Vuoi sapere la storia della donna che si prende tra le mani le tette nude e le sbatte in faccia agli sconosciuti? È pazza, dici tu. Ma cosa ne sai?

Vuoi sapere se è la storia di una madre addolorata, una madre il cui bambino era silenzioso e blu quando è venuto al mondo, troppo buono per essere vivo? Se le sue mammelle si erano riempite così tanto di latte che qualcosa nella sua testa si è rotto, si è spezzato così malamente che lei offre il latte del suo bambino morto a chiunque lo voglia?

Le luci dei telefoni si riflettevano sul tettuccio metallico e giocavano strani tiri ai miei occhi stanchi. La gente sospirava, sbuffava e malediceva Lagos, la chiesa, l’aria

No, non è la sua storia.

Ok, ora chiedi se è la storia di una donna tanto consumata dalla vanità da respingere qualsiasi uomo. Se è la storia di uno spasimante deriso che le ha fatto il malocchio e le ha sconvolto il cervello. E ora forse lei implora ogni uomo per strada di guardare i suoi grandi capezzoli scuri e innamorarsi di lei.

Ma ti sbagli ancora, non è la sua storia.

Ti racconterò io la sua storia. Ma prima devo raccontarti la mia. Non mi fa piacere, ma è tutto collegato. Non è vero che ogni storia dipende da un’altra? Che è tutto collegato?

Abbi pazienza, per favore. Ti racconterò la mia storia. Poi la sua.

Era uno di quei venerdì sera in cui in quella grande chiesa si tenevano le celebrazioni mensili. Le strade erano bloccate come al solito. Sedevo nel minibus insieme a tutte le persone che il controllore era riuscito a convincere a entrare: ce n’erano anche sei per fila. Eravamo diretti a Berger, perché nella mia chiesa era prevista un’esibizione serale del coro. Sì, ero un corista.

No, non lo sono più. Ma ci arriverò. Abbi pazienza, per favore. Sei tu ad avermi chiesto la storia della donna. Tutte le storie sono collegate.

Una volta cantavo così bene da far piangere la gente. Salivo su quell’alto palco consacrato con il tappeto porpora e appena aprivo bocca lasciavo che la mia voce in preghiera carezzasse il microfono. Le persone alzavano lo sguardo verso di me, con gli occhi sbarrati e offuscati, con le lacrime che gli scendevano come due parentesi ai lati della bocca spalancata. Mi sentivo quasi un dio.

Ma quella notte, incastrato tra una donna piccolina di un’immobilità inquietante e un uomo che russava, percepivo la frustrazione dell’intero minibus. La si sentiva nell’aria umida della notte sospesa su di noi nel pulmino buio. Le luci dei telefoni si riflettevano sul tettuccio metallico e giocavano strani tiri ai miei occhi stanchi. La gente sospirava, sbuffava e malediceva Lagos, la chiesa, l’aria e perfino i genitori per averli fatti nascere in Nigeria.

Non ero infastidito quanto lo erano gli altri sul pulmino: anche se fossimo rimasti bloccati nel traffico sarei comunque arrivato in anticipo. Il mio piano era di arrivare in chiesa presto, pregare un’oretta e poi provare alcuni canti nuovi prima dell’arrivo degli altri. Lascia che te lo dica, amico mio, le cose non sono sempre come dovrebbero essere. Vedi, ogni volta che scendevo dal palco della chiesa, tornavo a essere uno qualunque. Non lo capisco. Segun, che non faceva piangere nessuno quando cantava e il cui contralto somigliava a un frullatore rotto, era il direttore del coro. Ed era lui a scoparsi tutte le ragazze tenore.

Mi dispiace. Non volevo scioccarti. Dico solo le cose come stanno. Come facevo a saperlo? Be’, perché io sono – ero – il tipo con cui si confidavano tutte. Quello nell’angoletto, di cui nessuna si accorge finché qualcun altro non gli spezza il cuore e allora tutto diventa chiaro: “Oh, lui ha una spalla perfetta per raccogliere le mie lacrime e le sue orecchie sono abbastanza piccole da ascoltare i miei segreti e non farli uscire”.

Non mi sono distratto. Ci sto arrivando! Sto andando al punto. Dovresti sapere che tutto è fatto a strati, non pretendere una versione ridotta: lo devi alla storia.

E così, erano tutti tesi e a disagio in quella scatoletta da sardine di un minibus. Puzzava anche, quanto il sudore e la stanchezza dell’intera settimana. Nessuno si è lamentato quando l’autista ha deciso di prendere una scorciatoia, una stradina stretta e anonima dietro la motorizzazione. La conosci? No, quella dopo il benzinaio. Si, quella.

A ogni modo, era stata la poliziotta grassa seduta davanti a suggerirlo. Perciò, anche se per arrivarci dovevamo andare contromano, lei sarebbe stata il nostro lasciapassare. O forse a Lagos i poliziotti possono arrestare altri poliziotti?

Tu lo capisci quando stai per ficcarti nei guai? Lo capisci? Io no. Anche quando ho avuto quell’incidente, la settimana scorsa, è successo perché non ho visto arrivare il mototaxi. Tutti mi hanno chiesto: “Come hai fatto a finire sotto un normale mototaxi, quando potevi semplicemente spostarti?”. Non so cosa rispondere. Credo che davanti al pericolo il mio istinto di sopravvivenza si paralizzi invece di acuirsi.

Comunque il controllore è sceso dal pulmino e ha guidato l’autista fuori dalla colonna di auto che procedeva a passo d’uomo. Il vuoto che avevamo lasciato è stato subito riempito da altri veicoli famelici.

Anche quando la donna piccolina si è irrigidita ancora di più, ripiegandosi su se stessa come per evitare ogni contatto, i miei sensi non sono andati in allerta. E quando l’uomo che russava si è svegliato di soprassalto, ho immaginato che dipendesse dall’improvvisa accelerazione. Io sono tornato a guardare il telefono.

È stato solo quando la prima persona ha preteso di sapere in che modo la strada su cui ci trovavamo fosse collegata a Berger, quando il controllore ha dato una gomitata all’uomo che cercava di aggirarlo per aprire il portellone; è stato solo quando abbiamo preso una strada sterrata senza luci che le mie mani hanno cominciato a tremare.

Improvvisamente il pulmino si è riempito di rumori. Si sono alzate grida lamentose rivolte a Gesù e ad Allah, alcune all’autista e al controllore. Qualcuno voleva che la poliziotta intervenisse, ma lei è rimasta in silenzio. In silenzio totale.

Poi è successo tutto molto in fretta. Ho cominciato a mandare messaggi per dire che mi stavano sequestrando, ma il pulmino si era infilato dentro un complesso chiuso da una recinzione. Dall’ombra sono apparse delle figure per chiudere il cancello dietro di noi. Non avevo ancora la sensazione che stesse capitando proprio a me, era così surreale, come se stessi guardando un brutto film di Nolly­wood.

E poi ci sono state le pistole e tanti uomini che ci hanno strattonati e tirati fuori dal minibus. Hanno agitato un secchio davanti alle nostre facce. Mettete qui il telefono, mettete qui il telefono. Nokia, iPhone e Htc sono caduti nel secchio di plastica tra i vari “Pronto?”, “Ehi, che sta succedendo, c’è qualcuno che urla?”. Ho abbandonato il mio senza fare storie.

Eravamo sotto un grande albero con un unico riflettore rivolto verso il basso. Sembrava la scenografia di uno spettacolo all’aperto. Ora vedevo la poliziotta più chiaramente. Era immensa. I bottoni della sua camicia nera non riuscivano quasi a trattenere il seno. Gli spazi tra un bottone e l’altro erano ellissi scure. Mi sono voltato dall’altra parte. Mi chiedevo se era una vera agente diventata delinquente, o se era un’impostora. Quelle divise sono così facili da imitare, no?

“Agente?”. Il controllore l’ha chiamata dalla porta d’ingresso del pulmino.

Christian Dellavedova

Lei ha piegato la testa verso un fabbricato e si è diretta in quella direzione. Ho stretto gli occhi cercando di guardare oltre l’albero, oltre il buio che m’impediva di vedere il resto del complesso, ma niente. Ci hanno costretti a metterci in fila e camminare verso un fabbricato. Due uomini robusti ci hanno perquisito e hanno controllato le nostre borse in cerca di oggetti di valore. Ho visto altri telefoni, iPad e dispositivi che non ho riconosciuto. C’era una bottiglia di vino. Dietro, un altro uomo raccoglieva bancomat e carte di credito e chiedeva di scrivere i codici pin. La fila si muoveva lentamente. Ho cercato di fare un elenco mentale di tutti gli oggetti nella mia borsa. Una donna davanti a me aveva armeggiato nella sua borsa per vedere cosa c’era dentro ed era stata schiaffeggiata dall’autista, che si era unito al gruppo. Era un uomo alto che camminava curvo. Teneva uno stuzzicadenti in bocca. Non ha mai detto una parola.

La mia Bibbia, il quadernino dei canti. Alcuni spartiti. Il portafoglio. Duemila naira circa. Due carte bancarie: una vuota, l’altra ancora straripante del mio stipendio di assistente amministrativo, pagato la settimana prima.

Quattro persone davanti a me: ecco il tempo che avevo per decidere se ero disposto a separarmi dai miei soldi dandogli il pin giusto.

Ma se avessero scoperto che mentivamo, ci avrebbero fatto del male?

Poi c’erano tre persone tra me e la decisione da prendere.

Ho cercato di sbirciare dietro l’agente e i suoi gorilla per vedere se qualcuno aveva una pistola. Non ne avevo ancora viste, e non sapevo se non saperlo doveva tranquillizzarmi o terrorizzarmi.

Mi fissava, la poliziotta.

Ho allontanato lo sguardo dai suoi occhi. Erano fessure scure sopra il gonfiore delle guance rotonde.

Poi restava una sola persona.

Lei mi fissava ancora.

Non ho un aspetto virile, come puoi ben vedere. Le mie spalle non sono abbastanza larghe, i baffi non crescono più di queste due strisce appena abbozzate, e sono alto solo un metro e 73. È per questo che le ragazze del coro preferivano Segun a me? Chi lo sa? L’agente mi guardava come se fossi di più di quell’uomo magrolino che faceva di tutto per evitare il suo sguardo.

Poi mi sono trovato davanti al trio. Il primo uomo mi ha tolto gentilmente la borsa. Io non avevo ancora alzato gli occhi. Studiavo le scarpe da tennis nere del Bandito A e la pelle scrostata delle scarpe del Ban­dito B.

Christian Dellavedova

“Come ti chiami?”. Non ho risposto subito. La voce dell’agente era roca ma dolce, come se qualcosa le stesse premendo sulla gola. Forse il grasso.

“Lo conosce, agente?”.

Ho balbettato il mio nome. Non avevo ancora alzato gli occhi.

Sono passato al secondo uomo, che mi ha preso le carte. Ho scritto i pin giusti.

Intorno a noi c’erano nudi pavimenti di graniglia e pareti marroni dalla vernice scrostata su cui si aprivano finestre senza vetri. C’erano file di panche di legno e noi le abbiamo riempite uno alla volta, dopo che ci avevano spogliato dei nostri averi. Il tetto si spalancava sopra di noi, con le sue travi a vista e le lamiere di ferro scricchiolanti. Lo spazio era illuminato da cinque neon attaccati alle travi, mentre un sesto sfarfallava facendomi strizzare gli occhi.

A un estraneo potevamo sembrare delle persone che aspettavano la patente in un ufficio pubblico. Eravamo plausibili, tranne che per qualche lamento, gemito o raffica di preghiere. Ero di nuovo vicino alla donna immobile. Guardava dritto davanti a sé, con le braccia strette al petto. Speravo stesse bene.

E poi abbiamo aspettato. Abbiamo sentito due moto sgasare e lasciare il compound, verso i bancomat, ho pensato. Hanno lasciato dietro di sé un silenzio riempito dai grilli, che ci gravava addosso dal buio esterno. Sentivo il cuore battermi selvaggiamente nel collo. Tenevo lo sguardo all’altezza del colletto marrone macchiato di sudore dell’uomo davanti a me.

Poi l’agente ha chiamato il mio nome. Sono rimasto paralizzato, prima di voltarmi all’indietro. La donna immobile finalmente si è girata per guardarmi confusa. Non sono uno di loro, volevo disperatamente spiegare ai suoi gentili occhi castani. Mi aveva appena chiesto come mi chiamavo!

Ho girato la testa verso l’uscita.

“Io?”.

Tenevo in mano la mia borsa più leggera mentre urtavo le ginocchia degli altri ostaggi per farmi largo verso il corridoio.

“Cos’hai in quella borsa?”.

A un estraneo potevamo sembrare delle persone che aspettavano la patente in un ufficio pubblico. Eravamo plausibili, tranne che per qualche lamento, gemito o raffica di preghiere

Il mio cuore batteva due volte più forte, se mai era possibile. Ho cominciato a preoccuparmi di essere riuscito in qualche modo a nascondere qualcosa.

Il mio collo era bollente.

“Co-cosa?”.

La sua mano ha indicato la borsa. Aveva il polso e le dita minuscole, sproporzionati rispetto al resto del corpo. Come se qualcuno ci avesse legato un elastico per impedire al grasso di diffondersi nelle mani. Ho spostato lo sguardo dalla borsa alla sua mano.

“Signora?”.

Sì, ero un uomo timido, e in certe situazioni lo sono ancora. Sei mai stato squadrato da un’enorme poliziotta con una mano minuscola nella tasca dei pantaloni e l’altra che indica la tua borsa?

Ho aperto la borsa e ci ho guardato dentro. Lei si è allungata e ha tirato fuori gli spartiti.

“Questo”.

“Oh”, ho sospirato, “è solo musica”.

“Musica?”.

“Si, signora”. Il sudore mi colava lungo il collo e sulla schiena. Avevo la maglietta appiccicata.

L’agente mi guardava come se fossi di più di quell’uomo magrolino che faceva di tutto per evitare il suo sguardo

“Sei un musicista?”.

Si è appoggiata alla cornice senza porta.

“No, signora. Sono un corista”.

“Per la chiesa?”.

“Si, signora”.

Mi ha fatto cenno di seguirla fuori dal fabbricato. L’ho seguita fino al lato senza finestre. Mi mancava la luce.

“Allora canti in chiesa?”. Era appoggiata al muro.

Non la vedevo più distintamente, era la sagoma scura di una massa sinistra.

“Si, signora”.

“Coro?”.

“Si, signora”.

“Dimmi, il tuo dio ci perdonerà per quello che abbiamo fatto stasera?”.

Eravamo sotto un grande albero con un unico riflettore rivolto verso il basso. Sembrava la scenografia di uno spettacolo all’aperto. Ora vedevo la poliziotta più chiaramente. Era immensa

Chi ero io per predicare il pentimento a una donna che aveva la mia salvezza nelle sue minuscole mani? Annuii, muto.

“Forza, canta per me”. La richiesta era un bisbiglio. Ho finto di non sentire. E sono arretrato di un passo.

“Forza. Canta per me”. Più forte questa volta. Non era più una richiesta. Era un ordine. “Io… Io non posso cantare, signora”.

Non credevo che ci fosse spazio, ma lei ha spostato una mano dietro la schiena per tirare fuori la pistola dalla cintola. Era la prima volta che ne vedevo una da vicino. Luccicava fievolmente della scarsa luce che intercettava. Poi l’ho sentita contro la mia pelle, proprio in mezzo alla fronte.

“Forza, ragazzo del coro, ti ho detto di cantare per me”.

La mia bocca si apriva e chiudeva. Ingoiavo aria e tossivo. Poi: “Solo in Cristo trovo speranza. È la mia luce, la mia forza, il mio canto…”.

Guardavo i miei sandali di pelle, la polvere, una nuova ferita sul mignolo del mio piede destro.

L’agente ha usato la pistola per sollevarmi il mento. Sono stato costretto a guardarla, a ispezionare la sua fronte, scintillante di sudore; il suo naso, largo e unto; i suoi occhi minuscoli, capocchie di spillo che mi guardavano di traverso; le sue grosse labbra, colorate di un marrone screziato, arricciate su un lato.

“Questo bastione, questo terreno sicuro, saldo nella più violenta delle siccità e delle tempeste…”.

La mia voce era esile, le note malferme mentre uscivano dalla bocca. Non pensare alla chiesa, non pensare all’altare, mi dicevo.

“Che vette di amore, che profondità di pace…”.

E poi l’altra sua mano è salita all’altezza della mia vita. Mi ha sollevato la maglietta, graffiandomi l’osso sporgente del bacino. Mi ha puntato di nuovo la pistola alla fronte e poi mi ha ficcato una mano dentro la cintura e mi ha tirato a sé. Ho chiuso gli occhi. Lei non mi ha ordinato di aprirli.

Ricordo il suono. Lo sento ancora dietro il collo. Era una sola, ma giuro che sembrava un intero villaggio di donne in lutto

“Quando i timori svaniscono, quando gli sforzi cessano…”.

Mi ha slacciato la cintura con una mano. Poi mi ha afferrato il pene e l’ha stretto. Io ero completamente molle. Ho ingoiato aria; non riuscivo più a cantare. Le sue mani addosso a me erano sudate. Ho ingoiato di nuovo aria. Ho ingoiato a vuoto. Ho stretto gli occhi ancora più forte.

Con la pistola mi ha dato un altro colpetto sul mento. “Finisci la canzone”.

“Il mio consolatore; il mio tutto… Qui nell’amore di Cristo rimango”.

Lei era lì a occhi chiusi, che lavorava il mio coso lentamente con le labbra arricciate a quel modo. Avrei voluto spaccarle il cranio contro il muro dietro di noi, per poter leccare con le mie labbra gli spruzzi di sangue e materia cerebrale. Ma c’era quella pistola e c’ero io, l’uomo timido e magrolino sulle cui spalle le ragazze del coro andavano a piangere dopo aver scopato con Segun.

È ancora una preghiera se le orecchie che la ascoltano sono quelle di una criminale? Se gli occhi che si chiudono al suo suono appartengono a questa donna con le mani nei miei pantaloni?

Mi ha lasciato andare all’improvviso, come disgustata dalla mia mancanza di reazioni. Ha rimesso a posto la pistola infilandola nella cintura, e se n’è andata impettita. La sua andatura era un ondeggiamento orizzontale, una pesante falcata dopo l’altra. Mi sono risistemato e sono tornato indietro, per raggiungere gli altri. Mi chiedevo se mi avessero sentito cantare. Mi sono reso conto di avere le guance bagnate di lacrime quando ho visto l’autista curvo che voltava il capo verso di me. La poliziotta non mi ha più guardato.

Alla fine ci hanno lasciato andare. Le persone che avevano dato il pin giusto sono state caricate sul pulmino e fatte scendere a Berger. Non so cos’è successo agli altri; la mia vicina immobile era una di loro. Il traffico ormai era finito, e io sono andato dritto in chiesa, dove mi sono seduto in fondo e ho pianto per tutta l’esibizione. Tutti hanno pensato che fosse lo spirito santo.

Te lo racconto perché tu capisca cos’ha significato per me. Si, sono arrivato alla sua storia. È breve, ma devi ricordare quanto ero sconvolto da quella vicenda: non potevo più cantare in chiesa senza ripensare a un paio di mani viscide su un cazzo flaccido. Così me ne sono andato.

Si, arrivo al punto.

Erano le undici passate di un’altra notte, poco più di un anno dopo… be’, quell’episodio. Da poco avevo ricominciato a rilassarmi sugli autobus notturni.

Vuoi sapere perché non smetto di prendere l’autobus? Cosa potrei fare? Niente. Non ci sono alternative per un povero. Un povero deve lavorare; un povero non può permettersi di vivere sull’isola; un povero rientra molto tardi. Soffrivo durante quei viaggi, con il culo contratto sui sedili sottili che non riuscivano ad attutire i colpi della struttura metallica. E scrutavo ogni passeggero per cogliere segnali di falsità.

Lei ha spostato una mano dietro la schiena per tirare fuori la pistola dalla cintola. Era la prima volta che ne vedevo una da vicino. Luccicava fievolmente della scarsa luce che intercettava. Poi l’ho sentita contro la mia pelle, proprio in mezzo alla fronte

Comunque. Ero su un autobus diretto da Obalende a Yaba. Eravamo arrivati al tratto di strada che si diparte dal Third mainland bridge. L’unica strada dove le luci respingono la polizia e attirano i mascalzoni? Quella dove la gente accelera per via di tutte quelle brutte storie che si raccontano? Be’, noi non andavamo abbastanza veloci in questa storia. I rapinatori ci hanno fermato usando gli pneumatici che ingombravano la strada, anche se eravamo vicinissimi alla nostra destinazione.

Quella notte me la sono quasi fatta sotto quando ho visto per la seconda volta una pistola. E c’era una donna seduta accanto a me, che tremava e io tremavo con lei. Tremavamo tutti. Doveva essere stata una notte fiacca per i rapinatori se fermavano un minibus. La strada si spalancava vuota e sinistra davanti e dietro di noi.

Hanno colpito il controllore facendogli perdere coscienza perché tutta la spavalderia che aveva mostrato alla fermata del minibus si era ridotta a un mormorio farneticante di parole yoruba. Uno di loro teneva un piede sopra l’autista sdraiato per terra. Gli altri tre ci hanno chiesto di tirare fuori telefoni, borse e soldi. Ero seduto nella fila subito dietro il controllore, e non sono passati molti gemiti e brontolii prima che arrivasse il mio turno. Ho consegnato il mio Nokia a buon mercato, conoscevo la routine.

E poi un uomo con l’unghia lunga sul mignolo l’ha vista. Aveva un coltello, e ricordo di aver pensato che era un oggetto ricercato, con il manico decorato con pietre scintillanti. Ma la curva e il bagliore della lama distruggevano ogni illusione di ricercatezza. Le ha puntato contro il coltello, e con uno scatto le ha indicato di uscire. Lei ha ubbidito. Io ho dovuto alzarmi dal sedile vicino al finestrino per farla passare. Confesso che mi sono appiattito immediatamente contro il pulmino cercando di rendermi invisibile.

Poi, dopo averle appoggiato il coltello alla clavicola, le ha strappato la camicetta. Era un’ampia camicetta a fiori con il collo alto. Ma lei aveva un seno così grande che si sarebbe notato anche in una tonaca da suora. Ricordo colpevolmente di averlo osservato mentre sobbalzava sui dossi della strada quella sera.

Il suono dello strappo è stato forte. Lei ha fatto un passo indietro, ritraendosi. L’uomo ha preso il pesante manico del coltello e l’ha colpita in testa con un tonfo sordo. Lei si è lamentata ed è rimasta ferma. Gli altri della banda si sono fermati a guardarlo, chiaramente sorpresi dalla piega degli eventi. Uno ha ridacchiato e l’ha chiamato omo ale, bastardo. Lui ha tirato fuori il seno della donna dal reggiseno di pizzo blu, ha abbassato la testa e ha preso un capezzolo in bocca.

Ricordo la sua maglietta. Era una di quelle magliette verdi con la scritta “I miei soldi crescono come l’erba”. Ricordo il suo collo, era teso e piegato ad angolo. Vedevo le vertebre che sporgevano dalla pelle sudata. Ricordo il silenzio.

Oh, c’era silenzio. Non riuscivo a smettere di guardarmi tra le dita. No, non giudicarmi. Non ci riuscivo. Era l’orrore che mi aveva paralizzato? Non lo so. Forse volevo vedere se la donna avrebbe gestito la cosa in modo diverso da come avevo fatto io? Dopo tutto lei aveva più pubblico.

C’era silenzio, tranne che per il succhiare e per dei piccoli gemiti. Tutti sono rimasti zitti mentre lui si spostava da sinistra a destra e da destra a sinistra. Il sangue gocciolava sul viso della donna dalla ferita che il coltello dell’uomo le aveva procurato sotto l’attaccatura dei capelli.

È perché non riuscivo a smettere di guardare che l’ho vista abbandonare il suo corpo. I suoi occhi erano vuoti, amico. Nelle iridi scure non c’era più niente. A quel punto mi sono voltato da un’altra parte. Un’altra donna nel pulmino ha cominciato a gridare. Era come se condividessero lo stesso spirito e lei fosse quella che poteva piangere.

Nessuno aveva pianto per me.

Ricordo il suono. Lo sento ancora dietro il collo. Era una sola, ma giuro che sembrava un intero villaggio di donne in lutto. Usciva da lei, e ha fatto scattare i rapinatori.

Hanno preso i nostri soldi, le nostre borse e le nostre voci. Mentre si allontanavano in fretta sulle moto, le altre donne si sono riunite intorno alla vittima. Le hanno rimesso a posto il seno e le hanno dato i loro scialli per coprire la camicia a brandelli, ma lei non ha detto una parola. Mai sentito un silenzio così spaventoso.

E poi un uomo ha riso. Non ricordo chi. Rideva, si batteva una mano sulla coscia e scuoteva la testa.

La risata ha provocato qualcosa in lei. Ha scostato le altre donne ed è andata da lui. Si è messa le mani sotto le mammelle, a coppa, e gliele ha sbattute davanti.

“Continua. Facciamola finita. Ammazzami”. La risata non si è fermata.

Sì, ero io.

Non riuscivo a smettere di ridere: all’idea che coprirle il seno avrebbe in qualche modo nascosto il ricordo, come se questo non l’avrebbe fatta svegliare ogni notte sentendo la lingua bavosa di uno sconosciuto sotto la sua camicia. Ridevo per l’assurdità.

L’autista si è ripreso e ha chiesto a tutti di risalire a bordo, ma lei non l’ha fatto. L’abbiamo lasciata che mostrava il seno verso l’autobus, e diventava man mano più piccola e più granulosa, irriconoscibile dal polveroso finestrino posteriore.

Ecco, ora lei è lì. E questa è la storia che volevi sentire. ◆ gc

Oluwapemi “’Pemi” Aguda è una scrittrice di Lagos, in Nigeria. Ha pubblicato su riviste letterarie come Granta, Ploughshares e Zoetrope. La sua prima raccolta di racconti, Ghostroots , uscirà nel 2024. Questo racconto fa parte dell’antologia Lagos noir , il titolo originale è Choir boy . La traduzione è di Maria Giuseppina Cavallo.

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Questo articolo è uscito sul numero 1543 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati