Nell’inverno del 1996 – doveva essere verso la fine dell’anno, quasi all’inizio del nuovo – in fabbrica scoppiò un tumulto. Non un tumulto vero e proprio, diciamo piuttosto che nel cuore della gente che abitava nella fabbrica si levò una burrasca. Da chi fossero partite non si sa, fatto sta che le onde di questa burrasca si allungarono da una persona all’altra finché la voce giunse perfino a me, che allora ero un ragazzino di appena tredici anni. Il fatto era il seguente: Yang Guangyi si era beccato una coltellata.
Lo venni a sapere perché la voce era arrivata prima a Zhao Jing. Zhao Jing era la mia vicina, viveva anche lei all’interno della fabbrica e aveva un anno più di me: la mamma lavorava come addetta a incassi e pagamenti nell’officina n° 5, il papà era segretario dell’ufficio sicurezza. I genitori di Zhao Jing avevano appreso la notizia per vie diverse e se l’erano scambiata a cena: lei me la raccontò solo dopo aver appurato che era vera, perché sapeva che avevo un’autentica fascinazione per Yang Guangyi e conoscevo tutto di lui. Ovviamente non potevo crederci: era un fine settimana, e Zhao Jing era venuta appositamente nel reparto dove abitavo per annunciarmelo. Ricordo che indossava un maglione giallo e aveva un mazzo di chiavi appeso al collo. Mi raccontò tutto a mezza voce ma senza chissà quali dettagli, in realtà non fece che ripetere a memoria quel che aveva sentito dai genitori: “Qin”, ha detto il papà, “pare che Yang Guangyi…”.
Le versioni dell’accaduto variavano nella forma ma non nella sostanza: qualche giorno prima, non era chiaro né dove né perché, Yang Guangyi si era preso una coltellata
“Ho saputo”, ha detto la mamma, “è successo davvero. Dai, raccontami”, ha detto ancora il papà.
“Ho sentito che ha perso in una sfida col coltello”, gli ha spiegato la mamma, “gli hanno fatto un taglio nella chiappa”.
“Ma no, non era una sfida, gli hanno teso un’imboscata, sul lato est di via Yanfen, all’ingresso del chiosco di Lao Dou: ha comprato un ghiacciolo e, mentre prendeva i soldi dalla tasca tenendolo in bocca, un tizio gli è piombato addosso, gli ha piantato il coltello nel sedere ed è corso via”.
“E questo te l’ha raccontato Lao Dou?”.
“No, me l’ha detto Dou Peng dell’officina n° 3, è venuto da noi a mezzogiorno per una partitina a poker”.
“Quanto hai perso?”.
“Non ho perso niente, sono andato in pari, pensa che all’inizio stavo pure vincendo”.
“Dou Peng è uno che a casa non ci torna mai, come fai a fidarti di quello che dice? Allora, quanto hai perso?”.
“Ho vinto cinque yuan, ma tornando a casa ho comprato un pacchetto di Tashan”.
Zhao Jing aveva memorizzato tutto fino a questo punto: il resto, disse, era roba che non aveva niente a che vedere con Yang Guangyi. Ovviamente non riuscivo a crederci, non del tutto, eppure ero obbligato a prendere per buona almeno a una parte di quella storia. Qualche tempo prima, infatti, dopo la scuola, ero andato a farmi una doccia nei bagni pubblici della fabbrica e avevo sentito dei tizi parlare della faccenda, ma dal loro borbottio non ero riuscito a carpire proprio tutto. Comunque, dettaglio più dettaglio meno, le versioni dell’accaduto variavano nella forma ma non nella sostanza: qualche giorno prima, non era chiaro né dove né perché Yang Guangyi si era preso una coltellata.
In passato Yang Guangyi aveva lavorato come operaio nella fabbrica, ma erano trascorsi ormai dieci anni da allora. Poi era diventato un delinquente con la passione dei coltelli e aveva smesso di presentarsi al lavoro: non solo aveva smesso di lavorare, ma si era dato alla macchia. I genitori erano venuti a cercarlo in fabbrica, e così avevano fatto la sorella maggiore e la moglie che si era trovato fuori dal giro del lavoro, un donnone di campagna con la loro figlia al seguito: era stato tutto inutile.
Stando a quanto la donna aveva riferito alla direzione, nell’estate del 1982 Yang Guangyi era stato in trasferta di lavoro: era dovuto andare in un villaggio a riparare il trattore di un contadino, in quegli anni l’assistenza post-vendita era una novità. All’epoca, quando lavorava nel reparto assistenza, Yang Guangyi era un gran testone, uno che le cose voleva farle a modo suo: detto questo, aveva una discreta tecnica e amava realizzare piccole invenzioni, così avevano mandato lui.
Dopo tre settimane, era tornato dimagrito di due taglie. Una volta a casa, come prima cosa si era scofanato tre ciotole di riso bianco senza companatico e trangugiato un’intera caraffa d’acqua calda, dopodiché aveva tirato fuori dalla giacca un coltellino. Stando al racconto della moglie era un pugnale ricurvo lungo all’incirca una spanna, a doppio taglio, con il manico di legno e decorato con figure di animali. Dopo averlo contemplato a lungo, Yang Guangyi aveva pronunciato una sola frase: “Sai, capo, ho imparato a usare il coltello”. Poi se lo era rinfilato sotto la giacca e si era coricato vestito. L’indomani all’alba era scomparso senza lasciare niente, come se non fosse mai tornato. Questo era il resoconto su Yang Guangyi e il suo coltello fatto dall’unica testimone: nei dieci anni successivi era diventato legge, e nessun’altra voce era mai riuscita a smentirlo.
Da allora in fabbrica nessuno l’aveva più visto. Tra i dirigenti e i familiari di Yang regnava un clima di reciproco sospetto: gli uni erano convinti che gli altri lo stessero tenendo nascosto e tramassero qualcosa, ma cosa esattamente nessuno avrebbe saputo dirlo con certezza. Dieci giorni più tardi, un vecchio pioppo alto quasi otto metri e con un diametro di più di sessanta centimetri all’ingresso di via Yanfen, alle spalle della fabbrica, fu trovato spaccato a metà. Le due parti del tronco erano rimaste unite alla radice ma leggermente scostate, tanto che ci passava la luce in mezzo. La gente rimase per ore intorno all’albero a studiare la scena senza riuscire a capirci nulla. Se fosse stato un fulmine a colpirlo, avrebbero dovuto esserci segni di bruciatura: invece rami e foglie erano verde smeraldo come se fossero vivi, o quanto meno non morti del tutto (stando alle nozioni di biologia che avrei appreso più tardi, è principalmente la corteccia a fornire nutrimento all’albero); e poi la sera di due giorni prima non era nemmeno piovuto.
Quindici giorni dopo qualcuno lanciò cinque uccelli morti contro il cancello della fabbrica. Erano tutti passeri, anche loro tagliati a metà, con un occhio e un’ala da ciascuna parte: il grado di simmetria tra le due parti del corpo era lo stesso di un’immagine allo specchio e l’incisione perfettamente uniforme, bastava uno sguardo per capire che era stata praticata con un unico taglio.
In fabbrica lavorava un tipo che praticava arti marziali, un tale Chen Pi, un nome che suona come le parole che significano “buccia d’arancia secca”. Ovviamente era un soprannome: il suo vero nome era Chen Ping, ma poi qualcuno glielo aveva storpiato e tutti avevano cominciato a chiamarlo così. Chen Pi era addetto al carico dei camion. Era un pezzo di pane e mai in tutta la sua vita aveva usato le sue tecniche per far del male a qualcuno: quando gli saltava la mosca al naso, però, aveva l’abitudine di picchiare i pugni sul tavolo ed era capace di piegarne un angolo verso il basso con una sola manata. Chen Pi raccolse i cinque uccellini, li portò in officina e, dopo averli esaminati, arrivò alla conclusione che se erano in quello stato non era per via di un esperimento scientifico: qualcuno cogliendoli di sorpresa e sezionati senza tanti complimenti. Raccontò poi la leggenda secondo cui, nei tempi antichi, si usavano certi pugnali magici che tagliavano sia le cose enormi sia quelle minuscole: potevano squartare una tigre o sminuzzare una foglia. Questi pugnali, che misuravano poco più del diametro di una testa umana, si chiamavano “mancoltelli”. Il nome derivava dal fatto che la mano che li stringeva, unita al coltello, diventava una sciabola; quando invece si separavano dalla mano, si trasformavano in pugnali volanti.
“È stato Yang Guangyi”, concluse Chen Pi. I presenti valutarono tutti gli indizi e all’improvviso fu chiaro: Yang Guangyi, è stato Yang Guangyi! Ma a che scopo?
“Non importa perché lo ha fatto”, sentenziò Chen Pi. “Ho una casetta a un piano, cinquanta metri quadri e passa nella Nona strada: bene, gli do la casa e lo riconosco come mio maestro, diteglielo, se lo incontrate”.
Il direttore della fabbrica lo convocò nel suo ufficio. Messo piede nella stanza, Chen Pi rimase lì impalato: “So che ha chiesto di me”, disse.
“Esatto”, confermò il direttore, “ma porca puttana, per caso hai mangiato uno stronzo?”.
“Non ho mangiato niente”, ribatté lui. “E allora mi spieghi perché vai in giro a sputazzare merda? Stammi a sentire: ieri il commissariato e il nostro ufficio sicurezza hanno convocato una riunione congiunta e hanno accertato i reati commessi da Yang Guangyi. Quello là bisognerebbe prenderlo anche se non avesse fatto niente. E poi mi vuoi dire cos’è questa storia dei pugnali magici? Quello è la feccia della società, uno che ha palesemente toccato il fondo del vivere civile, e tu gli mandi pure un messaggio. Era uno dei nostri e ora bisogna che lo prendiamo: pensavamo che avesse talento, e invece gli è bastato stare via una decina di giorni per diventare un vagabondo col pallino del qigong. Non voglio prenderlo per punirlo ma per salvarlo, lo vuoi capire sì o no?”.
“Ma io Yang Guangyi non lo conosco”, protestò Chen Pi.
“Non me ne frega niente se lo conosci o no”, ribatté il direttore, “non hai detto che sei il suo discepolo? Ci sei dentro, a questa storia. Quindi ora farai il vigilante. Da oggi in poi, la sera, scordati di tornare a casa: ti procurerò un posto dove stare e pattuglierai la fabbrica”.
Chen Pi rimase a lungo pensieroso: “Allora mi dovrà dare un bastone elettrico e un elmetto di protezione, l’elmetto è fondamentale”.
Se sono così ben informato sulla faccenda è perché Chen Pi altri non era che mio padre. All’epoca io non esistevo ancora e lui aveva ancora delle ambizioni: qualche anno più tardi mise su pancia e anche il suo kung fu, in cui si era esercitato fin da piccolo, finì alle ortiche. Forse la causa di tutto fu proprio quella conversazione. Da quel giorno, e per i due mesi successivi, mio padre presidiò la fabbrica con il suo elmetto in testa: naturalmente fu tutta fatica sprecata perché, dopo l’albero e gli uccelli, Yang Guangyi non diede più prova delle sue abilità. Papà mise a posto la famosa casa a un piano da cinquanta metri quadri e, dopo le nozze, ci si trasferì: era l’inizio del 1983 e io non esistevo nemmeno allora, perché sono nato nell’inverno di quell’anno. Ma poco dopo la mia nascita, quando la mamma non aveva ancora finito il suo mese di convalescenza, Yang Guangyi si fece di nuovo vivo.
All’inizio dell’estate del 1983, dalla città arrivò un piromane che appiccò sei incendi nell’arco di tre mesi: diede fuoco a una sede dell’Agenzia statale dei cereali, a un locale caldaia, a due abitazioni (entrambe in via Yanfen), al magazzino di un laboratorio tessile e perfino a una macchina della polizia parcheggiata sulla strada. Due persone persero la vita: un veterano che, passando dalle parti del locale caldaia, aveva incautamente tentato di spegnere l’incendio ed era stato investito dall’esplosione, e una bambina di sei anni che, giocando con i familiari, si era nascosta nella madia sopra il letto di mattoni riscaldato e lì si era appisolata. Il caso dell’auto era il più torbido. Alla guida c’era un agente della polizia criminale che indagava proprio sul piromane. Aveva parcheggiato davanti alla bottega di un meccanico ed era sceso per fare qualche domanda in giro: in pochi minuti la macchina aveva preso fuoco e si era ridotta a una carcassa di metallo. A quel punto la natura del caso era radicalmente cambiata: che intenzioni aveva il piromane, scatenare una rivolta? La città intera si mise a dargli la caccia. Gli annunci pubblicati sui quotidiani dalla polizia erano molto sintetici, l’unica cosa sicura era che il ricercato era un esperto di arti marziali: certo, non era uno che saltava sui tetti e camminava sulle pareti, ma di sicuro aveva le gambe buone. L’agente a cui aveva incendiato la macchina, infatti, riferì di aver visto un tizio di cui, nel buio della notte, non era riuscito a distinguere i tratti; in due passi si era arrampicato su un albero, aveva scavalcato un muro e si era dileguato. Tutto questo in meno di cinque secondi. Due mesi di caccia all’uomo non diedero nessun risultato: i cinque casi non erano minimamente legati tra loro, tutto sembrava suggerire che gli incendi erano stati appiccati per puro piacere e che le vittime erano morte per un tragico errore. Se non fossero più scoppiati incendi, tutto sarebbe tornato alla normalità. In seguito papà mi raccontò che i poliziotti si erano presentati più volte in fabbrica in cerca di Yang Guangyi e che i dirigenti erano stati prelevati per una chiacchierata in commissariato, sempre per lo stesso motivo, ma non era servito a niente. Mi raccontò che lui stesso era stato convocato e interrogato per un pomeriggio intero. Per prima cosa gli chiesero quando fosse diventato un seguace di Yang Guangyi: “Mi sembra di rivivere lo sketch alla tv in cui quel tizio fa un incubo e sogna di essere sommerso dai debiti”, si difese, “era una frase detta così, sull’onda del momento, ed è diventata una macchia indelebile”.
Giurò e spergiurò che non lo conosceva, Yang Guangyi, che avevano mansioni diverse in reparti diversi, che in fabbrica c’erano più di diecimila operai, che non ci aveva mai parlato e che dopo che aveva lasciato la fabbrica ci aveva avuto a che fare ancora meno, che sì, praticava un po’ di kung fu, l’aveva imparato da piccolo con mio nonno per mantenersi in forma e farsi il fisico, ma non aveva mai alzato le mani su nessuno, al massimo spaccava gli angoli dei tavoli, ci metteva giusto la dose di forza che serviva. Poi i poliziotti gli chiesero di consegnare i cinque passeri: “Ma sono morti da più di un anno”, protestò papà, “li ho buttati da un pezzo, non avevano niente di eccezionale, e comunque avreste dovuto metterli in formalina”. Questa obiezione gli valse altri due giorni di fermo. Alla fine firmò un documento in cui dichiarava che non conosceva Yang Guangyi, che se il piromane era lui non voleva averci niente a che fare e che se per caso l’avesse incontrato avrebbe fatto tutto il possibile per consegnarlo alla giustizia. Ma la specialità di Yang Guangyi erano i coltelli, non la corsa, perciò suggerì ai compagni poliziotti di prendere in considerazione anche altre possibilità. InsegArrivato a sessant’anni, papà ricordava ancora quella conversazione: “Ho solo raccontato le cose come stavano, ora che sono vecchio parlo meno, ma da giovane non ci pensavo tanto su prima di aprire bocca, ero un gran chiacchierone”.
Alle prime luci dell’alba di cinque giorni dopo, all’orario di inizio del turno, i cancelli della fabbrica si aprirono e dagli altoparlanti prese a riecheggiare L’Oriente è rosso. Il primo a presentarsi fu Lao Ma, il guardiano notturno: la sera prima non era tornato a casa, così si era svegliato all’alba per aprire il cancello, annaffiare il vialetto e spazzarlo con la ramazza. Davanti all’ingresso c’era un sacco da giardinaggio. Lao Ma fece per sollevarlo, senza riuscirci. Pensò che qualcuno avesse rubato dei pezzi di ricambio dalla fabbrica e li avesse gettati nel sacco in fretta e furia, ma quando lo aprì cacciò un urlo per lo shock. Nei dieci anni che seguirono, la bocca di Lao Ma rimase storta e non si raddrizzò mai più. Nel sacco c’erano il corpo di un uomo tagliato in due, un paio di guanti bianchi e un bidone di plastica pieno di benzina. Gli agenti della polizia del popolo arrivati sul posto aprirono il sacco per esaminarne il contenuto e lo portarono via. Il cadavere era di un uomo di ventun anni, disoccupato: aveva frequentato l’università per tre anni senza conseguire la laurea, secondo alcuni per una questione di status sociale (non avrebbe superato le verifiche sul suo passato politico), secondo altri per una nevrosi che in tre occasioni gli aveva fatto perdere il controllo. Non aveva mai praticato il kung fu, in compenso aveva le gambe particolarmente lunghe: al di sopra dell’ombelico c’era giusto un pezzettino di tronco, il resto era tutto gambe. Un metro e settantacinque di altezza per soli quarantacinque chili di peso. La causa del decesso, ovviamente, era la mutilazione praticata con una lama. Alle sopracciglia non mancava nemmeno un pelo, né a destra né a sinistra: il corpo era stato sezionato in due parti perfettamente identiche, ciascuna del peso di ventidue chili e mezzo. Il caso del piromane era archiviato: ora bisognava aprire un’indagine per omicidio.
Stavolta non c’erano dubbi, il colpevole era Yang Guangyi. Che fosse difficile da acciuffare era evidente: in sei mesi ancora non se n’era trovata traccia, correva voce che qualcuno avesse sentito degli spari dalle parti del mercato ortofrutticolo Linea dodici, ma non si cavò un ragno dal buco. Qualcuno lanciò una provocazione in una discussione sul giornale – all’epoca i dibattiti erano ancora di moda – chiedendosi se Yang Guangyi, in realtà, non fosse un benefattore che combatteva per una giusta causa. La discussione, però, si chiuse lì: un conto è disquisire, un altro è arrestare un criminale, e nessuno doveva far perdere tempo a nessuno. Fatto sta che non lo presero. Forse Yang Guangyi lottava davvero per una giusta causa perché, se il piromane non fosse stato giustiziato, la vita, i beni e la sicurezza dei cittadini avrebbero continuato a essere a rischio. Certo, i suoi metodi un po’ troppo crudeli avevano avuto un’eco alquanto negativa nella società. La speranza era che Yang si costituisse, così da riportare l’equilibrio tra i princìpi della legge e quelli dell’umanità: ecco la conclusione a cui si arrivò. Nel giro di un mese più di dieci persone si consegnarono agli agenti, alcuni facevano Yang di cognome ed erano maschi, altri erano tizi nerboruti che ci sapevano fare con i coltelli. Dopo una seduta di persuasione ed educazione per convincerli del loro errore, furono tutti rilasciati e la faccenda fu dimenticata.
Ma non del tutto. Papà continuò ad avere rogne ma in modo diverso da prima, perché le rogne presero una forma nuova. A casa si presentavano continuamente persone che lo cercavano: non solo gente del posto, venivano da ogni angolo del paese e tutti portavano denaro e regali. “È lei l’allievo di Yang Guangyi?”.
“No”, rispose papà, “io carico i camion”.
“Maestro Chen, lei è troppo modesto”, replicò il visitatore.
“Ecco, questo è un pensierino da nulla, per favore, lo dia al maestro Yang, gli dica di riguardarsi e, se le capita, la butti lì, dica che è da parte di Lin Haifei, quello dello Hubei”.
“Se lo riprenda e si levi immediatamente di torno”, ribatté papà, “io quello là non lo vedo”. Il tizio posò la roba e se ne andò.
Un altro tizio gli disse: “Maestro Chen, mi hanno lasciato a casa, il direttore ha mandato a puttane la fabbrica e si è fatto pure l’amante, i nostri soldi li spende tutti quella baldracca, vada a parlare col maestro Yang, gli chieda di farlo fuori”.
“Vada a sedersi in mezzo alla strada per protesta”, rispose papà, “venire qui da me non serve a niente, io non lo conosco”. Prima di andarsene, lo sconosciuto infilò nome e indirizzo del direttore nella fessura della porta. Un’altra volta arrivò uno con un’alabarda in spalla: “Forza”, lo incitò, “facciamo un po’ di combattimento”.
“Non conosco il kung fu, fece papà”.
“Allora di’ a Yang Guangyi di venire fuori”, continuò l’altro.
“Non posso farlo venire”, sbottò papà, “ve lo volete mettere in testa, sì o no? E posa quello spadone del cazzo”.
“Dai, facciamo un combattimento veloce”, insistette il nuovo arrivato, “si vede che un po’ ci sai fare”.
“E va bene”, tagliò corto papà, “vado dalla polizia”. La mamma mi ha raccontato che a quel tempo papà gridava spesso nel sonno, e diceva per lo più due frasi. La prima era: “Non sono io, siete sordi o cosa? Un gatto bianco, un gatto nero, un cane sono!”. L’altra era: “Yang Guangyi, mi scopo tua madre!”.
Din din, tintinnava il mazzo di chiavi al collo di Zhao Jing. Tintinnava perché parlando saltellava e le sue parole erano come l’acqua, che fa rumore solo quando è mossa. “Impossibile”, dissi.
“Perché impossibile?”, fece lei.
“Che sia stata un’imboscata o un duello, Yang Guangyi non avrebbe permesso a nessuno di dargli una coltellata”.
“Eppure è andata così”, insistette Zhao Jing, “in fabbrica lo sanno tutti, perché non ci vuoi credere?”.
“Se gli altri ci credono devo per forza crederci anch’io? Yang Guangyi ha il suo kung fu”, spiegai, “semmai avrebbe dovuto essere lui a colpire, nessuno riuscirebbe a toccarlo”.
“All’inizio lo pensavo anch’io”, replicò Zhao Jing, “ma la maestra ha detto che per riuscire a fare qualcosa ti devi esercitare, magari in tutti questi anni non si è mai allenato. Se è così doveva rinunciare a combattere, se non altro per orgoglio”.
“È rimasto nascosto per tutto questo tempo”, ribattei, “se fosse stato orgoglioso sarebbe uscito allo scoperto da un pezzo. Sono sicuro che si è allenato coi coltelli ogni giorno e non avrebbe mai rinunciato a lottare, anzi, sarebbe stato lui ad attaccare”.
“Potresti chiedere a tuo papà”, suggerì Zhao Jing.
“Te l’ho detto mille volte”, sbottai, “non si conoscono, sto con lui ogni santo giorno, come puoi pensare che mi racconti balle?”
“E se fosse tutta una finta?”, insistette.
“L’hai vista quella serie tv, Senza rimpianti? Quella con lo spilungone che mente per tutti quegli anni”.
“Stammi a sentire”, tuonai, “è il tuo papà o il mio? Se non hai di meglio da fare, tornatene a casa a fare i compiti e piantala di ficcare il naso in cose che non conosci”. Zhao Jing rimase lì ancora un po’ a gingillarsi prima di decidersi ad andarsene. Quella sera il padre andò di nuovo a giocare a carte e lei aveva paura che avrebbe litigato ancora con la mamma.
La sera, terminato il turno di lavoro, quando papà e mamma ebbero finito di cenare, rimasi a osservarli. Di sicuro avevano capito entrambi, ma nessuno dei due tirò in ballo la questione. Dopo mangiato, andarono dal nonno. Il nonno aveva avuto un’embolia cerebrale, andavano a trovarlo ogni fine settimana. La nostra vecchia casetta a un piano, che era intestata al nonno, era stata rasa al suolo in seguito a un “ricollocamento”, altrimenti non saremmo finiti ad abitare nella fabbrica. Lui e la nonna si erano trasferiti dalla sorella di mio padre: ad accudirli pensavano lei e il marito, ma nel fine settimana dovevano andarci i miei. Il senso di tutto questo era: noi non ci siamo dimenticati dei vecchi e voi non dovete dimenticarvi di noi, nessuno deve dimenticarsi di nessuno. La notte scese la neve, poca all’inizio, poi sempre più fitta. Si levò anche un vento che faceva rimbombare le finestre dell’officina. “Tu rimani qui”, mi disse la mamma, “che poi mi tocca caricarti sulla bici”.
I passi dell’intruso, non esattamente felpati, avanzavano uno dopo l’altro verso il piano di sopra. Presi dall’astuccio un taglierino e lo impugnai stretto, spingendo fuori tutta la lama con il pollice
“Ma voglio vedere il nonno!”, protestai. “Ormai riconosce solo tre persone, cioè i suoi figli”, fece lei, “non so nemmeno io cosa ci vado a fare, che senso ha che ci venga anche tu?”.
“Ma la volta scorsa mi ha riconosciuto”, insistetti. “Sì”, mi spiegò, “perché credeva che fossi il papà da piccolo. Aspettaci qui, se torniamo presto passo da Churin a comprarti due tortine”. Papà non disse nulla, finì di lavare le scodelle, si vestì e uscì con la mamma. Dalla finestra del primo piano dell’officina li guardai spingere la bici controvento in mezzo alla neve. Barcollarono un po’ e poi, finalmente, montarono in sella: sembrava che pedalassero all’indietro, ma poi superarono il cancello, s’inoltrarono nella distesa di fiocchi di neve e scomparvero.
Da allora le nevicate sono diventate sempre meno frequenti. A volte sento dire che in tutto l’inverno è venuta giù solo una mezza nevicata e per giunta acquosa, che si trasforma in pioggia prima ancora che lo strato di neve già caduta abbia raggiunto l’altezza delle ruote di un’auto. Al telefono la mamma mi racconta sempre che, senza la neve, lei e il papà hanno l’impressione che sia tutto sbiadito. “Mi ricordo benissimo l’inverno del ’96”, le ho detto una volta, “è venuta giù una fortissima nevicata, ero solo a casa e avevo una fifa tremenda che non tornaste più”.
“Sciocchino, quando mai ti abbiamo lasciato a casa da solo?”.
“Una volta è successo, tu e il papà siete andati a trovare il nonno, era quando tutti dicevano che Yang Guangyi era stato accoltellato”.
“Ma quando mai, il nonno stravedeva per te, se non ti avessimo portato avrebbe preso il bastone per picchiare il papà”.
“Ma se non mi riconosceva più!”.
“Il nonno non riconosceva più nessuno, ma non appena tu mettevi piede nella stanza capiva subito chi eri, e tua zia diceva: noi che corriamo avanti e indietro trasportando merda e piscio valiamo meno del nipotino, questo stronzetto”.
“Mmh”, ho detto, “può essere, forse mi ricordo male”.
“Non è che ti ricordi male”, mi ha corretto lei, “ti sei proprio dimenticato tutto”.
Erano circa le dieci e mezza quando mi scossi dal sonno e, mentre davo un’occhiata all’orologio digitale, ebbi la sensazione che nell’officina fosse entrato qualcuno. Era uno stanzone enorme, ma dopo un anno che abitavo lì avevo sviluppato una particolare abilità: appena qualcuno ci metteva piede, immancabilmente mi svegliavo. Mi alzai dal letto, mi infilai il maglione e guardai giù dalla finestra del primo piano: aveva smesso di nevicare e la luna illuminava il vialetto lastricato che attraversava lo stabilimento, come una Via Lattea senza fine. I passi dell’intruso, non esattamente felpati, avanzavano uno dopo l’altro verso il piano di sopra. Presi dall’astuccio un taglierino e lo impugnai stretto, spingendo fuori tutta la lama con il pollice. Io e i miei genitori dormivamo in due stanzini separati: nel loro, leggermente più grande, avevano creato due letti, uno sopra e uno sotto, usando delle assi di legno per separarli. Erano usciti senza chiudere a chiave il loro stanzino. Il mio, che distava una decina di metri dal loro, era adiacente a un corridoio che collegava i reparti. Il visitatore si fermò davanti allo stanzino dei miei genitori, probabilmente aprì la porta per guardarci dentro, dopodiché si piazzò davanti alla mia porta.
Il corpo era stato sezionato in due parti perfettamente identiche, ciascuna del peso di ventidue chili e mezzo. Il caso del piromane era archiviato: ora bisognava aprire un’indagine per omicidio
“C’è nessuno?”, disse dopo essere rimasto in ascolto per cinque secondi. Non fiatai.
“Chen Pi è in casa?”, chiese ancora.
“No”, risposi.
“Mmh”, fece lui, “sei suo figlio?”.
“Tu chi sei?”, chiesi.
“Mi chiamo Yang Guangyi. Yang, come ‘pioppo’, Guangyi, come ‘in senso lato’, il contrario di ‘in senso stretto’”.
Aprii la porta: in piedi sulla soglia c’era un ragazzo di ventisette o ventotto anni, con le spalle larghe e robuste e la faccia squadrata, senza cappello, capelli corti, un’impeccabile giacchetta imbottita grigia e un paio di guanti di cuoio nero in una mano.
“Balle”, dissi, “Yang Guangyi è più grande di te, lo dovresti chiamare zio”.
“Dov’è il papà?”, chiese ancora.
“È andato a trovare il nonno con mamma”, risposi, “lui lo conosce, il vero Yang Guangyi. Vattene subito, può tornare da un momento all’altro”.
“Be’, mi è giunta voce che vuole imparare il kung fu da me”, proseguì.
Gli annunci pubblicati sui quotidiani dalla polizia erano molto sintetici, l’unica cosa sicura era che il ricercato era un esperto di arti marziali: certo, non era uno che saltava sui tetti e camminava sulle pareti, ma di sicuro aveva le gambe buone
“È una storia vecchia”, dissi.
“Le notizie mi arrivano un po’ a rilento, l’ho saputo da poco. Non avresti qualcosa da mangiare?”.
Ci pensai su: “No”, dissi alla fine, “ho solo una mela”.
“Mangiamone metà per ciascuno”, propose, “mi va bene anche la metà più piccola, ho la gola secca”.
Mi strofinai la mela sui pantaloni e la smezzai con il taglierino: “Un bel taglio preciso”, commentò lui tendendo la mano. Divorò la mela in tre bocconi e mi chiese ancora: “Sigarette ne hai?”.
“No”, replicai, “ora vedi di non esagerare”.
“Hai ragione”, sorrise, “ben detto”.
In quel preciso istante mi accorsi che aveva una gamba dolorante: quando stava in piedi la sinistra era un po’ malferma, perciò caricava il peso sulla gamba destra. Sentii accelerare il battito del mio cuore: era come se tutta l’eccitazione e i sogni che avevo covato per tanti anni mi stessero montando alla testa. “Allora è vero che ti hanno dato una coltellata”, gli chiesi.
“Sì”, rispose. Indicò il punto con la mano: “Qui, dietro la coscia, e non era un coltello ma un punteruolo, me l’hanno conficcato per un pollice”.
“E chi è stato?”.
“Non l’ho visto bene, non mi sono voltato”.
Dieci giorni più tardi, un vecchio pioppo alto quasi otto metri e con un diametro di più di sessanta centimetri all’ingresso di via Yanfen, alle spalle della fabbrica, fu trovato spaccato a metà
“E perché?”.
“Avevo paura che, se l’avessi fatto, l’avrei ammazzato”. Sorrise di nuovo, e solo allora scoprii una cosa che gli altri non sapevano: a Yang Guangyi piaceva sorridere, e i suoi sorrisi ti coglievano sempre alla sprovvista.
“In tutti questi anni è stata dura per il tuo papà”, proseguì, “e anche per me, del resto ognuno ha le sue grane. Fammi vedere la mano”.
Gliela porsi e lui mi tastò prima le dita, poi le spalle: “Bene”, disse alla fine, non ho molto tempo, non posso aspettare il tuo papà ma posso insegnarti una tecnica col pugnale, così almeno non sarò venuto fin qui per niente”. Con queste parole estrasse dalla giacca un coltello ricurvo: era più piccolo di quel che mi ero immaginato, poco più lungo di una spanna, ma non appena roteò la mano i coltelli diventarono due.
“Sono due!”, esclamai.
“Già”, rispose, “è un pugnale doppio: la lama di sinistra si chiama ‘stretta’, quella di destra ‘larga’, e infatti è un pugnale ‘largo-stretto’. Non è difficile da usare, se te lo spiego capirai al volo. Ormai non mi servono più due pugnali, uno lo lascio a te”.
Invece di prenderlo, rimasi a guardarlo negli occhi: aveva un viso sorridente, il ritratto della purezza. “Non voglio imparare”, dissi.
“Non vuoi imparare?”.
“No, non voglio”.
“E perché?”.
“Domani devo andare a scuola, ho lezione tutto il giorno e devo andare a letto presto”.
“Ma lo sai quanta gente…”, attaccò lui.
“Sì”, tagliai corto, “ma non voglio imparare un bel niente. E comunque prima ti ho fregato perché qui ho un’altra mela, te la puoi portare via”. Sfilai una mela da sotto un lato del cuscino e gliela misi in mano. Nel prenderla restò come assorto nei suoi pensieri, ma dopo qualche istante annuì e ripose il pugnale sotto la giacca.
“Ecco”, disse, “mi sono guadagnato la salvezza eterna. Ma tu sei ancora piccolo, non puoi capire”.
“Domani in classe devo passare il mocio”, spiegai, “poi devo consegnare ai compagni i compiti per la lezione di studio individuale della mattina”.
“Bene, allora io qui ho finito, siamo a posto?”.
“Siamo a posto, non dirò niente al papà”.
“Mi fido di te”, disse ancora. “Se in qualunque momento ti viene voglia di cercarmi, non devi far altro che prendere una mela e lasciarla sotto la zampa del leone di pietra all’ingresso est del parco Beiling, così ci facciamo quattro chiacchiere”.
“Me ne ricorderò”, dissi. Mi sorrise di nuovo, girò i tacchi e se ne andò. Guardai fuori dalla finestra, ma non lo vidi più.
In tutti questi anni, di mele ne ho mangiate parecchie. A dirla tutta, le mele sono il mio frutto preferito. E non ne ho mai sprecata una. ◆
**shuang xuetao **
è nato nel 1983 a Shenyang, nella provincia nordorientale del Liaoning. Autore di romanzi e racconti, è considerato uno dei più promettenti scrittori della Cina contemporanea. Il titolo originale di questo racconto è Yang Guangyi (Yang Guangyi). La traduzione è di Paolo Magagnin.
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Questo articolo è uscito sul numero 1390 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati