Per milioni di persone era l’ustad, il maestro. Per altri era il Budda cantante o il Pavarotti dell’est. Nei club londinesi i suoi campionamenti erano i più psichedelici mai ascoltati, e per Jeff Buckley (che in concerto cantava cover delle sue canzoni) era Elvis. Per gli indiani, come il compositore A.R. Rahman (che incise con lui un pezzo pop intitolato Gurus of peace), era un uomo che aveva attraversato le fratture più dolorose della storia.
Il cantante pachistano Nusrat Fateh Ali Khan, morto nel 1997 a quarantotto anni, è stato e resta il più famoso interprete al mondo del qawwali, una musica devozionale islamica nata nel tredicesimo secolo e suonata in varie parti dell’Asia meridionale, convenzionalmente nei santuari sufi. Nella sua essenza, il sufismo è una variante mistica del credo e della pratica islamica che esalta il rapporto diretto con dio tramite l’idea dell’amore sacro. Il qawwali tradizionale (il nome deriva da una parola araba che significa “enunciazione”) prevede un cantante solista o una coppia di cantanti, sempre maschi; un coro doppia le frasi dei solisti, costruisce le armonie e accompagna le molte ondulazioni vocali con un battito delle mani ritmico e ipnotico. Oggi il qawwali viene quasi sempre eseguito con l’accompagnamento di un harmonium e di una tabla, che anticipano e seguono le improvvisazioni dei cantanti. Grandi folle si radunano per i concerti, che a volte durano tutta la notte.
Il cantante pachistano Nusrat Fateh Ali Khan è morto nel 1997 a quarantotto anni. Per milioni di persone era il maestro, il Budda cantante o il Pavarotti dell’est
I testi – tipicamente in lingua urdu, punjabi e farsi – sono tratti dalla poesia regionale sufi e si rivolgono a dio con estatiche dichiarazioni d’amore. A volte possono essere di un’intimità disarmante: il cantante si cala nel personaggio di un’amante che flirta con un amato maschio, rappresentazione dell’essere supremo: “Vieni, amore mio, lasciati ammirare. Non guarderò un altro né ti permetterò di farlo”.
Ma non sono semplicemente le parole ad avvicinare a dio: è la loro ripetizione. In una composizione archetipica, Allah, Muhammad, char yaar (Allah, Maometto e i loro quattro compagni), Nusrat – come viene chiamato affettuosamente dal pubblico anglofono – mescola continuamente frasi con i nomi di dio e dei suoi fedeli servitori. Il coro imita questi suoni a volume sempre più alto, mentre le parole cominciano a cambiare struttura, trasformandosi nel sedimento punteggiato di un’eco di pioggia che diventa insistente poi, quando il ritmo aumenta, di cavalli sfrenati che galoppano in un campo aperto. Infine la voce esplode in una miriade di sillabe euforiche rivolte al cielo.
Uno dei miei primi ricordi è di aver sentito Nusrat in concerto con i miei genitori a New Delhi, durante il suo tour indiano del 1996. Mi ricordo che ero seduta sulle spalle di mio padre, che ondeggiava in maniera quasi incontrollata mentre la voce di Nusrat cresceva sempre più acuta e ampia, come se volesse squarciare il cielo. Nel qawwali il pubblico è invitato a partecipare al sama, una pratica sufi che cerca una connessione stretta con il divino attraverso la musica e la danza. Apprezzare il qawwali non vuol dire solo ammirare l’agilità vocale dei suoi interpreti, ma rinunciare al proprio corpo e abbandonarsi a un luogo al di là del linguaggio.
Nusrat ha perfezionato questa forma. La devozione dei suoi monaci non deve essere sottovalutata. Quando era in vita, e anche dopo, la sua musica ha trovato ammiratori di ogni estrazione – dagli appassionati di danza di Bollywood agli hippy europei ai pii ascoltatori di formazione classica dell’Asia meridionale – che sembrano fare di lui un oggetto di culto. In tutti i casi, che capiscano i testi o no, che credano in dio o no, si ritrovano inspiegabilmente, spiritualmente commossi.
Nusrat è nato nel 1948 a Lyallpur (oggi Faisalabad), in Pakistan, da una famiglia di cantanti tradizionali che avevano coltivato la loro arte per generazioni. Suo padre, Fateh Ali Khan, conosceva bene la musica classica e il qawwali devozionale, una combinazione che influenzò lo stile di canto di Nusrat. Usava liberamente dei riff improvvisati chiamati sargam e alternava la poesia a forme classiche come il tarana, un arrangiamento sillabico allo scat, una tecnica vocale jazz che prevede solo note senza parole.
Fateh Ali Khan sperava che il figlio abbandonasse la tradizione e si dedicasse a una carriera più redditizia e socialmente rispettabile nella medicina, ma Nusrat era fermamente determinato a portare avanti l’arte di famiglia. Fece il suo debutto nel 1964 alla cerimonia funebre del padre, quando aveva sedici anni. Pochi giorni dopo, sognò che lui lo portava ad Ajmer Sharif, uno dei più sacri santuari sufi nel subcontinente indiano, e gli ordinava di cantare. Nusrat si è svegliato a metà della canzone. Fino a quel momento, avrebbe raccontato in seguito, non aveva capito veramente cosa fosse il canto.
Dopo la morte del padre, continuò a esibirsi con i suoi zii, Salamat Ali Khan e Mubarak Ali Khan, diventando il leader del gruppo di famiglia nel 1971. Cominciò ad aggiungere il suo tocco personale alle composizioni tradizionali, velocizzandole un po’ per adeguarle ai gusti contemporanei. Un’altra innovazione fu abbinare motivi folk più leggeri alle severe strutture classiche. Alcuni trovavano in questi versi più giocosi una strada verso dio, diceva Nusrat.
Alla fine degli anni settanta la musica di Nusrat ha raggiunto la diaspora indiana a Birmingham, nel Regno Unito. La Oriental Star Agencies – una piccola casa discografica impegnata a promuovere la musica dell’Asia del sud – pubblicò i suoi primi album all’estero, facendolo diventare una star tra i pachistani, gli indiani e le comunità di emigrati. Nel 1981 Nusrat fece la sua prima incursione a Bollywood scrivendo un brano, Haq Ali (La verità è Ali), per il film Nakhuda, incentrato sul rapporto tra il proprietario musulmano di un motel e il suo inquilino indù. Questa lode ondeggiante e meditativa ad Ali (una figura venerata nell’islam) era lontanissima dalle vivaci canzoni bollywoodiane che avrebbero poi caratterizzato la sua carriera.
Alcuni anni dopo che la Oriental Star aveva scoperto Nusrat, Peter Gabriel – che era stato il cantante dei Genesis – si accorse del suo talento. Nel 1985 lo invitò a suonare al World of music, arts and dance festival (Womad), sulla costa orientale dell’Inghilterra. Nusrat aprì il concerto con un’invocazione, Allah hoo. Per diversi minuti intonò una serie di lente e acute dichiarazioni di lode a dio mentre il suo accompagnatore vocale accentava la melodia con registri più alti e più bassi. La voce di Nusrat continuava a salire di registro, trasformandosi quasi in un grido, per poi abbassarsi di tono in una salmodia: “Allah hoo hoo hoo, Allah hoo hoo hoo”. Entrarono l’harmonium e la tabla, e il coro si unì battendo le mani. Alla fine, queste invocazioni di giubilo lasciarono nell’aria un senso di vertigine, e la voce apparentemente infinita di Nusrat continuò ad aleggiare anche dopo che aveva smesso di cantare.
Era la prima volta che un pubblico occidentale ascoltava il qawwali. Molti presenti non erano in grado di capire il messaggio spirituale dei testi, ma rimasero incantati. Per tutta l’esibizione, durata due ore e mezzo, il pubblico gridò e fischiò, chiaramente sopraffatto. Anche per Nusrat fu una rivelazione. Aveva trovato un nuovo mondo di ascoltatori.
Nusrat ha prodotto sei album in studio con l’etichetta di Gabriel, la Real World. I primi due sono Shahen-shah (1989) e Mustt mustt (1990). Quest’ultimo, realizzato in collaborazione con il musicista sperimentale canadese Michael Brook, include una versione remixata del brano che dà il titolo – una lode tradizionale al santo sindhi Lal Shahbaz Qalandar – fatta dal gruppo trip-hop britannico Massive Attack. Dopo la morte di Nusrat, la Real World ha pubblicato altri tre dischi della sua musica.
In Shahen-shah, Nusrat canta come avrebbe cantato in un concerto dal vivo, alternandosi con i suoi accompagnatori tra strofa e ritornello. A partire dal secondo album abbraccia i toni caldi del basso elettrico e si lancia in una serie di lunghe invocazioni senza parole mentre sullo sfondo il coro intona insistentemente una poesia. Nel remix finale dei Massive Attack Nusrat porta sulla pista da ballo un canto che in un santuario avrebbe provocato un raptus di estasi divina. Evidentemente, aveva cominciato ad apprezzare sia i suoni provenienti da altre culture sia le possibilità tecnologiche della registrazione. Anni dopo, Gabriel ha detto che, a differenza della maggior parte degli interpreti di musica devozionale dell’epoca, Nusrat era “disposto a provare qualunque cosa con chiunque mostrasse entusiasmo”.
Portando il qawwali fuori dall’Asia meridionale e facendolo entrare negli studi di registrazione occidentali all’avanguardia, Nusrat lo ha riconfezionato per un pubblico non tradizionale. Ha sfoltito composizioni che tradizionalmente venivano improvvisate per più di un’ora riducendole a una durata massima di venticinque minuti. È diventato anche un musicista più avventuroso, cercando nuove forme per la sua arte, dalla fusion al cinema. Dietro le quinte ascoltava musica classica occidentale ed era un appassionato di jazz. “È un po’ come la nostra musica”, diceva. “Non l’hanno scritta, l’hanno suonata con l’anima”.
Nel 1988 collaborò di nuovo con Gabriel cantando uno struggente alap – un movimento introduttivo lento, senza parole – per il film L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese. Poi, nel 1994, compose la colonna sonora di Bandit queen di Shekhar Kapur: è un mix eclettico di distorsioni della voce di Nusrat, esposizioni aritmiche di tabla e arrangiamenti orchestrali astratti.
L’anno seguente, realizzò quella che è forse la sua opera per il cinema più memorabile, un paio di lamenti cantati in coppia con Eddie Vedder, il cantante dei Pearl Jam, per Dead man walking di Tim Robbins con Sean Penn e Susan Sarandon. In The long road, Vedder canta di due amanti che si separano con la sua caratteristica voce ispida, mentre una chitarra acustica, un harmonium e una tabla tengono delicatamente il tempo. Poi, senza preavviso, entra Nusrat con il suo canto penetrante. La sua voce si muove lentamente, si avvolge e s’incurva, e l’effetto è allo stesso tempo romantico e doloroso.
Anche quando era più vicino a casa, Nusrat non smise di sfidare la definizione di cos’è un cantante qawwali. Nel 1996, lo stesso anno del suo tour in India, ha registrato un album in collaborazione con il poeta e paroliere indiano Javed Akhtar. Insieme, i due produssero la colossale hit Afreen afreen (Lode al creatore!), che conserva alcuni elementi dello stile più ortodosso di Nusrat, come raffiche vocali in chiavi classiche e canti corali ricorrenti. Ma se questa canzone decisamente pop è diventata un tormentone è soprattutto perché la sua melodia vellutata cavalca un contagioso groove elettronico tipico della Bollywood di fine anni novanta.
Il video che accompagnava il brano era sorprendentemente spinto per un cantante di musica religiosa. Inquadrature di Nusrat che canta dietro un velo di fuoco si alternano a sequenze di donne in bikini e sarong che si dimenano seducenti in mezzo alle sabbie del deserto. Anche se poi lo stesso Nusrat lo avrebbe criticato, il video era la dimostrazione che lui non aveva paura di allontanarsi dalle forme musicali consolidate. In un’intervista del 1996, rimuginando con Jeff Buckley sulle differenze tra la sua musica e quella di suo padre, Nusrat disse: “Come cambiano i tempi, cambiano le persone e i loro gusti, perciò provo a capire cosa vuole il pubblico, cosa richiede. Ho provato a rendere la musica un po’ più facile da capire”.
Non tutti ne erano entusiasti. Man mano che Nusrat si avvicinava al rock, al pop e a Bollywood, i vecchi fan asiatici lo accusavano di arruffianarsi il pubblico occidentale e commerciale. Dicevano che il rigore e la pietà degli spettacoli qawwali, che duravano per una notte intera, erano stati barattati con la facile seduzione e la concisione dei singoli radiofonici. Pur ammettendo di suonare in modo diverso per chi non veniva dalla sua terra, Nusrat sosteneva che la sua musica non si era mai allontanata troppo dal qawwali e dai princìpi sufi di amore e pace. In concerto, diceva, si atteneva sempre alla successione religiosa delle canzoni, lasciando intendere che i suoi esperimenti in sala di registrazione erano diversi dalla pratica tradizionale del qawwali.
Nel 1994, quando Allah, Muhammad, char yaar fu usata nel film Assassini nati – N atural born killers durante la scena di una rivolta in carcere, si arrabbiò perché la sua “musica religiosa” era stata sfruttata per rappresentare la violenza. Con una congregazione che si estendeva da Lahore a Los Angeles, la chiesa di Nusrat era ormai una realtà consolidata, ma lo erano anche i termini del dibattito culturale sul suo significato.
Già prima di morire, Nusrat aveva vari problemi di salute. Soffriva di diabete, pesava quasi 140 chili e aveva bisogno di continue dialisi per permettere al suo fisico di reggere. Stava andando a Los Angeles per un trapianto di rene, ma si sentì male e si fermò a Londra. Morì una settimana dopo, in ospedale. Dicono che aveva lavorato instancabilmente fino all’ultimo. Mentre in tutto il mondo fioccavano necrologi e omaggi, un giovane regista pachistano di nome Farjad Nabi – che anni dopo, nel 2013, avrebbe girato la bizzarra e apprezzata commedia Zinda bhaag – decise di fare il bastian contrario. Girò il suo primo cortometraggio, Nusrat has left the building… but when? (Nusrat ha lasciato il palazzo… ma quando?), un docu -drama stravagante che criticava in modo esplicito e senza mezze misure la carriera del musicista. Sulla custodia del dvd si legge:
Il film si distacca dalla versione popolare di Nusrat e riparte dalle sue radici nella pura musica sufi, prima e dopo la sua esplosione sulla scena internazionale. La metamorfosi di Nusrat da artista autentico e popolare a fenomeno esotico orientale per le masse ha lasciato delusi molti suoi ascoltatori e seguaci. Forse per la prima volta questo film dà voce all’altro lato della medaglia.
Nusrat has left the building racconta la storia di un giovane pittore ansioso che vive in un appartamento fatiscente dove pratica la sua arte (il disegno, con un’infarinatura di musica). All’inizio lo troviamo senza camicia che beve pensieroso una tazza di chai. Poi lo seguiamo mentre vaga per le strade di Lahore, guardando la città. Mentre la cinepresa cerca di orientarsi nel labirinto di vicoli tra muri fitti di mattoni nudi, si sofferma di tanto in tanto sugli abitanti: venditori di frutta, bambini, coppie, la calca del mercato. Alcuni dei più famosi qawwali di Nusrat suonano sullo sfondo di tutte queste immagini, come a suggerire che le persone comuni sono i conoscitori più autentici della sua musica: la colonna sonora parte quando un tassista infila una cassetta di Nusrat nel mangianastri dell’auto. Nel suo girovagare, l’agitato protagonista dipinge un ritratto di Nusrat su un muro sotto la scritta “NON SONO PERMESSI GRAFFITI”.
Il climax arriva con una sequenza in stop-motion basata su uno schizzo a matita di Nusrat che si esibisce davanti a una folla di pachistani. Mentre lui è seduto a gambe incrociate e canta, la scena del concerto svanisce e Nusrat comincia a contorcersi per il dolore. Parte la polemica: una sequenza d’immagini sgargianti – soprattutto frammenti dei video musicali di Nusrat in stile Bollywood – che mostrano donne in abiti succinti dalle espressioni trite e giovani zotici con occhiali da sole neri. Mentre sullo schermo passano spezzoni di Nusrat che suona la chitarra elettrica e le tastiere in luccicanti studi televisivi, Nabi inserisce inquadrature chiassose di artisti del circo bianchi. È difficile non cogliere il messaggio.
Forse c’è un po’ di vero nell’accusa che Nusrat si sia venduto. Nel 1996 Mustt mustt fu usata per una pubblicità indiana della Coca-Cola per la coppa del mondo di cricket, che quell’anno si svolgeva in Asia meridionale. All’epoca l’economia indiana era in una fase di forte liberalizzazione, e molti sindacati e partiti politici, soprattutto di sinistra, vedevano nelle multinazionali straniere una minaccia all’indipendenza economica. Già da tempo i fan più irriducibili pensavano che Nusrat avesse annacquato la sua musica. Adesso sembrava addirittura che si fosse messo al servizio del capitalismo occidentale.
Quello che il film di Nabi non coglie, però, è che Nusrat non è mai stato un santo, anche se è venerato come tale. Nella sua carriera si è cimentato con ogni tipo di progetto musicale, dagli album funk ai singoli per Mtv, reiventandosi continuamente. A volte lo scopo era dichiaratamente quello di mettere alla prova la sua maestria, altre volte ha ceduto a un mercato che lo stava spremendo, altre ancora ha cercato semplicemente di fare un po’ di soldi. A ogni reinvenzione si è attirato dei critici, ma ha anche conquistato nuovi ascoltatori che lo hanno celebrato, anche dopo la sua morte.
Nel giugno 2021, ventiquattro anni dopo la morte di Nusrat, un dirigente della Real World ha cominciato a curiosare tra gli archivi dell’etichetta. Tra le cataste di materiali ha trovato un nastro con la scritta: “Nusrat Fateh Ali Khan – Trad album”, probabilmente una raccolta di brani tradizionali. Ha capito subito che non era una scoperta qualunque.
La sua intuizione è stata presto confermata: era materiale nuovo di Nusrat, un’aggiunta inedita al centinaio di dischi che aveva pubblicato. Alla Real World hanno proceduto con cautela, chiamando degli esperti per restaurare il nastro prima di riprodurlo. Quando finalmente sono riusciti ad ascoltarlo, si sono accorti che era magnifico: quattro tracce immacolate registrate nel 1990, ognuna un’invocazione e una resa a dio. Cosa ancora più sorprendente, visto che proprio alla Real World Nusrat aveva cominciato ad allontanarsi dal suo suono tradizionale, gli arrangiamenti comprendono solo gli elementi fondamentali: Nusrat, le voci di accompagnamento, un harmonium, una tabla e il battito delle mani.
Nel 2024 la Real World ha pubblicato l’album con il titolo Chain of light. Il disco ci riporta al momento in cui Nusrat stava per diventare un fenomeno capace di sfidare le convenzioni dei generi nel mondo occidentale e le sue abilità vocali erano al culmine. Il primo brano, Ya Allah ya rehman (Oh Allah, gentilissimo), è una hamd, la preghiera a dio con cui comincia ogni performance di qawwali. Partendo da una dolce intonazione, Nusrat introduce progressivamente una serie di quartine che professano una fede incrollabile in Allah. Tra una quartina e l’altra, la sua voce e quelle che lo accompagnano si lanciano in digressioni sempre più complesse. Alla fine sembra che la sua voce sia diventata due volte più grande. Si libra senza sforzo, chiamando “Allah, Allah, Allah”: la disperazione è schiacciante.
Poi cambia completamente registro. La seconda traccia, la composizione punjabi Aaj sik mitran di (Oggi, questo desiderio della mia amata), parla dello struggimento per un amore terreno che ha il volto di luna e i capelli neri. Il ritmo è più lento, e le linee vocali si snodano languide mentre la voce che recita il testo medita sulla sua tristezza. Poi arriva una rivelazione: l’amata sfuggente di questi versi non è altri che Maometto in persona. E così dev’essere. Nel repertorio tradizionale qawwali una hamd ad Allah è sempre seguita da un naat, un tributo al suo profeta.
La traccia finale, Khabram raseed imshab (Stasera ho ricevuto notizie) è un civettuolo ghazal farsi (una forma poetica che ha origine nella tradizione araba) del poeta del tredicesimo secolo Amir Khusrau, che è considerato uno dei padri del qawwali. Ma la vera perla è la penultima traccia, Ya gaus ya meeran (Oh alleato, oh eccelso), una canzone urdu in lode del predicatore sufi del dodicesimo secolo Abdul Qadir Gilani, vissuto a Baghdad. Si sapeva che Nusrat aveva cantato gli altri tre pezzi in varie occasioni, ma quella in Chain of light è l’unica esecuzione nota di questa composizione originale.
Anche per i cultori più appassionati di Nusrat, il brano è sorprendente per il suo tono cupo e le sue svolte melodiche imprevedibili. Durante la registrazione la voce fa una serie di salti agili e incredibilmente difficili, da una salmodia grave e quasi distorta a una supplica a pieni polmoni. I cambi di ritmo sono altrettanto intricati. Da un ciclo regolare di sedici battute, la canzone passa a una vivace sequenza di sei battute, per poi ricominciare da capo. Poi, mentre l’incanto cresce verso il climax, il ritmo cambia ancora, stavolta passando a un ciclo veloce e sostenuto che spinge il canto in maniera quasi compulsiva finché non si arresta, raccogliendosi in un’unica, terrificante nota bassa.
Il titolo dell’album deriva dal testo di un inno: “Ogni respiro è collegato come in una catena di luce”. La parola “catena” qui si riferisce a come la fede di ciascuno è legata ai santi e ai maestri che sono venuti prima. “Ringrazio cento volte”, canta Nusrat, “perché il mio legame con loro è eterno”. Lette in un’altra maniera, queste parole potrebbero essere anche le nostre quando riscopriamo Nusrat decenni dopo che ha lasciato questo mondo.
Due inverni fa, più di due anni dopo la morte di mio padre, stavo rovistando tra i detriti della sua vita. Tra le sue vecchie tele e calendari scaduti da decenni, ho trovato un dvd con la scritta Aarzoo-e-mohabbat (un desiderio d’amore), che è una canzone di Nusrat. Era il titolo che mio padre aveva dato a un cortometraggio un po’ pacchiano – e narrativamente disordinato – che aveva girato nel 1999, quando era un giovane artista alle prime armi. È una specie di pot-pourri di recitazioni indulgenti di poesie sinistrorse in hindi e varie impressioni della vita di strada di Mumbai, sostenuto per quasi tutti i diciassette minuti dalla voce di Nusrat. A un certo punto, l’attore Irrfan Khan (che anni dopo avrebbe raggiunto la fama internazionale con Il destino nel nome) compare nel ruolo di un artista tormentato che dipinge un grande ritratto di Nusrat e poi ci si stende accanto.
Nonostante i molti movimenti scomposti e le incredibili assonanze con il film di Farjad Nabi, lo strano progetto di mio padre sembrava, più che ogni altra cosa, una lettera d’amore a Nusrat, a cui si rivolgeva come a “un amico che viene dal Pakistan”. Completato durante l’ultima grande guerra tra India e Pakistan, mostra una serie di biglietti scritti a mano in hindi e in inglese indirizzati a lui dai suoi fan indiani: “Vivrai per sempre nei nostri cuori… ovunque, in tutto il mondo… Lunga vita a Nusrat!”.
Poco dopo, la macchina da presa si sofferma su una raccolta di ritagli di giornale, dove i titoli sul conflitto militare in corso si mescolano ai necrologi di Nusrat. Mentre passiamo in rassegna notizie di sparatorie e soldati uccisi, si sente pulsare in sottofondo una versione di Teri yaad (Mi ricordo di te), un brano al sintetizzatore dal sapore disco tratto dal thriller bollywoodiano Kartoos (1999). Più tardi, la canzone centrale del film Tumhe dillagi bhool jani padegi (Devi dimenticare le tue scappatelle) fa da sottofondo a un montaggio d’innamorati che si sbaciucchiano, artisti di strada, bambini e persone senza fissa dimora. Nell’intento più ampio dei film, il testo – “Perché non dai il tuo cuore a qualcuno e stai a guardare cosa succede?” – sembra istruire indiani e pachistani a guardare oltre i confini che separano i loro paesi. Nusrat, di fatto, diventa un messaggero contro la guerra.
“La nostra musica sufi è un ponte verso le altre nazioni”, ha detto una volta Nusrat. “È un modo per avvicinare le persone nell’amore e nella fratellanza”. È giusto ricordare questa versione di lui ora che l’India e il Pakistan si ritrovano all’inizio di un altro cessate il fuoco durante il quale, tra i numerosi dispetti diplomatici, l’India ha oscurato la pagina Spotify di Nusrat insieme a quelle di vari altri artisti pachistani. Ma se Nusrat deve rimanere il nostro santo patrono, forse accettare i suoi passi falsi insieme ai suoi trionfi ci aiuterebbe a trovare qualcosa di più di noi stessi nella sua voce. Lì ci sarà sempre spazio. ◆ fas
Poorna Swami è una scrittrice, traduttrice e coreografa di Bangalore, in India. Questo articolo è uscito sulla New York Review of Books con il titolo “Our Nusrat”.
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Questo articolo è uscito sul numero 1623 di Internazionale, a pagina 118. Compra questo numero | Abbonati