Nel 1881 lo zoologo John Murdoch partecipò a una spedizione a Point Barrow, in Alaska, all’estremità settentrionale degli Stati Uniti. L’obiettivo era osservare per due anni consecutivi i fenomeni meteorologici e magnetici e documentare la natura e la fauna selvatica dell’Artico. Viaggiando attraverso l’Alaska, Murdoch e i suoi collaboratori assistettero a una scena singolare: una famiglia di indigeni inupiat che catturava due cuccioli di lupo e li portava al proprio accampamento. La famiglia avrebbe poi nutrito e allevato con cura i cuccioli fino all’età adulta, prima di ucciderli per la loro pelliccia. Era un’antica tradizione, e a quanto pare potrebbe anche essere la chiave per comprendere l’origine dei cani moderni.
Il modo in cui i lupi grigi si sono trasformati nel migliore amico degli umani è stato a lungo oggetto di dibattito. Negli ultimi decenni l’ipotesi prevalente è stata che i lupi si siano addomesticati da soli. Avrebbero avviato il processo vagando ai margini degli insediamenti umani e nutrendosi di rifiuti. Con il tempo si sarebbero abituati alla presenza degli esseri umani e avrebbero instaurato con loro rapporti reciprocamente vantaggiosi. Solo allora alcuni umani avrebbero selezionato e allevato individui con tratti come la docilità e la socievolezza, dando origine ai cani domestici che conosciamo e amiamo oggi.
Ma alcune prove recenti hanno portato diversi scienziati ad abbandonare l’idea dell’autodomesticazione. Se la nuova ipotesi è corretta, la forza trainante sono stati gli esseri umani, non i lupi, e la domesticazione dei cani dimostra che l’umanità ha un rapporto profondo e complesso con gli animali selvatici, nato molto tempo fa.
La percezione comune della domesticazione dei cani è stata influenzata in gran parte da Raymond e Lorna Coppinger, che sull’argomento hanno scritto una serie di libri di facile lettura. I due coniugi, entrambi biologi, basavano gran parte della propria argomentazione sui cani “paria”, che si aggirano nelle discariche nutrendosi di avanzi e talvolta ricevono aiuti diretti dalla popolazione locale. “Questi animali non hanno padrone e sopravvivono in gran parte grazie agli scarti alimentari provenienti dagli insediamenti umani”, spiega l’archeologo Loukas Koungoulos dell’università dell’Australia Occidentale. “Rappresentano la maggioranza della specie _Canis familiaris _in tutto il mondo, secondo alcune stime fino al 70 per cento dei cani attualmente viventi”.
I Coppinger sostenevano che i cani paria fossero l’analogo perfetto dei lupi all’inizio della loro domesticazione. L’idea era che l’autodomesticazione fosse intervenuta quando gli esseri umani erano passati dalla caccia e raccolta all’agricoltura. Fu allora che i nostri antenati divennero sedentari, vivendo in gruppi più grandi e producendo abbastanza rifiuti da attirare i lupi, grosso modo come oggi i cani paria sono attirati dagli insediamenti umani. Questo cambiamento cominciò circa dodicimila anni fa in Medio Oriente.
“Se fossero stati trovati resti di cani molto più antichi ovviamente questa ipotesi sarebbe stata smentita”, dice Koungoulos. E ora reperti simili sono emersi.
I paleontologi hanno scoperto circa una ventina di esemplari fossili di cani risalenti a un periodo compreso tra 35.500 e 13mila anni fa in tutta l’Eurasia, in paesi come Spagna, Francia, Belgio, Italia, Svizzera, Germania, Ucraina e Russia. Questi cani paleolitici presentano varie caratteristiche fisiche che li distinguono dai lupi. Pesavano in media 31,2 chilogrammi, mentre i lupi del Pleistocene ne pesavano circa 41,8. Avevano anche musi più corti, un palato leggermente più largo e canini più piccoli. Queste differenze morfologiche indicano un cambiamento nella forma del corpo che secondo molti scienziati rivela i primi segni di domesticazione. Inoltre l’analisi del dna di antichi canidi suggerisce che l’Asia sudoccidentale e quella orientale siano state i centri originari della domesticazione. Anche se gli scienziati stanno ancora cercando di stabilire le date esatte, sembra ormai chiaro che i cani siano comparsi indipendentemente in diverse località più di 36mila anni fa. In altre parole, la domesticazione è avvenuta molto prima del passaggio dalla caccia e raccolta all’agricoltura.
Alcuni sostenitori dell’ipotesi dell’autodomesticazione hanno cercato di salvarla sottolineando che i cacciatori-raccoglitori paleolitici uccidevano grandi mammut e animali da branco come bisonti e cervi, quindi avrebbero potuto produrre abbastanza scarti da attirare e nutrire dei carnivori come i lupi. Ma anche questa tesi ha dei punti deboli. Innanzitutto, sappiamo che gli umani dell’età della pietra erano esperti nell’uso delle risorse animali e raramente lasciavano molti rifiuti, soprattutto non vicino a dove vivevano. Inoltre, le pratiche dei moderni cacciatori-raccoglitori fanno pensare che se i nostri antenati avessero conservato la carne in eccesso, l’avrebbero conservata lontano dagli animali su delle piattaforme o sugli alberi.
A questo si aggiungono le ricerche che dimostrano come i lupi siano spesso considerati pericolosi. Se si avvicinano troppo e perdono la paura degli esseri umani, occasionalmente possono predare bambini piccoli o altri individui vulnerabili. È documentato che quando le persone si sentono minacciate dalla loro presenza tendono a ucciderli.
Con un impegno sufficiente è possibile trasformare praticamente qualsiasi tipo di canide in un animale da compagnia
Prove simili hanno spinto Koungoulos a mettere da parte il modello dell’autodomesticazione. “Mi sono convinto che ci sono barriere quasi insuperabili all’autodomesticazione, rappresentate dal comportamento innato dei lupi e dagli atteggiamenti tipici delle società tradizionali nei confronti dei canidi, che sono, per la maggior parte, giustamente considerati animali pericolosi”, afferma. “L’autodomesticazione potrebbe avere senso per altre specie domestiche, ma non per grandi carnivori come questi”.
Ma se non è stata l’autodomesticazione, allora cosa è stato?
Cuccioli sacrificali
Un indizio che suggerisce origini diverse deriva da una migliore comprensione del comportamento del lupo. Questi animali nascono ciechi e non sviluppano la vista fino a circa due settimane di vita. Durante questo periodo critico sono altamente adattabili e in grado di abituarsi alla presenza umana, il che significa che possono sviluppare un attaccamento a un custode umano. Questo consentirebbe di accudirli in sicurezza e ridurrebbe la probabilità che attacchino qualcuno in futuro. “Con un impegno sufficiente è possibile trasformare praticamente qualsiasi tipo di canide in un animale da compagnia”, afferma il biologo evoluzionista Raymond Pierotti dell’università del Kansas, che ha allevato personalmente cuccioli di lupo. L’importante è cominciare quando sono ancora molto giovani.
Altri indizi vengono dai reperti archeologici. “I cani paleolitici si trovano generalmente, ma non sempre, negli insediamenti umani”, afferma l’archeozoologa Mietje Germonpré dell’istituto reale belga di scienze naturali. Inoltre ci sono prove che gli umani di questo periodo avessero profondi legami con i cani e altri canidi. Nel sito di Uyun al Hammam, in Giordania, una volpe era stata sepolta accanto a due persone circa 16mila anni fa. Gli archeologi hanno ipotizzato che il canide non facesse parte del corredo funerario, ma fosse un animale da compagnia, sepolto insieme ai suoi padroni come parte della famiglia. Molti siti in Europa, Asia e Nordamerica suggeriscono relazioni simili.
Grazie al suo lavoro sui cani paleolitici Germonpré è diventata una delle prime e più importanti sostenitrici di un modello alternativo di domesticazione, che si sta ora affermando tra gli studiosi. Secondo questo modello i lupi sarebbero stati lentamente addomesticati dopo essere stati adottati dagli umani come animali da compagnia. I cuccioli sarebbero stati catturati e nutriti fino all’età adulta. In seguito, attraverso la selezione degli esemplari con i tratti più desiderabili, si sarebbe gradualmente arrivati alla domesticazione. Germonpré lo chiama modello di domesticazione del cane su iniziativa umana.
In realtà non è un’idea nuova. Probabilmente la sua versione più antica e semplice risale a Francis Galton, cugino di Charles Darwin. Galton, noto soprattutto per aver fondato l’eugenetica, era un grande viaggiatore e documentatore. Questo, insieme alle sue conoscenze nell’élite del tempo, lo rese consapevole delle pratiche delle popolazioni indigene, comprese quelle che prendevano giovani animali per tenerli con sé. Galton scrisse di popolazioni indigene del Nordamerica che catturavano cuccioli di orso e di lupo, di sudamericani che catturavano e allevavano uccelli e di popolazioni africane che adottavano giovani bufali e antilopi. Secondo Galton questa pratica poteva essere all’origine della domesticazione.
I moderni resoconti etnografici dipingono un quadro simile. In Russia gruppi come i khanty e i mansi tenevano cuccioli di volpe come animali domestici prima di ucciderli per la loro pelliccia. In Nordamerica gli inuit adottavano regolarmente cuccioli di orso, permettendogli di giocare con i bambini e perfino di dormire nei loro igloo. Anche le famiglie ket, in Siberia, adottavano cuccioli di orso, soprattutto se non avevano figli. Gli ainu del Giappone settentrionale e della Russia orientale facevano qualcosa di simile, allevando cuccioli di orso per poi sacrificarli in cerimonie rituali. Gli antropologi hanno descritto molti casi in cui i cacciatori riportavano all’accampamento giovani carnivori e le donne li allattavano al seno, una pratica menzionata anche da Galton. Ora sappiamo che la tendenza all’adozione interspecie non è limitata agli esseri umani. È stato osservato che i delfini e le scimmie adottano individui di altre specie. Questo fa pensare che il desiderio di affiliarsi e prendersi cura dei piccoli di un’altra specie abbia profonde origini evolutive.
Del lupo non si butta via niente
Ma la versione moderna dell’ipotesi di Galton va oltre la passione dell’umanità per i cuccioli. Germonpré si è interessata ai primi segni di domesticazione dei canidi studiando il rapporto che i cacciatori-raccoglitori dell’età della pietra avevano con gli orsi delle caverne (Ursus spelaeus). Le loro ossa, compresi i crani, venivano spesso bruciate, dipinte con ocra e depositate sotto lastre di roccia, suggerendo che le temibili bestie avessero un significato simbolico e rituale. Questo potrebbe aver dato alle persone un ulteriore motivo per adottarne e allevarne i cuccioli. “La mia ipotesi è nata da lì”, dice Germonpré, “dall’idea che altri carnivori, come i lupi, dovevano avere anche un valore simbolico per le popolazioni paleolitiche”.
Le prove archeologiche confermano questa ipotesi. Molti siti preistorici rivelano che gli umani dell’età della pietra usavano i lupi in diversi modi. I loro denti servivano per realizzare ornamenti, i crani perforati alludono ad antichi rituali e i segni di taglio suggeriscono che fossero mangiati e che le loro ossa lunghe fossero usate per costruire utensili. Ma forse la risorsa più importante fornita dal lupo era la sua pelliccia.
Come altre specie che vivono ad alte latitudini, i lupi hanno sviluppato caratteristiche che gli consentono di resistere al freddo, tra cui una pelliccia molto isolante composta da peli lunghi e corti. Secondo i resoconti storici, i cacciatori-raccoglitori che vivevano nelle regioni settentrionali del Nordamerica, dell’Europa e dell’Asia la usavano per foderare cappucci, baveri e altri indumenti. La pelliccia di lupo sarebbe stata una risorsa preziosa anche per le persone vissute durante l’ultima glaciazione, tra 26mila e 19mila anni fa, quando gli umani dovettero sopportare un clima estremamente freddo e rigido. È lo stesso periodo a cui risalgono molti dei fossili di cani paleolitici.
Non è chiaro come si sia svolto esattamente il processo di domesticazione. “Il lupo asiatico, antenato dei cani di oggi, è scomparso per sempre, quindi la domesticazione non potrà mai essere ricreata in condizioni sperimentali”, afferma Koungoulos. Nonostante questo, lui e altri studiosi ritengono che potrebbero esserci dei parallelismi con l’interazione molto più recente tra umani e canidi selvatici. “Uno dei migliori esempi che abbiamo è il dingo e il suo rapporto con gli indigeni australiani, uno dei pochi popoli di cacciatori-raccoglitori tradizionali ad aver mantenuto fino a poco tempo fa rapporti domestici con un canide selvatico”, afferma.
Il dingo mostra bene cosa succede quando piccoli gruppi di nomadi adottano giovani canidi selvatici ma non li allevano selettivamente. Fino a poco tempo fa gli indigeni australiani catturavano regolarmente i cuccioli di dingo e se ne prendevano cura, per poi lasciarli liberi da adulti. I dingo non sono mai stati addomesticati, nonostante il loro rapporto millenario con gli esseri umani. “Questo esempio moderno fa pensare che la tradizione di tenere cuccioli di canidi selvatici come animali domestici può alterare il comportamento della popolazione libera, o almeno di una parte di essa”, afferma l’archeologo Adam Brumm della Griffith university, in Australia.
In un articolo scritto insieme a Koungoulos e Germonpré, Brumm ipotizza che i dingo rilasciati potrebbero essersi stabiliti vicino agli accampamenti indigeni, formando una sorta di sottopopolazione associata agli umani e separata dagli altri dingo. I cuccioli di queste popolazioni avrebbero avuto una maggiore probabilità di essere prelevati e adottati come animali domestici. “Forse qualcosa di simile è successo decine di migliaia di anni fa con il lupo grigio, dando origine ai primi cani”, afferma Brumm.
Potremmo non saperlo mai con certezza, ma ci sono ancora interrogativi aperti a cui i ricercatori sperano di rispondere, per esempio dove e quando esattamente ha avuto origine la domesticazione. Germonpré pensa di affrontarli con altre ricerche sul dna dei canidi antichi. Ma qualunque cosa rivelino gli studi futuri, la vecchia ipotesi non sembra più plausibile. “Il modello dell’autodomesticazione ha ancora diversi sostenitori e in circolazione ci sono libri molto popolari che ne parlano”, afferma Koungoulos, “ma la mia sensazione è che, di fronte a tante prove contrarie, stia diventando un’idea sempre più marginale”. ◆bt
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Questo articolo è uscito sul numero 1632 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati