Da dove cominciare? Dallo scandalo dei motori diesel e dal vantaggio sulla concorrenza ottenuto con l’inganno? Dagli accordi sottobanco tra le case automobilistiche, che vanno avanti così da anni e sono la massima espressione, di certo non celebrata apertamente, della nostra società liberale basata sulla concorrenza? O vogliamo cominciare da Cum-ex, la frode fiscale che in Germania ha visto raffinate signore e distinti signori, con l’aiuto di rispettabilissime banche, farsi rimborsare imposte mai pagate? L’ultima fuga di dati dal dipartimento del tesoro degli Stati Uniti, finita nell’inchiesta giornalistica FinCen files, ci lascia a bocca aperta: le rivelazioni dimostrano l’enorme portata delle operazioni di riciclaggio condotte dalle banche più prestigiose e rispettate, senz’altro a conoscenza del fatto che si trattava di denaro sporco, proveniente da contrabbando di armi, truffe milionarie, oligarchie criminali e boss mafiosi. Insomma, la complicità nell’evasione fiscale è una normalissima operazione d’affari? Pare che sia proprio così.

Un altro caso interessante è quello della JPMorgan Chase. La grande banca statunitense ha ricevuto una multa di 920 milioni di dollari per aver manipolato i prezzi dei metalli preziosi. Questo colosso bancario si è servito anche del cosiddetto spoofing (falsificazione), una procedura con cui operatori finanziari di colpo iperattivi simulano una serie di velocissime compravendite in grado d’influenzare i prezzi a proprio vantaggio. A descrivere questi casi come una “trasformazione carcinomatosa del capitalismo” non è stato un foglio marxista, ma il quotidiano economico e finanziario tedesco Handels­blatt.

Perché le autorità di vigilanza tedesche sono rimaste a guardare le manovre della Wirecard senza intervenire? Bella domanda

Anche l’azienda di tecnologie e servizi finanziari Wirecard, ormai tristemente famosa in tutto il mondo, è sospettata – per usare un eufemismo – di aver trasformato aria fritta in denaro contante. Secondo gli inquirenti, grazie ai suoi trucchi contabili l’azienda si era gonfiata tanto da sembrare un gigante globale. In realtà aveva creato un buco di bilancio di 1,9 miliardi di euro. Perché le autorità di vigilanza tedesche sono rimaste a guardare le manovre della Wirecard senza intervenire? Bella domanda.

Due sono le reazioni possibili alle notizie preoccupanti che arrivano dal capitalismo finanziario. La prima è la tradizionale indignazione morale, anche perché i supereroi della finanza spesso sono i modelli dei giovani più ambiziosi. Nel caso della Wirecard, un’azienda di provincia sbarcata sullo scacchiere globale, ne erano innamorate la Baviera intera e almeno metà della Germania, orgogliosa di questi vincenti dall’istinto predatorio e in ottimi rapporti con la politica. La seconda reazione è quella di chi ha fatto il callo a questi scandali, dei realisti del capitalismo, che condannano in buona fede le truffe ma allo stesso tempo sottolineano che l’indignazione dell’ingenuo consumatore medio è poco utile quando si tratta di complesse questioni economico-finanziarie. Non siamo davanti a un generale decadimento dei costumi, dicono: impostori e truffatori ci sono sempre stati.

Un collegamento inesplorato

Entrambe le reazioni, indignazione e normalizzazione, sono comprensibili. Ma spiegare scandali e truffe imputandoli esclusivamente alla totale assenza di moralità dei singoli o all’improvvisa comparsa di qualche mela marcia in un cesto di mele moralmente integre, non è molto utile all’analisi del fenomeno. È molto più rilevante la questione del rapporto tra chi viola la legge e la società che gli permette di farlo (con successo) o quanto meno non lo ostacola. Esiste forse un collegamento ancora inesplorato – ma capace d’influenzare in modo determinante la mentalità delle persone – tra il diritto liberale di proprietà e la tendenza alla corruzione morale? La giurista Katharina Pistor ha pubblicato un saggio, Il codice del capitale (Luiss University Press 2021), che sembra fatto su misura per spiegare gli attuali scandali della finanza, anche se non li cita neanche una volta.

Il diritto borghese ha reciso il cordone ombelicale tra proprietà e collettività. Resta il diritto a realizzare l’interesse individuale

Secondo Pistor, per comprendere la storia del capitalismo è fondamentale analizzare la genesi del diritto moderno. La ricercatrice della Columbia law school di New York sostiene che il diritto è “lo strumento più importante a disposizione del capitale” e che su questo fattore da secoli poggiano le basi del potere e della ricchezza. Chi riesce a intervenire sulle istituzioni fondamentali del diritto privato – le norme che regolano i contratti, la proprietà, il credito, le strutture societarie delle aziende, i fallimenti – può procurarsi vantaggi indebiti e cambiare il mondo. E non sempre in meglio.

Pistor illustra i metodi adottati dai giuristi per usare il diritto a tutela dei patrimoni dei più ricchi. Dopo la privatizzazione forzata dei beni comuni – i commons – da parte dei ricchi proprietari inglesi del seicento, avvocati compiacenti furono pronti a impartire a quel furto la loro benedizione giuridica. “Poi l’ordinamento nazionale britannico, che si formò verso la fine del settecento, rafforzò l’inviolabilità dell’autonomia individuale, dei contratti e del diritto di proprietà, ponendo questi diritti al di sopra di quelli dei commoners cacciati dalle proprie terre”. E se inizialmente il diritto fungeva unicamente da baluardo contro lo stato, in seguito fu usato “per impedire allo stato di creare analoghi meccanismi giuridici anche a tutela di interessi diversi e non solo dei beni indicati dai capitalisti stessi”.

Secondo Pistor, quello che un tempo valeva per la proprietà terriera, oggi vale per il sistema della finanza e del diritto globale. Il ragionamento feudale è ancora vivo, vegeto e anche legale. Visto dall’esterno, “l’impero del diritto” è aggrovigliato come un enorme piatto di spaghetti, ma i giuristi affamati o i signori del codice, come li chiama Pistor, sanno perfettamente come usare la complessità a proprio vantaggio.

Riescono sempre a proteggere i patrimoni privati dalle pretese della collettività, basandosi sui diritti (di proprietà) individuali. E anche se molti governi, attraverso le leggi nazionali, cercano coraggiosamente di prendere delle contromisure, di una cosa possiamo essere certi: in genere ha la meglio il capitale privato. Chi possiede un patrimonio “intasca interamente il frutto del proprio agire egoista”, mentre “in genere tra i vincitori non figura il bene comune”.

Il libro di Pistor deve molto a Kritik der Rechte (Critica dei diritti), un saggio del filosofo Christoph Menke uscito in Germania nel 2018. Questo libro illustra le fondamentali differenze tra il diritto di proprietà moderno e quello antico. Per Aristotele, per esempio, il legame tra proprietà privata e bene collettivo era del tutto ovvio: “Nel diritto morale ateniese o nel diritto razionale romano ciò che è permesso” coincide “con ciò che è dovuto. L’unico agire permesso è quello secondo virtù o secondo ragione”.

In epoca moderna le cose stanno in modo completamente diverso. Il diritto borghese ha reciso il cordone ombelicale tra proprietà e collettività, e ciò che resta è il diritto alla realizzazione dell’interesse individuale e della volontà personale, “quell’agire a proprio piacimento” al di là di ogni morale e di ogni ragione. Secondo Menke, i diritti soggettivi “conferiscono a ogni individuo il potere di ricondurre le proprie decisioni al dato di fatto ineliminabile della sua stessa volontà”. Per John Locke, per esempio, “il fondamento della proprietà ha sede nell’essenza profonda dell’essere umano”. Locke, spiega Menke, ritiene che l’essere umano abbia un diritto naturale alla proprietà che nessuno può togliergli: “Conta quello che il soggetto vuole, e conta proprio perché il soggetto lo vuole; anche in opposizione alla collettività e ai princìpi razionali che la animano”.

I demoni dell’egoismo

Ma cosa ha a che vedere il moderno diritto di proprietà, caposaldo del liberalismo, con le truffe e le manipolazioni, con la Volkswagen, la JPMorgan Chase, il caso Cum-ex e la Wirecard? Chi ha letto i libri di Pistor e Menke non può più considerare particolari e isolati quei casi, non può più credere che gli artefici di quelle manovre fossero persone aggredite nottetempo dai demoni dell’egoismo e che perciò avevano perso la consapevolezza giuridica indispensabile alla loro attività. Forse è tutto l’opposto. Forse nell’agire disonesto emerge una concezione del mondo inscritta fin dall’inizio nel dna del diritto borghese di proprietà: la legittimità del desiderio “naturale” di proprietà, di guadagno senza freni, di ricerca di un vantaggio attraverso la speculazione. Si dice che il truffatore, ignorando la società, distorca il nucleo del diritto di proprietà rendendolo criminale; e che, con criminale egoismo, irrida la forma civilizzatrice del diritto per riscuotere ciò che sembra spettargli, per realizzare il suo naturale diritto al profitto, infischiandosene di virtù e bene comune. Ma, osserva Pistor, di queste autolimitazioni non c’è comunque traccia nell’impero del diritto. “Il cordone ombelicale tra l’interesse individuale e le esigenze della collettività è stato reciso”.

Chiariamo una cosa: il punto non è assolvere chi ha commesso reati finanziari particolarmente gravi, ma cercare di spiegare perché molte di queste persone sono seriamente convinte di non aver fatto niente di male. E perfino quando i responsabili, com’è avvenuto al processo sulla truffa Cum-ex a Bonn, ammettono di avere violato la legge, sembrano convinti di aver semplicemente realizzato il loro naturale, e in un certo senso pre-giuridico, diritto alla massimizzazione dei profitti. Può darsi che questa mentalità spieghi anche il fallimento delle autorità di vigilanza nello scandalo Wirecard. Gli eroi della finanza sembrano sempre agire “a buon diritto”, mentre i revisori di bilancio gli inviano lettere più che amichevoli, come quella ricevuta dalla Wirecard: “Anche nel 2018 la nostra squadra è a vostra disposizione per trovare soluzioni: piccole, grandi, innovative e su misura per voi”.

Ce lo chiediamo di nuovo: come si è arrivati al sovvertimento dei valori, “all’agire a proprio piacimento”? Perché i manager della Volkswagen hanno manipolato migliaia di volte la misurazione delle emissioni nocive dei loro veicoli diesel (contro gli interessi dei proprietari)? Secondo l’economista britannico Jonathan Aldred, autore di Licence to be bad: how economics corrupted us, la risposta è ovvia: l’ecosistema semantico di questi manager, il loro intero immaginario, è talmente dominato dall’interesse per la rendita, l’efficienza, il successo e la massimizzazione del profitto che, al confronto, i vecchi valori borghesi (virtù, moralità, misura e moderazione) sembrano del tutto ridicoli. Quello che “solo poche generazioni fa era considerato stupido e sconcertante, dannoso o addirittura spregevole”, in molti ambienti è ormai considerato “seducente”.

Aldred parla di “imperialismo economico” per definire un pensiero che si articola secondo categorie di natura, appunto, esclusivamente economica. Se anche dovessero aver mai nutrito qualche scrupolo, i manager della Volkswagen avrebbero potuto far ricorso ai loro articoli di fede per trovare immediatamente giustificazioni e rassicurazioni. In definitiva, la valutazione del rischio da correre nel perseguimento del profitto ha sostituito la riflessione morale su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.

Dan Saelinger, Trunk Archive

Questo spiegherebbe anche il fenomeno dello spoofing nel trading ad alta frequenza (le operazioni di borsa eseguite automaticamente da computer superveloci) che abbiamo citato all’inizio. In una prima fase, quando avvengono i velocissimi passaggi degli ordini d’acquisto e di vendita dei future (contratti a termine con cui le parti s’impegnano a scambiare e a liquidare certi titoli in futuro a un prezzo fissato), gli operatori agiscono su un terreno perfettamente legale, magari sentendosi fluttuare privi di gravità e onnipotenti in un universo di numeri incorporei. Ma, nella zona grigia in cui avvengono questi surreali giochi milionari, cresce anche l’opacità, e con questa la tentazione di correre qualsiasi rischio pur di realizzare il proprio “naturale” diritto alla ricchezza.

Resta la questione delle cause sistemiche del susseguirsi di casi di truffa e corruzione, tanto che nello scandalo Cum-ex è coinvolta perfino una banca pubblica regionale come la ex WestLB. Secondo il sociologo tedesco Wolfgang Streeck è stato raggiunto addirittura un massimo storico di criminalità, soprattutto nella “nuova industria” del capitalismo finanziario, settore che ha introdotto “innovazioni” così poco trasparenti che a prima vista è praticamente impossibile capire se “le regole vengono solo piegate a proprio vantaggio o violate tout court”.

Nell’illustrare questa prassi, Streeck sottolinea come sia evidente che, nell’ambito di una concorrenza senza quartiere, ormai è possibile ottenere guadagni consistenti solo impiegando mezzi semilegali o del tutto illegali. “Può darsi che il declino morale del capitalismo sia legato al suo declino economico. Quest’ultimo alla fine fa sì che la lotta per accaparrarsi le residue possibilità di profitto diventi ogni giorno più dura, trasformandosi in una gigantesca battaglia all’ultimo sangue. L’opinione pubblica, ormai, guarda al capitalismo con profondo cinismo, considerandolo un sistema di sporchi sotterfugi che servono ad arricchire all’infinito chi è già infinitamente ricco. Nessuno crede più alla possibilità di un suo rinascimento morale”.

Il caso del Ceta

Dal canto suo Pistor si astiene da ogni considerazione morale. Non vuole abolire la proprietà privata, e in linea di principio non ha obiezioni da sollevare contro il capitalismo finanziario e gli investimenti sensati. “Non c’è niente di sbagliato in sé nelle scelte individuali, fino a quando non comportano oneri per gli altri”. Sono i governi che dovrebbero tenere a freno i “signori del codice” e avere più voce in capitolo a livello giuridico, imponendo finalmente i princìpi del bene comune, come nel caso del Ceta, esemplare accordo commerciale tra l’Unione europea e il Canada.

Insomma, per la giurista della Columbia law school è arrivato il momento di un nuovo patto tra capitale e società, perché perfino in quei “paesi che si definiscono democrazie” ormai le disuguaglianze sociali sono tornate a livelli precedenti alla rivoluzione francese. E, a differenza di quanto hanno promesso molti economisti nel corso degli ultimi 35 anni, “dall’aumento del reddito globale” metà della popolazione mondiale “non ha ottenuto che un misero 12 per cento del totale”. Nel caso, piuttosto realistico, che “in questo mondo frammentato un nuovo contratto sociale non sia possibile” si tornerebbe presto a quello che nella storia dell’umanità è quasi sempre esistito: “Il potere puro governerà l’ordinamento giuridico, e staremo tutti peggio”. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1406 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati