La stazione ferroviaria di Chișinău è tranquilla, la sera del Natale ortodosso. Gli unici rumori sono gli schiamazzi di qualche bambino e gli sbuffi emessi dal treno Chișinău–Kiev, dieci vagoni dipinti di blu e attraversati da una linea orizzontale gialla.
“Gentili passeggeri, prendete posto in carrozza. Al binario 3 è in partenza il treno Chișinău-Kiev”, grida dall’altoparlante una voce femminile.
Un paio di passeggeri seguiti da ingombranti valigie, con l’aria sperduta e due cagnolini profumati in braccio, salgono prima delle controllore, che presidiano come soldati ogni ingresso ai vagoni. Diritte, immobili e snelle, sono vestite come professoresse con gonne a tubino al ginocchio, giacche corte strette sui fianchi e torce abbaglianti in mano.
Le ruote cominciano a muoversi a scatti e le eleganti controllore, ancora in piedi sui gradini del vagone, si calano il colbacco sulla testa e illuminano con le torce l’ondeggiare del convoglio.
Il binario si svuota in un battito di ciglia, e rimane in attesa degli ultimi passeggeri della sera.
“L’ultimo e poi è finita. Passeggeri per Ungheni!”, annuncia una donna bionda con un giubbotto imbottito blu su cui è stampata la sigla Cfm (Calea ferată din Moldova, le ferrovie moldave). Attraversa due binari e saluta amichevolmente dei colleghi, anche loro operai delle ferrovie. Hanno preso posto su alcune panche di legno sulla piattaforma, accanto alle loro borse. In attesa dell’ultimo treno parlano anche loro di rincari esagerati e festeggiamenti eccessivi.
Il Chișinău–Ungheni è l’unico treno locale ancora in funzione nella Repubblica Moldova. Ogni sera parte da Chișinău alle 18.03 e arriva a Ungheni alle 21.17. E al mattino riparte da Ungheni alle 3.56 per essere alle 7.10 alla stazione della capitale. Effettua quindici fermate nei villaggi e nelle cittadine dei distretti di Strășeni, Călărași e Ungheni.
La stazione di Chișinău è illuminata a giorno. L’orologio segna ancora dieci minuti alle sei. I cestini, disposti secondo i colori della bandiera nazionale, sembrano aspettare che il caos sulla piattaforma si esaurisca per poter tirare di nuovo un sospiro di sollievo dopo aver incassato il peso di tutta la spazzatura della giornata.
Alcune donne infagottate, con borse stracolme in una mano e nell’altra bottiglie di plastica da tre litri vuote, escono dalla stazione. Si piazzano accanto alle panche marroni e chiacchierano dei turni di lavoro e dei giorni di ferie che gli sono stati concessi. Tutti sono raccolti in piccoli gruppi. Donne con donne e uomini con uomini. Giovani con giovani e famiglie con famiglie. I solitari stanno con il naso incollato al telefono.
Sul binario 3 arriva un treno con quattro vagoni. Una metà è dipinta di rosso, l’altra di giallo. La vernice è scrostata e in alcuni punti si è gonfiata, facendo somigliare il convoglio a un malato di peste bubbonica.
Sulle passerelle di legno che collegano i binari, il grasso denso e nero sta in agguato sotto le suole scivolose delle scarpe.
“Anche qui c’è catrame”, borbotta infastidita la prima donna che si avvicina al treno, dopo aver perso l’equilibrio per alcuni istanti.
Le circa trenta persone sul marciapiede la seguono come fosse Gesù. Poi si dividono in due file, come il mar Rosso al passaggio di Mosè. Una parte corre verso il primo vagone, l’altra verso l’ultimo. Al centro restano solo due donne, di quelle con le borse, un uomo alticcio e due ragazze.
L’altoparlante invita per l’ultima volta i passeggeri a salire sul treno Chișinău–Ungheni. Scricchiolando da ogni giuntura, il vecchio e arrugginito gigante si mette in moto ansimando. Si ha l’impressione che tra poco si sgretolerà sui binari.
Nel secondo vagone metà delle lampadine non funzionano. Anche negli altri è lo stesso. E quelle che ancora si accendono danno una luce fioca. Quanto basta per illuminare le panche fredde di legno e i finestrini sporchi, e dare l’impressione che l’interno sia ancora più sudicio di quanto è davvero. Le pareti verdi sono rivestite di plastica e i telai di legno delle finestre sono fissati con viti.
Fino all’ultimo centesimo
Se non fosse per le quindici fermate, il treno impiegherebbe circa due ore e mezza per arrivare a Ungheni. Ma con tutte le soste il percorso si allunga di altri quaranta minuti. In totale tre ore e dieci minuti. Tre ore e dieci minuti di freddo.
Le due donne con le borse si sono rannicchiate in un angolo della carrozza. Angela è di Bumbăta, nel distretto di Ungheni, e sembra più anziana di quello che è; Nastia è di Șipoteni, vicino a Călărași, e sembra più giovane. Entrambe lavorano per la Cfm. Si sono tirate giù le maniche fino a coprire le mani, hanno affondato il collo nelle giacche imbottite e sulle ginocchia hanno posato pesanti scialli di lana.
“Il primo e l’ultimo vagone sono riscaldati ma sono più rumorosi, quindi è meglio stare qui, al freddo”: così Nastia spiega perché hanno scelto il secondo vagone.
Le due donne non ce l’hanno solo con il freddo, ma anche con il ritardo di sei mesi nel pagamento dei loro stipendi. “Una cosa così non ci capitava da tempo. Non solo lo stipendio è basso, ma non ce lo pagano nemmeno. A un certo punto sembrava che la situazione si fosse stabilizzata, ma a quanto pare era una cosa passeggera”, sospira Angela.
Ricevono circa cinquemila lei, cioè 250 euro, per quindici giorni di pulizie e manutenzione in stazione. Nei villaggi non c’è lavoro, quindi si accontentano di questo salario miserabile. “Ci siamo abituate a questi pochi soldi, basta che ce li diano in tempo”, si lamentano le donne, anche se ammettono con un timido sorriso che vorrebbero guadagnare il doppio. “Andare altrove? La salute non ce lo permette, e gli anni non sono più quelli giusti per partire”, si giustificano le operaie della Cfm.
“Ci sono famiglie in cui tutti e due i genitori lavorano per la Cfm. Per loro è più dura”, si consola Angela paragonando i suoi problemi a quelli di altri ancora più sfortunati. Quando non arriva alla fine del mese, e le galline non fanno più le uova, prende qualche soldo in prestito dalla pensione della madre, che ha 84 anni. “Grazie a Dio è in salute. Mi vergogno a chiedere soldi alla mia età, ma non ho scelta. Mio marito è morto da due anni. Con la sua pensione d’invalidità e il mio stipendio potrei anche sopravvivere, se solo mi pagassero”, racconta Angela, che sembra più anziana dei suoi 52 anni.
Quando ricevono i soldi, le donne risparmiano su ogni cosa e mettono da parte tutto il possibile, racconta Nastia. Le bollette sono la priorità, per il cibo si affidano all’orto, dove crescono patate, pomodori e fagioli. “Ma bisogna comunque comprare un sacco di cose: riso, pasta, grano saraceno. Anche per arare, coltivare e seminare si deve pagare. Quindi risparmiamo leu su leu. Quando ci arriva lo stipendio, non lo spendiamo tutto”, continua la donna. I figli sono andati a lavorare in Europa, per avere una vita migliore e diversa dalla sua. Perché “qui non è più possibile stare”.
Per questi miseri salari, i lavoratori della Cfm fanno grandi sacrifici. Nastia si sveglia alle quattro del mattino da 18 anni. Alle 4.40 deve uscire di casa e camminare quaranta minuti per essere alla stazione di Sipoteni alle 5.20. “Chi vive in fondo al villaggio è costretto a farsi anche cinque chilometri a piedi. E deve svegliarsi alle tre”, spiega Nastia con il volto appoggiato sul petto. È distrutta dalla stanchezza. “Sembra una punizione divina. Nevica, piove, e noi non abbiamo scelta. Nulla è gratis, e con gli aumenti della luce e del riscaldamento le cose saranno ancora più difficili”, aggiunge Angela.
Anche lei si sveglia alle quattro, anche se ha solo dieci minuti a piedi da fare, perché il treno arriva alla stazione di Bumbăta alle 4:33. Deve attraversare la boscaglia fitta e selvatica che separa il villaggio dalla linea ferroviaria. “Ma non ho paura. Cioè, ho paura, ma mi affido a Dio. La sua forza è grande e si prende cura di tutti noi”, dice la donna, che da 28 anni fa la pendolare a giorni alterni: Chișinău–Bumbăta la sera e Bumbăta–Chișinău la mattina.
Il frastuono del ferro
Il rombo del treno spacca i timpani. La luce fioca stanca gli occhi. Il freddo devasta le ossa. Le persone sonnecchiano sui sedili.
Vicino a Ghidighici le porte del vagone si aprono ed entra Nelu, un uomo di circa cinquant’anni con un berretto calato sugli occhi e l’equipaggiamento da controllore. Chiede il biglietto a tutti i passeggeri. L’uomo alticcio annusa il pericolo e si avvia lentamente verso l’uscita. Nelu lo afferra da dietro, rimproverandolo bruscamente nel corridoio tra i vagoni, dove il vento ulula come un pazzo tra le lamiere logore. “Tira fuori i soldi, i lei. Tutto quello che hai lì in tasca, tira fuori tutto”, grida Nelu.
“Mi scusi, la prego”, risponde l’uomo, che porta una giacca di pelle e ha i capelli grigi, facendogli capire che non ha più soldi, nemmeno per il biglietto.
“È ubriaco, vero?”, chiede Nastia sospettosa.
“Scendi. Sparisci!”, urla ancora più forte Nelu.
L’uomo balbetta che deve arrivare fino a Călărași. Barcolla più dei vagoni, e quando in stazione il treno apre le porte rischia di cadere.
Nelu lo rimprovera in modo ancora più rude: “Fermo! Non è Călărași! Per poco questo non mi cascava dal treno. Torna nel vagone. Mi farai fare qualche sciocchezza!”.
Le donne osservano la scena sgomente. Tremano di paura perché temono che possa succedere una tragedia. I due uomini rientrano nel vagone e Nelu, non ancora soddisfatto, non smette di riprendere l’ubriaco. “Oggi è Natale, ma a Călărași scendi. Non ho nessuna intenzione d’inseguirti per buttarti giù dal treno”.
Poi tutto torna alla normalità: il freddo, il torpore, il cigolio e il frastuono del metallo.
Le ferraglie del treno ringhiano dalle viscere del convoglio. Sembrano litigare. Angela si è avvolta più stretta le gambe con la coperta di lana. Tenta di assopirsi con le mani raccolte in grembo, ma Nelu si siede accanto a loro, dopo aver controllato anche il primo vagone, dove si sono nascosti quasi tutti i passeggeri.
“La gente viaggia in treno perché è più economico. Per andare e tornare da Călărași invece dei cento lei del bus spendi tre volte meno”, dice per attaccare discorso con le due donne.
“L’uomo si abitua a tutto”, filosofeggia una delle dipendenti.
“A Natale c’è poca gente, ma ci sono giorni in cui si viaggia anche in piedi”, butta lì tra uno sbadiglio e l’altro Nastia, che segue la conversazione mezza addormentata.
“E io quest’anno mi ritrovo a lavorare solo durante le feste”, si lamenta Nelu.
“Da bambino però hai mangiato abbastanza, mi pare…”, ridono le donne.
“Eh, lasciate perdere”, borbotta l’uomo davanti alla loro battuta.
Poi Nelu racconta che si è comprato un appartamento a Chișinău con i soldi guadagnati in Russia, dove ha passato otto anni e ha messo da parte ottomila dollari. È partito quando la Moldova ha dichiarato l’indipendenza e il paese era in mano alla criminalità organizzata. Con lo stipendio che non arriva, l’appartamento di proprietà è un grande aiuto, perché non c’è da sborsare nulla per l’affitto, ma solo per le bollette.
Dopo aver mangiato un mandarino, mentre Angela rosicchia una crosta di pane come fosse un’ostia, con attenzione e rispetto, Nelu prega le due donne di prendersi cura dell’ubriaco e di controllare che scenda a Călărași. Poi si ritira nel primo vagone. Il freddo gli è entrato nelle ossa.
Un’altra fermata
Il treno si trascina lentamente, come un vecchio, illuminando le colline scure e i cespugli selvatici che crescono lungo i binari e lo frustano sul ventre mentre gli passa accanto. Procede parallelamente alla strada statale.
Quando fa una curva pericolosa o prende velocità, le porte interne dei vagoni si aprono da sole. E si spalancano anche quelle esterne, come possedute da qualche forza paranormale. Ma alla locomotiva importa poco della danza delle porte mosse da spettri e fantasmi: continua a cigolare e a scricchiolare da ogni giuntura. Morde con i suoi denti a sega le rotaie lucide, producendo un gran frastuono. Il rumore che fa il vecchio treno, con i suoi sessant’anni di servizio, è assordante.
L’uomo ubriaco si alza di nuovo. E prova di nuovo a scendere, ma la fermata è Strășeni, non Călărași. Si calma.
Alla stazioncina scura e modesta di Bucovăț sale una coppia. La porta si spalanca e nel vagone entrano i nuovi passeggeri, con le solite facce stanche, cupe, segnate dalle preoccupazioni. Il freddo si sente ancora di più, specialmente nelle articolazioni e nella schiena. Nastia si è addormentata rannicchiata. A Călărași l’uomo ubriaco scompare senza che nessuno gli dica niente. Nastia si sveglia di colpo e prepara le borse. Dà un’occhiata tra le tende oscuranti tirate sui finestrini. Fa i suoi calcoli e si avvia lentamente lungo il corridoio buio, sistemandosi il berretto.
Il Chișinău–Ungheni è l’unico treno locale ancora in funzione nella Repubblica Moldova. Ogni sera parte dalla capitale alle 18.03
Insieme a lei a Sipoteni scendono quasi tutti i passeggeri. Le lampadine a led fissate su qualche paletto fanno capire che qui c’è una stazione.
Angela segue Nastia con lo sguardo, poi prepara anche lei le valigie. Accende la torcia del telefono. Quando ha preso il treno d’andata, prima dell’alba, ha avuto la fortuna di essere accompagnata da un compaesano. Ma ora è sola.
Fissa l’oscurità, come a cercare un modo per arrivare a casa senza dover passare attraverso il bosco.
Si consola pensando che domani, il giorno di santo Stefano, verranno a trovarla i parenti e insieme festeggeranno il Natale, che avrebbero dovuto celebrare oggi. Non ha figli. Dalla morte del marito la solitudine le ronza nelle orecchie come il suono di una radio guasta. “Ma questo è il nostro lavoro”, dice, “e poi se lavori durante le feste ti pagano il doppio”.
A Bumbăta Angela scende dal treno e si mette a camminare a passo svelto, divorando la strada. Il buio si è impossessato non solo del bosco, ma anche di lei. Lungo il sentiero che sale verso la collina s’intravede solo la luce del telefono.
Nel nostro compartimento rimango solo io. Non sento più il freddo. Sono irrigidita. Guardo con invidia il primo vagone, la cui porta si apre e chiude come per magia. Da lì arrivano diversi rumori, ma anche il caldo, così caldo che i cinque passeggeri si sono tolti i piumini e smanettano sul telefono.
Ma non oso spostarmi. Per Ungheni mi resta solo una fermata.
L’Europa è lontana
In lontananza i galli cantano incessantemente. È un caos di chicchirichì incantati dal potere della notte. Anche i cani abbaiano quasi storditi. Non vogliono abbassare la guardia.
A pochi metri dall’ingresso della stazione di Ungheni, verso le 3.20, si sente un ronzio affannoso. È il vecchio treno che farà il viaggio Ungheni-Chișinău: si muove a fatica, spargendo una luce diafana nell’oscurità tombale. Prima di entrare in stazione, sbuffa e lascia uscire vapori trasparenti dal fumaiolo della locomotiva.
Due uomini un po’ sbronzi fanno ginnastica sulla banchina. Ridono, si danno colpetti sulla schiena a vicenda, bestemmiano e schiamazzano volgarità. Una donna cerca di assecondarli. Gli compra un caffè dal distributore nell’atrio.
“Tieni. È un americano”.
“Eh, vedrai che casino che faccio con il tuo americano”, ride sommessamente uno dei due.
Nelu compare nell’atrio della stazione. Ferma tutti quelli che gli capitano a tiro e li invita a comprare il biglietto. Divertito, l’uomo della battuta sul caffè americano gli si avvicina.
“Un biglietto per Chișinău!”.
“Lo facciamo, qual è il problema!”.
“Ma io non creo problemi. Scusatemi un attimo”, gli risponde l’uomo e scoppia a ridere.
Una donna elegante passeggia avanti e indietro sulla banchina della stazione soffocata dalla luce fioca della notte e controlla i biglietti. Intima bruscamente a un ragazzo di comprarlo subito, poi fa qualche domanda ad alcuni uomini che portano l’uniforme della Cfm e trascinano vecchi carrelli. Sembrano ombre in cui la vita balugina appena: magri come stecchi, con occhiali dalle lenti spesse, guance scavate e rugose, trascinano stancamente le vecchie gambe.
Alle 3.56 il treno ticchetta come l’orologio di una sveglia appoggiata sul comò. A Ungheni saliamo in pochi. I due ubriachi si abbracciano stretti in un festoso girotondo e non sembrano volersi separare. Poi si arrampicano nel primo vagone. Io nell’ultimo. So già cosa aspetta i passeggeri nel secondo e nel terzo.
Il rombo delle ruote sembra quello del motore di un trattore, aggravato dallo stridore sinistro del ferro e dal tintinnio della lamiera. Nel buio i villaggi s’intravedono a malapena. È buio pesto. Si potrebbe quasi tagliarlo a fette, tanto è spesso. I pochi pali tremolanti che appaiono vicino alle stazioni non mitigano questa tenebrosa oscurità. Solo i distributori di benzina conservano un sentore di civiltà.
Nel vagone i passeggeri hanno la stanchezza annidata nelle occhiaie e nelle pieghe ai lati della bocca. Il loro sorriso è amaro e affaticato
L’ultimo vagone, che promette calore come la vecchia stufa della nonna, non si è ancora riscaldato. Il freddo penetra fino alle ossa. A due gradi le mani gelano e diventano rosse. Si congelano perfino le natiche, anche se ci si siede sopra il cappello o la sciarpa. Il giovane, guidato dalla donna elegante, è salito anche lui nell’ultimo vagone, insieme a un uomo con i baffi. L’odore penetrante di polvere e gasolio brucia la gola. Il freddo non ci ha ancora abbandonati.
Dopo venticinque minuti arriviamo a Pîrlița. I vecchi vagoni si riempiono di volti stanchi. Le loro vite sembrano simili a quella del treno Ungheni-Chișinău: povere e senza grandi cambiamenti all’orizzonte. Molti di loro non possono permettersi il lusso di un altro mezzo di trasporto, nemmeno pubblico. Il treno gli costa molto meno dei minibus: in questo modo spendono appena il 10 per cento dei loro stipendi di guardia giurata, infermiera, cuoca o commessa. Con il minibus spenderebbero un quarto del salario. Per queste poche centinaia di lei si svegliano che è ancora notte. Si fanno un tè o un caffè, s’infilano lentamente le giacche imbottite ed escono assonnati di casa. In silenzio, per non svegliare il resto della famiglia.
Per arrivare alle stazioni del treno – alcune simili a baracche o a stalle, senza il tetto e con le pareti sbriciolate – camminano anche per cinquanta, sessanta minuti. Hanno la stanchezza annidata nelle occhiaie e nelle pieghe ai lati della bocca. Il loro sorriso è amaro e affaticato. Infagottati e con i berretti calati sulle orecchie, pagano il biglietto e si addormentano all’istante. Come neonati, con la testa appoggiata al finestrino e le mani forti nascoste nelle tasche.
“È una tortura”, mi dice una donna salita a Cornești, che si siede davanti a me e mi rimprovera per aver lasciato lo zaino sul sedile, occupando il posto di qualcuno che è sveglio dalle quattro.
“Una bella fatica”, la correggo.
“Una fatica un corno! È una vera tortura”, ribatte lei.
Fa l’infermiera all’ospedale n. 1. “Di fronte al centro commerciale”, precisa. Da 34 anni viaggia in treno. “Nel villaggio non c’è lavoro. Che dovrei fare?”. Si fa venticinque minuti a piedi fino alla stazione. Al mattino presto sulla strada principale c’è già luce e rumore di gente. “D’inverno è più difficile, ma non abbiamo scelta. Ci siamo abituati, e non va bene per niente! Il moldavo tace, e nemmeno questo va bene”, si lamenta l’infermiera.
Guadagna diecimila lei (circa 500 euro) al mese: lavora un giorno intero, per ventiquattr’ore, poi ha tre giorni di riposo. Mille lei li spende per il trasporto. Potrebbe risparmiare ancora qualcosa, ma la mattina alla fine del turno non riesce a prendere il treno per tornare a casa. L’unico collegamento con Cornești è quello che continua fino a Iași, in Romania, e parte alla sette da Chișinău. Ma lei finisce di lavorare alle otto. Così è costretta a pagare settanta lei per il minibus.
Nelu si avvicina alla donna scheletrica, con i capelli grigi alle radici e arancioni sulle punte, e batte uno scontrino sulla sua macchinetta. La donna ha già pronti i 21 lei del biglietto.
Quando il treno fa una curva pericolosa o prende velocità, le porte interne dei vagoni si aprono da sole. E si spalancano anche quelle esterne
“Oggi sono di meno”, dice l’infermiera, osservando i pochi passeggeri.
“È festa. Domani saranno di più”, le spiega Nelu.
“Speriamo solo che il treno non si rompa. Non voglio fare tardi”.
“Oggi no”, ride Nelu, proseguendo verso le altre tre carrozze.
La donna attacca il berretto bianco sul gancio del telaio in legno del finestrino e guarda nel buio. Poi sospira tra sé e sé: “Non ce la farò mai a vedere l’Europa. Forse i miei nipoti… Loro hanno l’Europa in tasca”. E si addormenta in un batter d’occhio.
Le luci dell’alba
L’uomo con i baffi, sulla cinquantina, dorme anche lui, con le mani giunte come in preghiera. Si è addormentato anche il ragazzo, curvo sul finestrino, con la bocca aperta e le mani nascoste sotto le ascelle.
Non riesco a capire se il vagone si è riscaldato o se mi sono semplicemente abituata al freddo.
Quelli saliti a Bahmut sembrano i più vivaci. Una donna robusta entra nel vagone come una marescialla, seguita da alcuni uomini e ragazzi.
Dai fori inferiori accanto ai sedili finalmente arriva il calore tanto atteso. La schiena mi fa male, ma sopporto in silenzio e mi godo la compagnia del caldo, che allevia il dolore alle ginocchia.
Quelli di Sipoteni sembrano ancora più esuberanti, ma sono anche più numerosi. Riempiono i vagoni come soldati spediti al fronte. I volti sferzati dal freddo appaiono più energici di quelli intorpiditi dei passeggeri già in carrozza. E comunque alcuni di loro hanno dormito un’ora in più rispetto a chi è salito a Ungheni o a Pîrlița.
Appena si siedono, tuttavia, anche loro cadono vittime del sonno: chi con il colbacco sugli occhi, chi piegato in avanti, chi a gambe larghe, chi appoggiato al finestrino, chi con il berretto sotto la testa, chi con la borsa sotto la guancia. Hanno una capacità incredibile di addormentarsi in fretta e continuare a dormire profondamente.
Dormono e russano.
Alcune donne, che stanno sedute ai bordi del sedile e non hanno su cosa appoggiarsi, chiacchierano. Ma non per molto. Con la testa sulla spalla dell’altra si addormentano anche loro.
Qualcuno si sveglia, ma solo per stiracchiarsi. Sbadiglia a lungo, si allunga un po’ e si riaddormenta subito. Uno strano amalgama di odori contrastanti riempie il vagone: è più forte, più acido, sa più di gasolio e alcol rispetto a ieri sera. Gli effluvi si erano spenti con il freddo, ma con il calore si sono risvegliati e si aggirano tra chi è ancora sveglio.
Alla stazione di Visterniceni, la penultima, nella carrozza si anima un piccolo trambusto, ma senza troppi fastidi. I passeggeri sembrano sonnambuli: hanno la stessa capacità di svegliarsi con cui si addormentano: di colpo, con uno schiocco di dita.
Quando il treno si ferma una signora vestita da suora, con gli occhi ancora impastati di sonno, scende rapidamente e si stira con le mani le pieghe dell’abito lungo. Il rituale si ripete con gli altri, che saltano fuori in un baleno dai vagoni congelati.
In prossimità dell’ultima fermata il corridoio, debolmente illuminato dai primi chiarori del giorno che rigano il cielo di luci rossastre, si riempie di persone con le teste che dondolano stancamente. L’infermiera, quasi schiacciata da un uomo robusto, mi scorge in un angolo. Tra il frastuono della ferraglia, quasi temendo che possa fare del male al vecchio e decrepito treno, con tono allusivo mi grida: “Starà pure cadendo a pezzi, ma se ci tolgono anche questo non so cosa faremo. Siamo perduti”. ◆ ap
Polina Cupcea è una giornalista moldava, fondatrice del sito di reportage e inchieste Oameni și kilometri (Persone e chilometri).
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Questo articolo è uscito sul numero 1625 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati