Nell’agosto del 2006 andai a un comizio del primo ministro Thaksin Shinawatra nella provincia di Chiang Rai, nel nord della Thailandia. I principali esponenti del suo governo avevano riunito una gran folla di convinti sostenitori del Thai rak thai, il partito al governo. All’epoca la Thailandia si presentava come una delle democrazie asiatiche più promettenti, che finalmente camminava a testa alta dopo decenni d’ingerenze dei militari nella politica.

Al comizio Thaksin si scagliò contro la povertà e sottolineò com’era riuscito a garantire gli interessi della Thailandia settentrionale, la parte più povera del paese. La grande folla applaudì, contenta che fosse uno dei suoi, un bravo ragazzo del nord, a stabilire le priorità del paese.

Un mese dopo, il 19 settembre 2006, Thaksin uscì di scena in modo inaspettato, dopo un colpo di stato orchestrato da ufficiali dell’esercito e funzionari del palazzo reale spaventati dalla sua colossale macchina elettorale e dalla presa che aveva sui cuori delle masse rurali e dei poveri delle città. Thaksin, come tanti prima di lui, era attaccabile perché aveva abusato del suo potere, fatto un uso eccessivo del voto di scambio e dimenticato qual era il suo posto. Anche se negli eventi pubblici del Thai rak thai il primo ministro ostentava fedeltà alla corona, nei circoli del palazzo e dell’esercito sembrava che si stesse montando la testa. Qualcuno lo considerava una minaccia per la stessa monarchia che esaltava.

Negli anni successivi al golpe del 2006, la Thailandia ha dovuto affrontare un’ondata dopo l’altra di sconvolgimenti politici, compreso il colpo di stato contro la sorella di Thaksin, la prima ministra Yingluck Shinawatra, nel 2014. Da allora le alte cariche dell’esercito, guidate dal generale Prayut Chan-o-cha, manipolano il sistema politico, imponendo una costituzione intesa a limitare le possibilità che un altro primo ministro populista indebolisca il ruolo della corona, della burocrazia e, soprattutto, delle forze armate, e ne boicotti gli interessi.

I giovani tailandesi che da un anno manifestano per le strade del paese chiedendo la riforma di queste tre istituzioni si muovono in un campo di battaglia su cui generazioni prima di loro hanno lottato per chiedere più partecipazione, trasparenza e giustizia. Si stanno misurando con la storia, con un ciclo di prove di forza politiche e culturali antiche quanto il concetto stesso di potere delle élite.

Le attuali proteste in Thailandia si uniscono a quelle in Birmania e a Hong Kong: i giovani, spesso ancora adolescenti o appena ventenni, sentono di dover sfidare radicati sistemi di privilegio, violenza e autoritarismo. Questa generazione di attivisti è cresciuta in famiglie dove la tecnologia è di casa, e dove, grazie a connessioni regionali e globali, culture e influenze esterne entrano facilmente. Contenuti trasformati in meme, come il saluto delle tre dita di Hunger games, hanno modificato le loro aspettative. Gli attivisti tailandesi, birmani e di Hong Kong, e più in generale dell’Asia orientale e sudorientale, condividono in tempo reale le battaglie contro i regimi autoritari e la manipolazione politica che nei loro paesi limita la democrazia rappresentativa. Questa collaborazione tra gli attivisti della regione è stata definita Milk tea alliance (alleanza del tè al latte, che si beve in diverse versioni a Hong Kong, in Thailandia e in Birmania), una libera costellazione di società che lavorano contro il radicamento dell’autoritarismo.

Tre dita

Il divario generazionale è netto. Oggi i nativi digitali sono furiosi con i loro genitori e i loro nonni che hanno rinunciato alla democrazia. Alcuni attivisti cercano ancora ispirazione negli Stati Uniti o in altre democrazie lontane, ma molti la trovano nelle nuove forme di giustizia e libertà della cultura pop. Per molti la trilogia di Hunger games rappresenta l’aspirazione umana all’autodeterminazione in un futuro autoritario e distopico.

In quella storia combattenti giovani, forti e coraggiosi si scontrano, in nome dei loro quartieri degradati, in battaglie progettate per distogliere l’attenzione dalle ingiustizie e dallo sfruttamento. La protagonista, Katniss Everdeen, finisce per affrontare i potenti che approfittano di quel sistema corrotto, dando il via a una ribellione.

In Thailandia i primi manifestanti scesi per le strade di Bangkok dopo il colpo di stato del 2014 adottarono l’ormai famoso saluto delle tre dita dei ribelli della saga come simbolo di solidarietà. Ma il gesto è anche un simbolo che riflette ideali, seppure hollywoodiani, che hanno plasmato la coscienza politica dei giovani asiatici. Sono consapevoli del fatto che anche le generazioni precedenti hanno lottato, spesso in scontri molto violenti, per cambiare le cose. E sanno che ci sono conseguenze per chi sfida i governi di Thailandia, Birmania e Cina.

Qualcuno scompare, altri rischiano lunghi periodi di detenzione per motivi che, in altri contesti politici, sarebbero considerati pretestuosi. Qualcuno viene ucciso, spesso a sangue freddo, da militari o da poliziotti autorizzati ad attaccare i dissidenti disarmati.

Le tattiche usate dai manifestanti di Hong Kong quando Pechino ha risposto con la repressione alla loro richiesta di democrazia, hanno attirato l’attenzione. Le dimensioni di quelle proteste spontanee, spesso senza un leader, hanno messo alla prova i responsabili della sicurezza, non abituati a quel nuovo tipo di mobilitazione su vasta scala. I ragazzi in prima linea nelle manifestazioni sono costretti a difendersi dagli idranti, dai lacrimogeni, dai proiettili di gomma e, come si è visto in Birmania nelle ultime settimane, dalla minaccia sempre presente di una grande forza militare. L’esercito birmano si è alienato le simpatie di quasi tutto il paese sostituendo di nuovo il governo semidemocratico, non l’ideale ma efficiente, che guidava il paese.

Hong Kong, 22 agosto 2019 (Lam Yik ​Fei, The New York Times/Contrasto)

Disprezzo diffuso

Le grandi folle di manifestanti che si sono radunate nelle città e nei centri minori della Birmania dopo il colpo di stato del 1 febbraio sono la prova più convincente vista quest’anno del profondo risentimento provocato da istituzioni non elette – in questo caso un esercito golpista – decise a cambiare le regole del gioco. Vale la pena di osservare che questi alti ufficiali birmani erano appena agli inizi della carriera quando, nel 1988, l’esercito represse con violenza le proteste studentesche. Ci vollero decenni prima che il paese trovasse il modo di superare lo stallo che seguì quegli eventi. Eppure il popolo birmano ha fatto chiaramente capire, alle elezioni del 2015 e del 2020 e, dopo il colpo di stato, per le strade, che vuole un solido sistema democratico.

Il problema degli strateghi militari è che il regime che hanno fatto cadere con il loro golpe sconsiderato è quello che loro stessi avevano creato con tanta cura per più di un decennio. La ritirata a Naypyidaw del 2005, la promulgazione della costituzione del 2008, le prime elezioni del 2010 e la liberazione di Aung San Suu Kyi dagli arresti domiciliari nello stesso anno erano mosse dei militari per far nascere un sistema più partecipativo.

Dopo il 2011 la maggior parte dei birmani, anche se ancora scontenta del forte potere dei militari, considerava quelle soluzioni adatte a sostenere la crescita economica e a soddisfare le richieste di cambiamento. E anche se forse Aung San Suu Kyi e i suoi luogotenenti della Lega nazionale per la democrazia (Nld) nutrivano dei dubbi sull’affidabilità dei militari, dovevano negoziare e arrivare a dei compromessi. Le manovre dei militari hanno avuto un tale successo che nel dicembre 2019 hanno costretto Aung San Suu Kyi, nel suo ruolo di consigliera di stato, a comparire davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja per difendere le campagne del governo contro la minoranza musulmana rohingya. Quel momento buio – in cui un Nobel per la pace giustifica una violenza barbara e indifendibile – è servito all’Nld a ottenere i voti dei birmani le cui paure erano state cinicamente manipolate contro la minoranza più vulnerabile. Aung San Suu Kyi si era convinta che difendere la repressione dei rohingya non fosse solo importante dal punto di vista elettorale, ma anche nel più ampio interesse del paese.

In un sistema progettato per difendere gli interessi dei militari, Aung San Suu Kyi stava rendendo la vita facile agli uomini forti dell’esercito. Ma poi, con il colpo di stato di febbraio, i militari hanno inflitto ferite profonde alla loro reputazione, e gran parte di quel danno è ormai irreversibile. In passato i politici più pragmatici e opportunisti, seppur con riluttanza, avevano accettato compromessi e rischiato la reputazione per costruire una causa comune con i militari.

Ma per molte delle persone coinvolte l’investimento è stato frustrante. Con il colpo di stato l’esercito ha perso la sua capacità di influire, spesso tramite la persuasione a porte chiuse, sulle prossime fasi del processo politico. Oggi il disprezzo per i militari è diffuso in tutto il paese. Gruppi etnici armati, hipster di città, operai, professionisti della classe media, agricoltori e rohingya: quasi tutti sono contrari al colpo di stato. Nella grande diversità della società birmana oggi c’è unità.

La battaglia per il futuro della Thailandia sembra diversa. In parte perché negli ultimi decenni, grazie alla propaganda, la famiglia reale ha goduto di una notevole popolarità. Fino alla sua morte nel 2016, il re Bhumibol Adulyadej è stato un leader esemplare e molto riverito. Anche l’esercito ha investito molto nel successo delle iniziative reali, attribuendo al re il merito dei progressi economici e culturali. Le stesse strategie hanno funzionato meno con il figlio e successore di Bhumibol, Vajiralongkorn. Mentre il padre esercitava un carisma benevolo, il nuovo re ha un passato e una reputazione ambigui e molti tailandesi dicono pubblicamente che per loro non è adatto a governare. Ci sono anche molti funzionari, compresi quelli delle agenzie di sicurezza, che nutrono dubbi sulla sua adeguatezza.

Da sapere
Governo ombra in Birmania

◆ In Birmania alcuni parlamentari eletti nel novembre del 2020, personalità della società civile e rappresentanti delle minoranze etniche hanno formato un governo ombra di unità nazionale. La consigliera di stato Aung San Suu Kyi **e il presidente **Win Myint, entrambi in carcere, hanno mantenuto le loro cariche nel governo ombra. È una nuova sfida alla giunta militare che ha preso il potere con il golpe del 1 febbraio 2021. Il 24 aprile a Jakarta, in Indonesia, i leader dell’Associazione delle nazioni del sudest asiatico (Asean) si riuniranno per discutere della situazione nel paese. È improbabile la partecipazione del generale Min Aung Hlaing, leader della giunta. Il vertice sarà una prova cruciale per l’unità dell’Asean e la sua capacità di mediazione in una crisi che ha diviso la regione. Pare che l’organizzazione voglia inviare una missione umanitaria in Birmania come primo passo per proporre un dialogo tra i militari e l’opposizione.

◆A Hong Kong il 16 aprile diversi attivisti e esponenti dell’opposizione sono stati condannati per aver partecipato a manifestazioni non autorizzate nel 2019. Tra loro, Jimmy Lai, fondatore del tabloid Apple Daily, condannato a 14 mesi di carcere, e Martin Lee, 82 anni, storico attivista filodemocratico, a cui la pena è stata sospesa. Nikkei Asia, Bbc


Ma gli uomini della monarchia e i capi militari condividono da molto tempo un progetto che garantisce protezione al palazzo. Il timore è che rompere i rapporti con la corona metta in pericolo sia le istituzioni sia le loro vaste reti clientelari. Il primo ministro Prayut, con la debole maggioranza ottenuta alle elezioni del 2019, non può permettersi di rompere il legame tra potere monarchico e militare.

Nell’ultimo anno è diventato chiaro che una nuova e più coraggiosa generazione di attivisti è pronta ad affrontare questi poteri consolidati, sfidando il protocollo che impone la venerazione dei reali tailandesi. Per tutta risposta, le autorità usano il reato di lesa maestà come arma contro le critiche. Le condanne previste per questo reato sono pesanti – di recente una donna è stata condannata a 43 anni di detenzione per i suoi post – e hanno spento la voglia di lanciare provocazioni sui social network. Allo stesso tempo, il palazzo dovrà darsi molto da fare se vuole riconquistare la fiducia di una parte dell’opinione pubblica sempre più esasperata e arrabbiata.

Grazie al distanziamento sociale e all’uso delle mascherine, la Thailandia ha evitato gran parte dei danni provocati dal covid-19, ma la sua economia, che dipende essenzialmente dal commercio e dal turismo, non se l’è cavata altrettanto bene. Il governo ha disposto consistenti spese per il welfare e ha concentrato l’attenzione sugli aiuti ai cittadini più in difficoltà. Con quello che sta succedendo in Birmania, Prayut sa bene che basta un solo, grave errore per perdere il controllo della situazione.

Per evitare rischi simili, la Repubblica popolare cinese gestisce rigidamente la politica di Hong Kong. La città, a lungo fulcro del commercio globale, è diventata un esempio estremo di quello che succede quando l’insistenza dogmatica della Cina sulla limitazione delle libertà civili si scontra con il desiderio di democrazia espresso per le strade. Alcuni leader della protesta sono finiti in prigione, altri sono fuggiti all’estero. Stare al passo con la più grande macchina autoritaria del mondo richiede un impegno enorme, ma ora le linee di confronto sono state tracciate.

Anche se il movimento per la democrazia di Hong Kong subisce sistematiche sconfitte, i giovani di altri paesi asiatici lo considerano comunque un esempio stimolante di mobilitazione e disobbedienza civile. Li aiuta anche il fatto di avere a disposizione tecnologie inimmaginabili in passato e di aver già attraversato tempi difficili. Prendiamo la Thailandia. I ventenni di oggi hanno vissuto lo tsunami nell’oceano Indiano del 2004, il colpo di stato contro Thaksin Shinawatra del 2006, una guerra civile senza fine nelle province più meridionali del paese e una serie di scontri di piazza a Bangkok. Tutto questo prima del colpo di stato contro Yingluck Shinawatra del 2014, il rafforzamento del potere dell’esercito e il trasferimento dell’autorità al re Vajiralongkorn. E alla fine è arrivata la pandemia. Dovremmo stupirci se mettono in conto altri sconvolgimenti nella speranza di creare uno spazio politico per se stessi e per le loro idee all’interno di un ordine sociale più giusto e inclusivo?

Fare da sé

Questi ragazzi si sono anche resi conto che il resto del mondo non ha molte possibilità d’influire sul cambiamento nei loro paesi. È abbastanza chiaro che se la Birmania vuole un governo democratico, questo può emergere solo dalle battaglie dei suoi attivisti e della gente comune, comprese le numerose minoranze etniche. Ma la paura per la propensione ai colpi di stato dei vertici militari non svanirà facilmente. Né sparirà l’attenzione sul rapporto tra monarchici e militari in Thailandia. Troppe persone hanno capito troppe cose, e si stanno facendo domande sul ruolo economico e politico della famiglia reale. I giovani attivisti vedono che il re ha difficoltà a comunicare in modo efficace con il suo popolo, ne intuiscono la debolezza e l’attenzione anacronistica alle gerarchie e al prestigio. Infine, nell’era dei movimenti globali innescati dalle campagne contro il razzismo e per l’uguaglianza di genere, le potenti burocrazie e le classi dirigenti del sudest asiatico hanno difficoltà a trovare strategie di sopravvivenza efficaci.

Quindici anni fa, nel 2006, quando fu deposto Thaksin, i giovani attivisti tailandesi stavano appena prendendo coscienza della realtà. Oggi vedono i gravi problemi economici e un ulteriore radicamento dei privilegi, e alcuni di loro non sono disposti ad aspettare modifiche graduali: chiedono un cambio di direzione. Come i loro coetanei in Birmania e a Hong Kong, hanno già corso seri rischi e hanno incontrato una ferma resistenza.

A questo punto, la domanda diventa: e se una di queste rivolte giovanili dovesse avere la meglio? Cosa succederebbe all’Asia se il colpo di stato birmano fosse annullato? O se il re tailandese fosse costretto ad accettare vere riforme? O se un giorno gli abitanti di Hong Kong ottenessero la democrazia per cui stanno lottando? ◆ bt

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1406 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati