Con il recente colpo di stato, l’esercito birmano sperava in un cambio di potere chirurgico, che avrebbe lasciato tutto il resto più o meno intatto. Invece il golpe militare ha spinto l’economia in caduta libera, fatto intravedere la possibilità di un intervento internazionale e scatenato un terremoto politico. La battaglia non riguarda più le elezioni o le modifiche alla costituzione. Una via porta alla dittatura senza fine; l’altra a una rivoluzione i cui confini esatti sono difficili da prevedere. Un’economia a pezzi potrebbe spingere la vita di milioni di persone povere e vulnerabili in una spirale disastrosa. E per la regione, e forse per il mondo, sarà impossibile ignorare quel che succede in Birmania: uno stato fallito tra India e Cina, nel cuore dell’Asia del ventunesimo secolo.
La tensione stava salendo da settimane. Aung San Suu Kyi, leader della Lega nazionale per la democrazia (Nld) e dal 2016 di fatto anche del paese, a novembre aveva ottenuto un’eclatante vittoria elettorale. Con più del sessanta per cento dei voti, si apprestava a consolidare il suo controllo della politica birmana, con la promessa di approvare modifiche costituzionali che avrebbero ulteriormente limitato il potere, un tempo senza limiti, dell’esercito. I suoi avversari del Partito unitario per la solidarietà e lo sviluppo (Usdp), vicino ai militari, avevano denunciato gravi brogli elettorali. Le elezioni sicuramente non erano state libere ed eque. A più di un milione di persone, tra cui i musulmani rohingya rifugiati in Bangladesh, era stato negato il diritto di voto, e il voto era stato cancellato in molte circoscrizioni, per lo più in aree abitate da minoranze. Ma secondo gli osservatori indipendenti niente suggeriva che i brogli avessero avuto la portata denunciata.
Il generale Min Aung Hlaing, capo delle forze armate, aveva intravisto uno spiraglio. Noto per le sue ambizioni presidenziali, aveva chiesto un’indagine indipendente sui brogli e poi una discussione ad hoc in parlamento. E quando la commissione elettorale nominata dall’Nld aveva respinto le sue richieste, Min Aung Hlaing aveva lanciato un ultimatum. I generali, furiosi, erano convinti che qualsiasi passo indietro avrebbe rafforzato ulteriormente il potere di Aung San Suu Kyi. La leader dell’Nld e i suoi collaboratori pensavano che anche la minima concessione agli uomini in uniforme li avrebbe spinti a continuare fino a paralizzare il suo governo.
Il 1 febbraio l’esercito ha arrestato Aung San Suu Kyi e altri leader dell’Nld, dichiarando lo stato d’emergenza. I militari hanno annunciato che avrebbero governato per un anno, organizzando poi nuove elezioni e restituendo il potere a un’amministrazione civile. Nel giro di pochi giorni Min Aung Hlaing ha incontrato i rappresentanti del mondo degli affari, promettendo una continuità politica e perfino un pacchetto di stimoli da vari miliardi di dollari per compensare le perdite dovute alla pandemia. Forse si aspettava che la popolazione accettasse docilmente la situazione, ma la risposta è stata una ribellione di dimensioni mai viste da decenni.
La generazione sbagliata
Le manifestazioni contro il nuovo regime sono esplose in tutto il paese a metà febbraio in un’atmosfera di festa, con la partecipazione di centinaia di migliaia di persone, da sole o a gruppi: operai edili coi caschi di protezione, attivisti lgbt e monaci buddisti. Una coppia vestita da sposi ha esibito un cartello con scritto “il nostro matrimonio può aspettare, questo movimento no”. A Rangoon le manifestazioni si sono svolte senza distinzioni etniche o religiose, dimostrando una rara unità tra le diverse comunità.
Uno sciopero del settore pubblico ha paralizzato il governo a livello nazionale e locale. Il 22 febbraio, sfidando gli avvertimenti dell’esercito, uno sciopero generale ha fermato tutte le attività commerciali. A guidare questa protesta erano per lo più ventenni o poco più che trentenni, giovani donne e uomini cresciuti nella relativa libertà dell’ultimo decennio. Si sono organizzati su internet, usando reti protette e applicazioni di messaggistica criptate, adeguando tecniche perfezionate dai manifestanti a Bangkok o Hong Kong, e adottando il saluto a tre dita di Hunger games. Alcuni di loro sostenevano Aung San Suu Kyi e l’Nld, mentre altri criticavano le tendenze autoritarie del suo governo. Ma erano tutti determinati a evitare qualsiasi rafforzamento del potere militare. “Avete fatto arrabbiare la generazione sbagliata”, era uno dei loro slogan più diffusi.
Poi, il 25 febbraio, le truppe da combattimento sono comparse a Rangoon e in altre città: uomini di varie divisioni della fanteria leggera, tra cui le unità di controguerriglia responsabili della pulizia etnica dei rohingya tra il 2016 e il 2017. Alle folle festanti si sono sostituite falangi determinate di manifestanti ben organizzati, molti armati di occhialini protettivi e scudi improvvisati per proteggersi dai lacrimogeni. La repressione è stata spietata. Scuole e ospedali sono stati trasformati in presidi militari. Cannoni ad acqua e proiettili di gomma hanno lasciato il campo a munizioni vere e proprie. Ci sono stati blocchi di internet, assalti alle case private, arresti arbitrari e pestaggi. A metà marzo il numero dei morti accertati era 150, molti dei quali colpiti da proiettili alla testa o al petto. Più di mille persone sono state arrestate. Buona parte della violenza è stata mostrata in diretta streaming da una popolazione che ora è sì terrorizzata, ma ribolle anche di rabbia. Ci sono pochi segnali che una delle due parti cederà. Tutto suggerisce una crisi prolungata, e il crollo dell’economia appare imminente.
Economia in caduta libera
La Birmania è uno dei paesi più poveri dell’Asia, con alti livelli di malnutrizione. Quasi un terzo dei bambini soffre di rachitismo. La stragrande maggioranza della popolazione non ha accesso a un’assistenza sanitaria decente e decine di migliaia di persone muoiono ogni anno per malattie curabili come la tubercolosi. Gli effetti sanitari del covid-19 sono stati contenuti ma l’impatto economico è stato catastrofico, a causa di lockdown, interruzioni delle attività commerciali, scomparsa del turismo e un deciso calo delle rimesse dall’estero. Le aziende, grandi e piccole, navigavano in cattive acque già alla fine del 2020, con risorse che bastavano a resistere forse un mese o due. Secondo un’inchiesta dello scorso ottobre, il numero di persone che guadagnavano meno di due dollari al giorno (insufficienti a sopravvivere in città) era schizzato dal 16 al 63 per cento della popolazione. Più di un terzo degli abitanti non aveva guadagnato nulla nei tre mesi precedenti. Molti prendevano denaro in prestito a tassi d’interesse esorbitanti, fino al cinquanta per cento al mese, per sfamare le famiglie. Tutto questo prima del colpo di stato.
Oggi l’economia ha raggiunto un punto morto. Con le banche chiuse a causa dello sciopero generale, il denaro scarseggia e milioni di dipendenti sono senza stipendio. La maggior parte dei mercati locali è ancora attiva ma con lo sciopero degli impiegati dei trasporti il prezzo di beni fondamentali come riso e olio da cucina è notevolmente salito. Il settore dell’abbigliamento, che dà lavoro a quasi 1,5 milioni di donne responsabili del sostentamento delle loro famiglie allargate, è in ginocchio. Gli aeroporti funzionano a malapena e i porti sono praticamente chiusi. Le navi commerciali internazionali sono ferme. Importazioni di prodotti fondamentali, per esempio i farmaci salvavita e il gas naturale liquefatto per l’elettricità, si esauriranno presto. I test per il covid-19 sono stati sospesi e non c’è alcun programma di vaccinazione di massa in vista.
Dieci anni fa sembrava che le prospettive della Birmania stessero migliorando. La dittatura aveva ceduto il passo a un governo civile ed erano state ripristinate libertà politiche sconosciute da mezzo secolo. Le sanzioni dei paesi occidentali erano state tolte e i leader mondiali facevano a gara per avere un ruolo nella favola culminata con il trionfo elettorale di Aung San Suu Kyi nel 2015. Poi arrivò la terribile espulsione di settecentomila rohingya verso il Bangladesh. L’occidente si preoccupò solo di discutere se Aung San Suu Kyi fosse ancora un’eroina o fosse diventata cattiva. Gli altri attori fondamentali, i generali dell’esercito, restavano relativamente sconosciuti. Adesso invece i riflettori sono puntati su di loro.
L’esercito birmano, fondato nel 1941 dal padre di Aung San Suu Kyi, il generale Aung San, combatte senza sosta dalla seconda guerra mondiale: ottant’anni di scontri armati nelle città e nelle giungle, su isole tropicali e sulle montagne dell’Himalaya, con tanto di villaggi bruciati e civili uccisi nella totale impunità, subendo e infliggendo un numero enorme di vittime. Tra i suoi nemici ci sono stati truppe nazionaliste cinesi sostenute da Washington negli anni cinquanta, forze comuniste appoggiate da Pechino negli anni sessanta, signori della droga e minoranze etniche in lotta per l’autodeterminazione. Dalla fine degli anni settanta buona parte dei combattimenti ha luogo negli altopiani orientali del paese, vicino alla Thailandia e alla Cina. L’esercito è diventato principalmente una forza d’occupazione contro le minoranze etniche che ogni tanto – nel 1974, nel 1988 e nel 2007 – cala sulle città della valle dell’Irrawaddy per reprimere il dissenso.
All’inizio degli anni sessanta una giunta militare introduce la “via birmana al socialismo”, nazionalizzando le principali aziende e isolando il paese dai mercati esterni. Poi, dalla fine degli anni ottanta, successero tre cose: l’esercito rifiutò il socialismo preferendo una miscela di etnonazionalismo e capitalismo; l’occidente impose sanzioni in solidarietà con il nascente movimento democratico; e il principale nemico dell’esercito – i ribelli comunisti nella zona al confine con la Cina – implose, lasciando dietro di sé varie formazioni con cui l’esercito avrebbe rapidamente stretto accordi di cessate il fuoco. Il commercio con la Cina fiorì rapidamente e i settori dell’estrazione mineraria, del legname e del narcotraffico vicino al confine cinese prosperarono. Parte del denaro si riversò sull’economia delle pianure, fino a Rangoon e Mandalay, dove i prezzi degli immobili ebbero un’impennata. La disuguaglianza raggiunse vette mai viste dall’epoca coloniale. Le compagnie petrolifere globali poterono sfruttare giacimenti di gas appena scoperti al largo delle coste. I generali si arricchirono, permettendo ad altre persone, in Birmania e all’estero, di fare fortuna.
Nel 2010 il dittatore e generale Than Shwe, vicino agli ottant’anni, si ritirò dopo aver preparato una nuova costituzione, che prevedeva una condivisione del potere. L’esercito lo desiderava da più di un decennio ma il progetto era stata rifiutato da Aung San Suu Kyi, che non lo riteneva democratico poiché dava ai militari il controllo dei ministeri legati alla sicurezza e una quota automatica di un quarto dei seggi in parlamento. Than Shwe aveva inoltre creato l’Usdp, prevedendo che avrebbe dominato il panorama politico.
Il primo presidente in questo nuovo sistema è stato l’ex generale Thein Sein (in carica dal 2011 al 2016). Grazie a ministeri gestiti da ex generali riformisti, Thein Sein si spinse ben oltre i piani di Than Shwe, convincendo l’occidente, a suon di liberalizzazioni, che la democrazia poteva effettivamente essere a portata di mano. Ma fece infuriare la Cina sospendendo un progetto idroelettrico da vari miliardi di dollari, e cercando un accordo di pace con le ex forze comuniste, che Pechino sosteneva da molto tempo, non attraverso la mediazione cinese ma con l’aiuto di europei, statunitensi e giapponesi. Thein Sein aprì anche il settore delle telecomunicazioni a operatori stranieri, generando miliardi di dollari d’investimenti e una rivoluzione per la connettività del paese. Se nel 2011 quasi nessuno aveva un telefono, nel 2016 la maggioranza delle persone aveva uno smartphone e un profilo Facebook.
L’occidente si è preoccupato solo di discutere se Aung San Suu Kyi fosse ancora un’eroina o fosse diventata cattiva
Come suo successore a capo delle forze armate Than Shwe aveva nominato Min Aung Hlaing, un ufficiale di grado relativamente basso che si era distinto combattendo contro una milizia d’etnia cinese nel nordest del paese. L’ex dittatore aveva quindi dato a ex generali riformisti l’incarico del governo civile. Ma aveva messo l’esercito nelle mani di un ufficiale più giovane, con l’esplicito compito di garantire in futuro il dominio dei militari.
Potere condiviso
Nei primi anni delle riforme, l’esercito fece un passo indietro in campo economico. Le sue regole sul commercio estero e l’accesso alle riserve di valuta straniera furono improvvisamente annullate, i monopoli di cui godevano le sue aziende aboliti, e la sua quota del bilancio nazionale ridotta. Nel 2015 i generali riformisti permisero elezioni libere e regolari, rispettandone l’esito. Aung San Suu Kyi stravinse e gli ex generali furono allontanati dai loro incarichi. Than Shwe si era ritirato da tempo e il potere era ormai condiviso tra Aung San Suu Kyi e Min Aung Hlaing. Quest’ultimo era a capo dell’esercito e della polizia, mentre Suu Kyi, grazie alla maggioranza parlamentare del suo partito, controllava il bilancio annuale da 25 miliardi di dollari del paese e gestiva l’economia, la sanità, l’istruzione e le relazioni internazionali. I due erano fatti della stessa pasta nazionalista e avevano istinti conservatori. Quando Aung San Suu Kyi è andata all’Aja nel 2019 per difendere la Birmania dalle accuse di genocidio, si è espressa tanto per convinzioni personali quanto per desiderio di calmare l’esercito. Tra i due c’era solo un’importante differenza politica: lei voleva un cambiamento costituzionale che avrebbe sottoposto le forze armate – l’esercito di suo padre, come l’ha spesso definito – a un’autorità civile, innanzitutto a lei come presidente. Per Min Aung Hlaing l’esercito doveva rimanere al di sopra di tutto. Così gli iniziali tentativi di cooperazione si sono trasformati in disprezzo reciproco.
Nel definire cosa succederà adesso, la Cina avrà un ruolo determinante. Dopo la pulizia etnica dei rohingya, mentre le relazioni con l’occidente peggioravano pesantemente, Pechino ha offerto alla Birmania rapporti commerciali sempre più stretti, oltre che un piano d’investimenti da vari miliardi di dollari, ribattezzato “corridoio economico Cina Birmania”. Aung San Suu Kyi si è sforzata di coltivare un rapporto con Pechino, stando però attenta a non avvicinarsi troppo. Min Aung Hlaing è stato anche più diffidente.
Il più intimo alleato della Cina nei conflitti armati in Birmania è l’Esercito unito dello stato Wa (Uwsa), una delle emanazioni dei ribelli comunisti, forte di trentamila combattenti. Negli ultimi dieci anni l’Uwsa a sua volta ha sostenuto nuove ribellioni, tra cui quella dell’esercito Arakan, che dal 2018 ha guidato la principale insurrezione contro le autorità birmane degli ultimi vent’anni. Centinaia di persone sono morte e decine di migliaia sono state sfollate dalle loro case.
◆ Il 22 marzo 2021 l’Unione europea ha deciso di bloccare il rilascio dei visti e di congelare i beni a undici persone coinvolte nel golpe militare in Birmania del 1 febbraio. Tra gli individui colpiti dalle sanzioni, il generale Min Aung Hlaing, capo dell’esercito, e Myint Swe, che dal giorno del golpe è stato nominato presidente del paese. Le misure sono la risposta finora più significativa dell’Unione alla repressione delle proteste, che ha provocato almeno 250 morti e l’arresto di più di mille persone. Reuters
Gli obiettivi di Pechino
Nelle ultime settimane è emersa la speranza di un’alleanza tra i parlamentari eletti dell’Nld (che si sono dati alla macchia e hanno formato un governo ombra) e gli eserciti delle minoranze etniche. Ma i gruppi armati più potenti sono nel nord, e sono legati alla Cina. L’esercito Arakan, dopo anni di dure lotte, oggi intrattiene colloqui di pace con il nuovo regime.
La Cina ha tre obiettivi in Birmania. Il primo è prevenire l’instabilità, in particolare qualsiasi scontro armato transfrontaliero o l’arrivo di profughi. In Birmania vivono più di un milione di persone d’etnia cinese e nel territorio del paese corrono oleodotti e gasdotti cinesi: un attacco contro quelle infrastrutture sarebbe un incubo per Pechino. Il secondo è evitare che la Birmania diventi una base per paesi rivali come gli Stati Uniti o l’India. Il terzo è trasformare la Birmania in un corridoio per l’oceano Indiano. La Cina ambisce a un dominio strategico ma è consapevole della forza dei sentimenti nazionalisti tra i birmani. E può far leva su punti di forza che nessun’altra potenza ha.
Nelle prossime settimane l’esercito baderà poco alle offerte di mediazione o alle condanne internazionali. In un paese dove milioni di persone sono emigrate per lavorare, i capi militari hanno viaggiato pochissimo e non si curano molto del resto del mondo. Le sanzioni mirate dell’occidente non otterranno praticamente nulla, perché si basano su una valutazione dei legami tra i generali e l’economia sbagliata, e sovrastimano l’importanza delle aziende di proprietà dell’esercito. I militari si concentreranno sull’annientamento della resistenza, limitando ancora di più internet e reprimendo le manifestazioni. Ma i dimostranti hanno dato prova d’ingegnosità e coraggio incredibili, ed è difficile immaginare che le forze armate riusciranno a consolidare del tutto il loro potere. Nei prossimi mesi ci saranno probabilmente lunghi scioperi, una repressione crescente, una resistenza violenta e una dolorosa discesa verso una povertà non necessaria. Il paese sarà ingovernabile.
Ma alla fine una rivoluzione dovrà aver luogo. Un ritorno al passato è impossibile. Mettere fine al regime militare è un inizio. Ma la democrazia da sola, se significa semplicemente elezioni con un sistema maggioritario, non basta. Serve un programma di cambiamento che prescinda dalle divisioni etniche e che abbia come obiettivo una società più equa e più libera per tutti. ◆ ff
Thant Myint U è uno storico birmano. Il suo ultimo libro è L’altra storia della Birmania. Una distopia del XXI secolo (Add 2020).
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Questo articolo è uscito sul numero 1402 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati