradigma “un paese, due sistemi” che ha permesso alla città di differenziarsi dalla Cina continentale, dove il giornalismo è pesantemente censurato e assai meno libero.
Già prima dell’approvazione della nuova severissima legge sulla sicurezza nazionale, però, i mezzi d’informazione di Hong Kong erano finiti sotto assedio. Diverse testate tradizionali sono state rilevate da imprenditori appoggiati da Pechino o da aziende favorevoli all’establishment, a scapito del pluralismo. Negli ultimi anni ci sono stati vigilantes che hanno picchiato giornalisti di grandi testate e attacchi di Pechino ai danni di responsabili dei giornali in cantonese. Poi, da quando sono cominciate le proteste, anche il governo di Hong Kong ha preso a limitare le libertà dei giornalisti. Infastidite dalle ricostruzioni obiettive degli abusi commessi dalle forze dell’ordine, le autorità hanno cercato di soffocare alcune delle voci più critiche della città. Radio Television Hong Kong, l’emittente di stato, ha emesso un richiamo ufficiale nei confronti di un suo giornalista, colpevole di aver chiesto a un consigliere dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) un parere sulla controversa questione dell’inclusione di Taiwan nell’Oms e di aver preso di mira la polizia di Hong Kong durante una trasmissione satirica. La trasmissione in questione, Headliner, è stata poi sospesa. I capi della redazione si sono dimessi e il governo ha messo l’emittente sotto osservazione. Le forze dell’ordine, intanto, continuano ad attaccare i giornalisti che scrivono delle proteste, peraltro drasticamente ridimensionate dalla pandemia, dalle tattiche della polizia e dalla legge sulla sicurezza nazionale.
Dopo la pubblicazione dell’articolo alcuni redattori hanno chiesto un incontro con i capi per discutere delle loro preoccupazioni
Questa legge ha solo peggiorato il clima. Reporter e direttori di testata s’interrogano su quali attività giornalistiche possono essere considerate un reato e hanno ricevuto scarse rassicurazioni in merito dalle istituzioni. Diversi opinionisti e commentatori di quotidiani locali si sono dimessi per paura di entrare in contrasto con la nuova norma. A luglio il New York Times ha annunciato che trasferirà parte del suo personale in Corea del Sud, e probabilmente sarà imitato da altre testate straniere. Almeno tre importanti quotidiani occidentali, tra cui lo stesso New York Times e il Wall Street Journal, hanno lamentato ritardi nel rilascio di nuovi visti o nel rinnovo di quelli esistenti, secondo fonti che hanno chiesto di rimanere anonime. “Lo scopo della legge è proprio quello di creare un clima di paura tra i cittadini e i residenti”, osserva Kwai-Chueng Lo, capo del corso di scrittura presso la Hong Kong baptist university ed esperto di mezzi d’informazione.
Capi deferenti
L’Scmp è al centro di molte di queste tensioni. Fondato nel 1903, quando Hong Kong era una colonia britannica, è da sempre il quotidiano delle élite della città, “il giornale da leggere sull’autobus o con cui farsi vedere sulla soglia di casa la mattina”, scrive il giornalista Yuen-ying Chan in un saggio sui mezzi d’informazione in lingua inglese di Hong Kong. Ma è un punto di riferimento anche fuori dalla Cina, dato che può operare senza le pesanti restrizioni alla stampa in vigore in altri paesi asiatici come Singapore. Oggi, da una prospettiva globale, è senza dubbio il quotidiano più importante della città, sia per dimensioni sia per solidità dell’assetto proprietario (è controllato dall’Alibaba Group di Jack Ma, una delle aziende tecnologiche più ricche della Cina).
Le proteste del 2019, tuttavia, lo hanno messo a dura prova: i riflettori dell’informazione internazionale si sono spostati su Hong Kong e i giornalisti dell’Scmp si sono trovati a scontrarsi con caporedattori fin troppo accondiscendenti nei confronti delle autorità e spesso disposti ad accettare acriticamente le versioni della polizia, anche di fronte a prove schiaccianti d’irregolarità e abusi.
Proprio a causa dei suoi legami con la classe dirigente di Hong Kong (sempre più dipendente dai rapporti d’affari con la Cina continentale), l’Scmp è un giornale più moderato dei suoi concorrenti in cantonese. Negli anni ottanta e fino alla metà degli anni duemila la testata fu prima di proprietà di Rupert Murdoch e poi del miliardario malese Robert Kuok, e anche se la vecchia guardia favoleggia di una mitica età dell’oro in cui nell’Scmp c’era spazio per posizioni meno conformiste, diversi casi hanno sollevato dubbi sulla linea del quotidiano e sulla censura al suo interno.
Quando è passato ad Alibaba, nel 2015, la nuova proprietà è intervenuta con una provvidenziale iniezione di liquidità. Il giornale ha potenziato il suo staff, si è trasferito in una nuova sede (con tanto di pub all’interno) e ha ampliato la sua offerta editoriale con siti come Abacus e Goldthread, dedicati rispettivamente alle tecnologie e alla cultura cinese. Oggi l’Scmp – già lettura obbligata per gli osservatori anglofoni della Cina, grazie a una credibilità superiore a qualsiasi altra testata cinese – ha allargato i suoi orizzonti, con l’obiettivo di conquistare un pubblico internazionale affamato di notizie dalla Cina.
Vanno visti sotto questa luce sia l’abbandono del paywall per la versione online sia il rafforzamento della presenza in Cina, con cinquanta reporter sul territorio. Nel 2018 è stata siglata una partnership con il sito d’informazione statunitense Politico, salutata dall’amministratore delegato Gary Liu come un segno della “sempre maggiore credibilità e autorevolezza” del giornale. L’Scmp avrebbe proposto una collaborazione anche all’Atlantic, secondo un portavoce di quest’ultimo, per coprodurre una serie di eventi negli Stati Uniti e a Hong Kong, ma il progetto non si è mai concretizzato. Secondo alcune fonti, l’Scmp avrebbe contattato anche il Washington Post, che però ha preferito non rilasciare dichiarazioni in merito.
Grazie a questi fattori, oltre al crescente interesse per la Cina dopo lo scoppio della pandemia, l’Scmp ha assistito a una rapida crescita dei lettori. Nonostante una tiratura quotidiana relativamente bassa (poco più di centomila copie), il sito del giornale vanta in media più di cinquanta milioni di utenti attivi mensili, decuplicati negli ultimi tre anni, e quasi 200 milioni di visualizzazioni al mese. Circa un terzo di questi lettori è negli Stati Uniti, dice Liu in un’intervista a Digiday. Nonostante la generosità dei proprietari, però, l’Scmp rimane alla mercé del mercato dell’informazione: il giornale non produce profitti, ammette Liu, e la sua dipendenza dalla pubblicità ha “fatto suonare un campanello d’allarme”. Ultimamente i dipendenti sono stati costretti a prendere un congedo non retribuito di tre settimane e gli stipendi dei dirigenti sono stati tagliati. L’Scmp spera di trovare nuove fonti di ricavi e presto reintrodurrà il paywall.
Dominio inattaccabile
Nel corso della sua storia, il quotidiano si è quasi sempre confrontato con concorrenti in lingua inglese, sia a Hong Kong sia nel resto della regione. Al momento, il suo dominio nel panorama dell’informazione in inglese nell’ex colonia britannica è pressoché inattaccabile, ma la nuova proprietà, con i suoi obiettivi ambiziosi, ha rafforzato i controlli interni, creando non pochi malumori in redazione. In particolare, il timore è che questa gloriosa testata fondata 117 anni fa possa un giorno somigliare agli organi di propaganda che strombazzano la linea del partito al di là del confine. Liu, arrivato al giornale nel 2017 dall’azienda tecnologica Digg, ha sempre rispedito queste paure al mittente. “Si dà per scontato che siccome Alibaba è un’azienda cinese s’intrometta nelle scelte editoriali”, dice Liu. “In realtà non è mai successo”. Per sua stessa ammissione, però, l’indipendenza editoriale del giornale è molto precaria. “Se le leggi e la magistratura dovessero cambiare al punto da non garantire più la libertà di stampa a Hong Kong, allora anche il South China Morning Post cambierà”, confessa.
La proprietà, da parte sua, ha messo subito in chiaro qual è la sua idea d’informazione: “Molti giornalisti che lavorano con i mezzi d’informazione occidentali a volte non sono d’accordo con il sistema in vigore in Cina, e questo li porta ad avere una visione distorta degli eventi”, ha dichiarato Joe Tsai, presidente del consiglio di amministrazione dell’Scmp e vicepresidente esecutivo di Alibaba, poco dopo l’acquisto del giornale da parte del gruppo. “Noi vediamo le cose in modo diverso, crediamo che i fatti dovrebbero essere presentati per come sono”.
Dopo il passaggio di proprietà sono aumentati i timori sull’etica del giornale e sulla sua disponibilità a collaborare con Pechino. Nel 2018 l’Scmp è stato aspramente criticato per aver pubblicato un’intervista imposta dal governo cinese a Gui Minhai – un libraio di Hong Kong e cittadino svedese di cui si erano perse le tracce nel 2015, poi ricomparso in Cina un anno dopo – all’interno di una struttura carceraria, in presenza delle guardie. L’amministratore delegato Gary Liu ha difeso la pubblicazione dell’articolo, spiegando che l’Scmp aveva accettato di fare l’intervista dopo averne discusso con i redattori, che non c’era stata alcuna imposizione dall’esterno e che è stato lo stesso giornale a evidenziare la presenza del personale di sicurezza all’incontro. Angela Gui, la figlia del libraio, dice però di essere rimasta molto delusa della scelta dell’Scmp e dalla sua ripetuta difesa dell’intervista, che a suo dire era stata orchestrata da Pechino per imporre una versione distorta della vicenda del padre. “Dopo anni di detenzione illegale e di torture, mio padre è stato sottoposto a una pubblica umiliazione dal governo cinese, e l’Scmp ne è stato complice diffondendola e legittimandola come un ‘articolo di cronaca’”, ha detto Gui.
Quando si parla della Cina, l’approccio giornalistico dell’Scmp è ancora ben lontano da quello di testate come il China Daily o il Global Times, di fatto portavoce del Partito comunista cinese. Non a caso, il sito web del quotidiano – come quello dell’Atlantic e di altre importanti pubblicazioni occidentali, tra cui il New York Times, il Wall Street Journal e altri – è bloccato in Cina.
Una cartina di tornasole è stata la copertura delle proteste a Hong Kong, che si sono rivelate un test inaspettato per l’Scmp. In un’intervista a Recode, Liu spiega che il giornale ha cercato di evitare un approccio emotivo. I punti di vista personali sono ben accetti nelle pagine delle opinioni, continua Liu, ma non nella sezione delle notizie. “Questa separazione per noi è sacra”.
La confusione creata dalla legge sulla sicurezza nazionale è “voluta, non casuale” e l’obiettivo è quello di spingere i giornalisti ad “autocensurarsi”
In realtà, come confermano nove dipendenti presenti e passati della testata, spesso i confini sono stati più sfumati. Più di uno mi ha fatto l’esempio di Yonden Lhatoo, caporedattore e autore (insieme ad altri) della revisione dell’articolo sui fatti della metropolitana del 31 agosto 2019. Lhatoo, ex giornalista televisivo, è descritto dai colleghi come una persona intrattabile e lunatica, incline a scatti di rabbia e ad alzate di voce, e insieme ad altri due caporedattori è accusato di creare un clima insostenibile in redazione. Lhatoo scrive spesso sul giornale come opinionista o nella sezione notizie; ma è stato il suo lavoro di revisione a irritare una parte dei redattori, soprattutto quelli impegnati in prima linea a documentare le proteste. I toni non sono sfuggiti ai lettori più attenti del giornale. “Certe scelte linguistiche e di vocabolario sono di per sé il riflesso di pregiudizi”, osserva Louisa Lim, ex corrispondente da Pechino dell’Npr, la radio pubblica statunitense, e oggi docente all’università di Melbourne, in Australia, sottolineando l’uso di termini come “sommossa” e “furia devastatrice” riferiti ai manifestanti, che spesso sono finiti nelle versioni definitive degli articoli sulle proteste.
La redazione si è particolarmente infastidita per un articolo di Lhatoo pubblicato a ottobre nella sezione notizie, che dava credito a una teoria (molto diffusa tra i sostenitori di Pechino) secondo cui a Hong Kong esisterebbe una “maggioranza silenziosa” contraria alle proteste ma che non osa alzare la voce perché ha paura. Dopo la pubblicazione dell’articolo alcuni redattori hanno chiesto un incontro con i capi per discutere delle loro preoccupazioni e più in generale degli interventi di revisione di Lhatoo. Il direttore esecutivo Chow Chung Yan e il vicedirettore esecutivo Zuraidah Ibrahim hanno accettato di parlare con i giornalisti, ma “non c’è stato alcun tentativo di conciliazione”, racconta una persona presente all’incontro. “In pratica ci hanno detto: ‘Questa è la situazione; se non vi sta bene, quella è la porta’”. Nei mesi successivi diversi giornalisti che si erano occupati del movimento di protesta hanno lasciato il giornale e, secondo alcune fonti, almeno un altro redattore sarebbe prossimo all’addio. In un editoriale del 16 maggio, Lhatoo ha invitato Carrie Lam, la governatrice di Hong Kong, a prendere esempio dal presidente statunitense Donald Trump, rispondendo a tono ai “giornalisti calunniatori”, “spacciatori di notizie false” e “vergognosi”. Un ex reporter del giornale ha paragonato l’articolo a “una richiesta di attacco alla libertà di stampa”.
Contattato per un commento, Liu ha preferito non rispondere. Ad agosto, il portavoce del giornale Elgen Kua ha diramato un comunicato e ci ha invitati a visitare la redazione dell’Scmp a Hong Kong una volta passata la seconda ondata di casi di covid-19. In una telefonata successiva Kua mi ha detto che le dichiarazioni dei dipendenti dell’Scmp al nostro giornale sono “alquanto diffamatorie” e che Lhatoo è diventato il bersaglio di una “campagna d’odio”.
Poco prima della pubblicazione di questo articolo e dopo ripetute richieste di commenti, l’Scmp ci ha comunicato che il direttore esecutivo Chow Chung Yan era disponibile per un’intervista. In uno scambio piuttosto teso, durato quasi quaranta minuti, Chow ha accusato l’Atlantic di essere prevenuto e ha contestato le fonti di questo articolo, negando che il suo giornale fosse stato contattato in tempo per una replica. Chow ha quindi difeso a spada tratta la linea scelta sulla copertura delle proteste, gli standard editoriali e la cultura del giornale. “Il vostro punto di vista è stato chiaro fin dall’inizio”, ha detto. “Visto il tono delle domande temo che l’Scmp non avrà un trattamento equo; penso anche che buona parte del vostro articolo si basi su informazioni incomplete”.
“Noi ci posizioniamo al centro; ciò significa che alcuni lettori capiscono che le loro opinioni non sono le opinioni dominanti, e se ne risentono”, ha detto, spiegando la posizione del giornale. Quando gli ho chiesto dell’intervista a Gui, Chow ha paragonato la scelta dell’Scmp a quella delle testate che vengono invitate a partecipare ai tour organizzati dal governo di Pechino nello Xinjiang, dove la Cina sta attuando una brutale repressione della minoranza uigura. Per quanto riguarda l’articolo sui fatti della metropolitana, ha spiegato che il pezzo è stato aggiornato più volte per dare un quadro veritiero della situazione e che il risultato finale è un resoconto equilibrato degli eventi.
◆ Il 10 agosto Jimmy Lai, fondatore e proprietario del quotidiano di Hong Kong in cantonese Apple Daily, è stato arrestato per aver partecipato a una manifestazione non autorizzata contro le autorità. Lai, accusato tra le altre cose di “collusione con forze straniere”, è stato ammanettato nella redazione dell’Apple Daily e portato via. È libero su cauzione ma rischia l’ergastolo in base alla nuova legge sulla sicurezza nazionale, imposta a Hong Kong dal governo cinese. “Il mio arresto è solo l’inizio”, ha Lai detto poco dopo il suo rilascio.
◆Il 22 settembre la polizia di Hong Kong ha annunciato nuove regole **di accreditamento per i giornalisti. D’ora in poi solo i giornalisti di testate straniere “internazionalmente riconosciute e rinomate” o appartenenti a organizzazioni registrate nel sistema d’informazione del governo saranno accreditati. Escluse le due principali associazioni della stampa locale. **Bbc, Hkfp
Nella redazione preoccupa l’atteggiamento di sostegno alle autorità, e in particolare alle forze di polizia. Secondo alcune indiscrezioni, una reporter del quotidiano, già autrice di molti scoop sulla polizia e di una serie di interviste importanti, sarebbe stata estromessa da una chat di gruppo con altri giornalisti per timore che potesse trasmettere informazioni alle forze dell’ordine. A giugno, un articolo sull’anniversario del movimento di protesta ha raccontato la vicenda di un agente di polizia ferito dai manifestanti. Il pezzo era molto simile a un rapporto sullo stesso fatto pubblicato su OffBeat, la rivista ufficiale delle forze di polizia. Chow dice che la polizia di Hong Kong non è esente da colpe, ma che è stata demonizzata dall’opinione pubblica e che durante le proteste la voce delle forze dell’ordine non ha trovato quasi mai spazio sui giornali. “Se si fa un confronto tra la polizia di Hong Kong e la polizia negli Stati Uniti o nel Regno Unito o in qualsiasi altra parte del mondo”, ha detto, “i nostri agenti non sono particolarmente violenti”. Con le sue critiche all’Scmp, ha aggiunto Chow, l’Atlantic si è reso “complice della campagna di bullismo” contro i giornalisti che parlavano in modo positivo delle forze dell’ordine.
L’Scmp ha ritirato dalla pagina delle opinioni cinque articoli firmati da Lin Nguyen, un personaggio inventato da una rete di falsi giornalisti, autori di alcuni editoriali pubblicati in varie testate in tutto il mondo, smascherati dal Daily Beast. Gli articoli sono stati cancellati qualche giorno dopo che Alex Lo, un opinionista residente in Canada, aveva accusato gli Stati Uniti di “aver finanziato le proteste di Hong Kong del 2019”. Nel suo pezzo diceva di basarsi su un articolo del settimanale Time. Ma Lo non presentava prove a sostegno delle sue affermazioni, riconducibili invece a una teoria diffusa da Pechino e dall’amministrazione Lam. Chow ha riconosciuto che su Nguyen l’Scmp ha commesso un “errore di valutazione”, mentre sul pezzo di Lo ha precisato che era stato pubblicato nella sezione delle opinioni e che il giornale non aveva modo di verificare se “l’articolo di Time rispondesse al vero o no”. Kua ha specificato che, in seguito alle rivelazioni del Daily Beast, l’Scmp ha rivisto e rafforzato il processo di verifica sui contributi esterni.
L’avvertimento
L’inquietudine, tuttavia, è grande. Con l’aumento delle restrizioni ai mezzi d’informazione internazionali e il rafforzamento dei controlli sulle testate più piccole (il fondatore dell’Hong Kong Free Press, in lingua inglese, ha detto al Guardian che la confusione creata dalla legge sulla sicurezza è “voluta, non casuale” e che l’obiettivo è spingere i giornalisti ad “autocensurarsi”), l’importanza dell’Scmp nella copertura dei fatti nazionali potrà solo crescere. Come il giornale riuscirà a conciliare il rispetto di queste nuove, sfocate linee guida con la libertà e il pluralismo dell’informazione che hanno sempre caratterizzato Hong Kong è una questione che va ben oltre i confini della città.
Liu, Chow, gli altri caporedattori e alcuni reporter non hanno digerito le critiche al giornale, attaccato secondo loro ingiustamente per colpa di una proprietà ingombrante. Quando nel 2018 il New York Times pubblicò un articolo molto critico nei confronti dell’Scmp, Liu inviò un’email al giornale dicendosi “deluso, non sorpreso”. Il pezzo, si lamentò Liu, “travisa completamente la nostra missione e rappresenta in modo distorto la nostra trasformazione”.
Alla fine dell’intervista con l’Atlantic, Chow ha lanciato un vago avvertimento: “Un’ultima cosa. Spero che il tuo articolo si basi su fatti concreti. Se invece ci saranno contenuti diffamatori nei nostri confronti, ci difenderemo”, ha detto. Quando gli ho chiesto in che modo, Chow mi ha risposto: “Non sono tenuto a dirtelo, Tim. Ma ti assicuro che ci difenderemo”. ◆ fas
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Questo articolo è uscito sul numero 1377 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati