Si stima che sui fondali dell’oceano Pacifico ci siano 3.800 relitti. Una buona parte risale alla seconda guerra mondiale, ma nell’ultimo decennio si sono incagliate in media 73 navi all’anno, per un totale di cento tonnellate. Molte di queste navi sono state abbandonate a causa dei costi esorbitanti che comporterebbe spostarle, soprattutto quando si trovano in località remote.
L’impatto di questi relitti sulle comunità locali e sull’ambiente può essere devastante, e ai paesi del Pacifico serve un meccanismo comune per gestire i naufragi appena si verificano. Negli ultimi mesi alcuni incidenti nella regione hanno fatto notizia. A ottobre la nave militare neozelandese Hmnzs Manawanui ha urtato la barriera corallina ed è affondata nei pressi di Tafitoala, alle isole Samoa. Il governo di Wellington sta estraendo il gasolio dalla nave e dovrebbe rimuovere tutti gli equipaggiamenti, le armi, le munizioni e gli altri rifiuti. La Nuova Zelanda ha anche promesso una valutazione delle conseguenze per la barriera corallina. Si teme che il relitto possa avere un impatto duraturo sul sostentamento delle comunità locali, molte delle quali stanno chiedendo indennizzi non potendo più pescare in sicurezza nelle acque intorno alle loro abitazioni.
La Manawanui è un caso eccezionale che coinvolge una nave di proprietà di un governo, ma la maggior parte dei naufragi riguarda navi private e questo comporta risposte lente, lunghe battaglie legali e l’abbandono del relitto. Sei anni dopo la grave perdita di petrolio avvenuta nel 2019 nella baia di Kangava, nelle isole Salomone, le comunità locali stanno chiedendo dei risarcimenti per i danni riportati dal sito, il più grande atollo corallino emerso al mondo, dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Non ci sono relitti, ma il danno ambientale e i timori sulla sicurezza alimentare restano.
In altri casi i relitti non sono mai stati rimossi. Nell’aprile del 2000 la nave da crociera tedesca World Discoverer, con a bordo 112 passeggeri e ottanta persone di equipaggio, ha colpito uno scoglio nell’area del Sandfly passage, alle isole Salomone. Per impedire il completo affondamento della nave, il capitano aveva deciso di farla arenare nella baia di Roderick. Da 25 anni il villaggio più vicino è alle prese con le conseguenze del disastro. I serbatoi della nave sono stati svuotati ma il carburante continua a disperdersi intorno al relitto e negli ultimi anni la situazione è peggiorata. I coralli intorno alla nave sono quasi tutti morti. Nonostante i rischi per la salute, gli abitanti del villaggio vivono del pescato locale. Il governo delle Salomone non è in grado di pagare per la rimozione e l’azienda proprietaria del relitto non è obbligata a fare nulla.
La sfida per il futuro sarà impedire il ripetersi di situazioni simili. Una possibilità è data dal rafforzamento degli accordi internazionali. La convenzione di Nairobi sulla rimozione dei relitti offre le basi legali perché quelli nelle zone economiche esclusive (zee) degli stati firmatari siano rimossi, se presentano un rischio per la navigazione o l’ambiente. La convenzione, entrata in vigore nel 2015, è riconosciuta da settanta paesi e copre il 79 per cento della navigazione mercantile globale (per tonnellaggio).
In base alla convenzione, i proprietari delle navi e i loro assicuratori hanno la responsabilità finanziaria e legale di localizzare, segnare e smaltire le navi affondate o arenate. Sono inoltre responsabili del recupero dei container finiti fuori bordo e sono perseguibili penalmente se non fanno nulla. Le isole Cook, le Marshall, Niue, Palau, Tonga e Tuvalu sono i primi firmatari del documento. Nauru è entrata nel 2020. L’Australia non ha ancora aderito, ma potrebbe farlo presto. Nel 2018 le isole Salomone hanno avviato l’iter per adeguare le leggi nazionali in vista dell’adesione. Le Fiji, Kiribati, la Micronesia, la Nuova Zelanda, la Papua Nuova Guinea, le Samoa e Vanuatu non hanno ancora firmato. Per la regione del Pacifico questa dovrebbe essere una priorità, viste le vulnerabilità e le sfide derivanti dal mantenere zone economiche esclusive così estese.
Negli ultimi anni ci sono stati tre incidenti all’interno della zee australiana che avrebbero potuto essere coperti dalla convenzione. Nel 2018 la Ym Efficiency, battente bandiera liberiana, ha perso 81 container a trenta chilometri dalla costa australiana. Il loro recupero costerà a Canberra quasi venti milioni di dollari, e per chiamare il proprietario alle sue responsabilità e risarcire la spesa il governo australiano ha dovuto rivolgersi a un tribunale. Nel 2020 la Apl England, battente bandiera di Singapore, ha perso cinquanta container e il governo australiano ha ottenuto 22 milioni di dollari di risarcimento. Lo stesso anno la liberiana Navios Unite ha perso tre container subito affondati e il governo di Canberra ha dovuto coprire i costi della ricerca aerea su una superficie di 1.600 chilometri quadrati.
Più tutele
La convenzione di Nairobi non si occupa delle migliaia di relitti oggi sparsi negli oceani, e questo vuol dire che non rappresenta una minaccia ai siti considerati patrimonio sottomarino, come quelli di naufragi storici. Offre però un meccanismo per affrontare futuri incidenti. La crescente variabilità del clima, soprattutto nel Pacifico, è motivo di preoccupazione. Nel 2020 una nave giapponese ha perso 1.861 container a nordovest delle Hawaii e nel 2021 due navi danesi hanno perso rispettivamente 750 e 260 container a nordest dell’arcipelago statunitense. L’aumento del volume delle merci trasportate via nave e modelli meteorologici sempre più incostanti hanno contribuito ulteriormente al rischio di naufragi nella regione. I 22 paesi insulari e territori del Pacifico noti come “Continente blu” gestiscono il 20 per cento delle zone economiche esclusive di tutto il mondo, che sommato alle aree gestite da Australia e Nuova Zelanda diventa il 30 per cento del totale per una regione che ospita meno dell’1 per cento della popolazione globale.
È necessaria una maggiore protezione per tutelare gli oceani e garantire a stati e comunità l’accesso a procedure adeguate per far sì che i relitti siano rimossi senza addossarne il carico finanziario a paesi piccoli con risorse limitate. L’adesione di più paesi alla convenzione aiuterebbe a risparmiare milioni di dollari e proteggerebbe le piccole comunità da esperienze come quella della baia di Roderick. ◆ gim
Questo articolo è uscito su The Interpreter, sito d’informazione del Lowy Institute.
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Questo articolo è uscito sul numero 1616 di Internazionale, a pagina 37. Compra questo numero | Abbonati