Ho tanta fame. Prima d’ora non sapevo cosa significassero queste parole. Portano con sé un’umiliazione che non riesco a descrivere. Ogni mattina ci svegliamo pensando a come trovare da mangiare. Il mio pensiero va subito a mia madre, che si è operata e ha bisogno di nutrirsi per riprendersi. Poi ci sono i miei nipotini – Rital, di sei anni, e Adam, di quattro – che chiedono sempre il pane. Noi adulti cerchiamo di resistere alla fame per conservare gli avanzi per i bambini e gli anziani.

Da quando Israele ha imposto un blocco totale su Gaza all’inizio di marzo, non mangiamo carne né uova né pesce. Siamo rimasti senza quasi l’80 per cento degli alimenti che consumavamo di solito. Il nostro corpo si sta rompendo. Ci sentiamo sempre deboli, con la mente confusa e agitata. Ci irritiamo facilmente, ma il più delle volte restiamo in silenzio. Parlare consuma troppa energia. Cerchiamo di comprare quello che è disponibile nei mercati, ma i prezzi stanno diventando impossibili. Sopravviviamo con un solo pasto al giorno: di solito pane fatto con la farina che riusciamo a trovare. Usciamo raramente di casa, per paura che le nostre gambe possano cedere.

Nel campo dove vivo ho capito la vera crudeltà di questo genocidio: il soffocante sovraffollamento, la massa di sfollati e le infinite storie di fame. Mi capita spesso di stare sulla porta di casa a osservare i bambini. Trascorrono la maggior parte del tempo seduti per terra, con lo sguardo assente sui passanti. Ho solo trent’anni, ma non sono più la donna energica di una volta. Da un mese fatico a seguire le notizie. Non riesco a concentrarmi, il mio corpo non regge. Non riusciamo a fare le cose più elementari che le persone di tutto il mondo fanno ogni giorno. La fame ci ha privato di tutto. ◆ fg

Ruwaida Amer è una giornalista freelance di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza.

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Questo articolo è uscito sul numero 1624 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati