Dalla pubblicazione del mio libro Decolonizzare la mente nel 1986, ho visto crescere l’interesse globale per i temi della decolonizzazione e i rapporti di forza tra le lingue. Nel 2018, questi stessi temi mi hanno portato a Limerick, nella provincia irlandese del Munster, per una conferenza dedicata ai 125 anni della Lega gaelica (Conradh na Gaeilge).
Obiettivo della lega era la rivitalizzazione del gaelico (o irlandese), lingua che nel suo stesso paese era stato relegato a un ruolo secondario rispetto all’inglese. Nonostante i numerosi sforzi, anche del governo, il gaelico rimane subordinato: oggi la maggior parte degli irlandesi usa l’inglese. Alcuni tra i più celebri autori irlandesi, come W.B. Yeats e James Joyce, scrivevano in inglese. Non riesco a immaginare un dipartimento di letteratura inglese, ovunque nel mondo, perfino nel Regno Unito, che non includa corsi su questi autori irlandesi. Sono ormai considerati tra i maggiori esponenti del canone britannico.
Lo squilibrio tra le due lingue non c’è da sempre. I primi coloni inglesi in Irlanda, soprattutto nel Munster, gravitarono verso l’irlandese perché, a quanto risulta, tra il tredicesimo e il sedicesimo secolo era la lingua più usata negli studi classici. Quei primi coloni furono naturalmente attratti da un idioma più vitale. La scelta aveva senso: l’irlandese era la lingua parlata dalle persone tra cui loro si erano sistemati.
Londra intervenne: a partire dallo statuto di Kilkenny del 1366, emanò diversi decreti per difendere l’inglese dall’avanzata sovversiva dell’irlandese, imponendo l’uso del primo e arrivando a criminalizzare il secondo. Tra le altre misure, lo statuto minacciava di confiscare le terre a chiunque usasse “l’irlandese, contro le ordinanze”. Queste politiche furono perfino giustificate sul piano letterario e filosofico dal poeta Edmund Spenser (1552-1599), autore della Regina delle fate e lui stesso colono nel Munster. Nel suo pamphlet A view of the present state of Ireland del 1596 sosteneva che lingua e attribuzione dei nomi fossero gli strumenti ideali per cancellare la memoria irlandese: “È sempre stata usanza del conquistatore disprezzare la lingua del conquistato e costringerlo con ogni mezzo a imparare la propria”.
La marginalizzazione dell’irlandese nella sua terra non fu un processo spontaneo, ma il risultato di scelte politiche e strategie educative. L’Irlanda è la prima colonia inglese, una sorta di laboratorio per quelle successive. Quanto valeva per l’Irlanda e per le colonie britanniche si è verificato anche in altri sistemi coloniali: spagnoli, francesi o portoghesi, fino all’occupazione giapponese della Corea tra il 1910 e il 1945. Ed è avvenuto in forme di colonialismo interno, come la soppressione norvegese del sami. L’eliminazione delle lingue dei dominati e la promozione della lingua del potere facevano parte integrante del sistema educativo che accompagnava la conquista.
La repressione linguistica non era un capriccio estetico. Spenser spiegava chiaramente che colonizzare la lingua e i nomi degli irlandesi li avrebbe privati della loro identità, indebolendo la resistenza e facilitando la conquista e la sottomissione. La dominazione linguistica è più economica ed efficace di quella militare: basta conquistare le menti delle élite, che poi diffonderanno la sottomissione tra la popolazione. Le élite diventano parte dell’esercito linguistico del conquistatore.
Per la sua centralità nella costruzione del Regno Unito moderno, l’India diventò, ancor più dell’Irlanda, un laboratorio sociale, i cui risultati furono poi esportati in altre colonie in Asia e in Africa. Thomas Babington Macaulay, membro del Consiglio supremo dell’India dal 1834 al 1838, contribuì a riformare il sistema educativo coloniale e a redigere il codice penale: due iniziative di grande impatto. Nel suo celebre Minute on indian education (Relazione sull’istruzione indiana) del 1835, propose di sostituire il sanscrito e il persiano con l’inglese come lingua dell’insegnamento, per formare una classe di “interpreti tra noi e le moltitudini che governiamo, una classe di persone indiane per sangue e colore, ma inglesi nei gusti, opinioni, morale e intelletto”.
Macaulay vedeva in questa nuova educazione linguistica il mezzo per instaurare “uno stato civilizzato in cui i valori e i riferimenti siano quelli britannici e in cui ciascuno, qualunque sia la sua origine, abbia un interesse e una parte”. Un secolo più tardi, le sue parole furono riprese nel Kenya coloniale dal governatore britannico Philip Mitchell, che impose il dominio dell’inglese nell’istruzione africana come crociata morale a supporto di quella armata contro l’Esercito della terra e della libertà keniano, il movimento di liberazione che i britannici chiamavano mau mau.
Nel 1879 il capitano Richard Henry Pratt fondò in Pennsylvania, a meno di venti miglia dalla sede del governo dello stato a Harrisburg, la famigerata Carlisle indian industrial school, dove mise a punto una variante del metodo per i bambini nativi americani. Nel 1892 riassumeva così la filosofia della scuola: “Uccidere l’indiano in lui e salvare l’uomo”. Il suo programma seguiva lo stesso schema coloniale: sradicare alcuni dalla loro lingua madre, parlata dalla maggioranza del popolo, plasmarli nella lingua del conquistatore e poi usarli contro le masse governate.
Nel suo libro Come l’Europa ha sottosviluppato l’Africa, lo storico guyanese Walter Rodney cita Pierre Foncin, uno dei fondatori dell’Alliance française, istituzione creata appositamente nel 1883 per diffondere la lingua nazionale nelle colonie e all’estero, che fu chiarissimo: “È necessario unire le colonie alla metropoli in un solidissimo legame psicologico, immaginando il giorno in cui la loro emancipazione progressista si realizzerà nella forma di una federazione, com’è probabile. Cosicché diventino e rimangano francesi in lingua, pensiero e spirito”.
L’obiettivo era palese. Le politiche educative imperiali miravano a colonizzare le menti, a partire dalle élite dei colonizzati. Il successo di queste strategie è evidente. Una variante del caso irlandese – dove, anche dopo l’indipendenza, gli intellettuali parlano meglio la lingua del conquistatore che le lingue autoctone – si ritrova in qualsiasi contesto postcoloniale. In Africa, l’identità del continente viene descritta addirittura in termini di “eurofonia”: principalmente anglofona, francofona e lusofona.
L’istruzione deve trasmettere una conoscenza capace d’immaginare palazzi più inclusivi, dove il mio essere renda possibile il tuo, e il tuo il mio
Anche quando le élite sono nazionaliste e rivendicano l’indipendenza, spesso trovano più naturale esprimere indignazione e speranze nelle lingue del conquistatore. Il 90 per cento dei fondi dedicati all’insegnamento della lingua è speso per rafforzare le lingue imperiali. Eppure il 90 per cento della popolazione parla ancora lingue africane. Alcuni governi le considerano nemiche del progresso, convinti che quelle imperiali siano la porta d’accesso alla modernità globale.
In condizioni normali suonerebbe assurdo sentir dire che la letteratura francese può essere scritta solo in giapponese, o quella inglese in isizulu, o sentir domandare a uno scrittore francese che scrive in francese: “Perché in francese?”. O a un autore inglese che scrive in inglese: “Perché non in zulu?”. Eppure dagli scrittori africani e da quelli provenienti da paesi già colonizzati ci si aspetta questo.
Com’è nata questa assurdità? Non è che alcune lingue siano più “lingue” di altre. Anzi, conoscere più lingue di solito arricchisce chi le parla. Ma nei contesti coloniali, o in qualsiasi situazione di oppressione, non si è mai solo aggiunto una lingua a quelle già presenti. Per il conquistatore non bastava introdurre un nuovo idioma: le lingue imperiali dovevano crescere sulla tomba di quelle dei dominati. La morte delle lingue africane dava vita a quelle europee. Perché la lingua imperiale esistesse, quella del colonizzato doveva cessare di esistere.
Queste due condizioni non derivavano dalla natura delle lingue coinvolte, ma furono prodotte intenzionalmente dal modo in cui le lingue imperiali erano imposte. In Decolonizzare la mente ho raccontato delle punizioni corporali inflitte ai bambini africani sorpresi a parlare la loro lingua a scuola, costretti a portare al collo un cartello che ne proclamava la stupidità. In alcuni casi, il colpevole era costretto a ingoiare sporcizia, associando così le lingue africane alla criminalità, al dolore e all’immondizia.
E questo non succedeva solo in Africa.
Nel 2015, nella sua testimonianza davanti alla commissione di Waitangi sulle esperienze scolastiche in Nuova Zelanda, il politico maori Dover Samuels ha raccontato una storia simile. Se eri sorpreso a parlare maori a scuola, ha detto, il maestro “ti trascinava davanti a tutta la classe e ti ordinava di piegarti. Ti piegavi e lui si metteva dietro per darti, come dicevano allora, ‘sei di quelle buone’. Molte volte non lasciava solo lividi sulle cosce, ma faceva uscire sangue”.
Tra il 1870 e il 1970, periodo noto come “il secolo brutale”, anche i sami in Norvegia subirono esperienze simili, con l’obiettivo di renderli fluenti in norvegese. La violenza contro le lingue native è una costante nella diffusione dell’inglese in Irlanda, Scozia e Galles. In Galles, chi parlava gallese a scuola veniva messo davanti alla classe con al collo un cartello con scritto “non in gallese”. La violenza era centrale per creare il vincolo psicologico di lingua, cultura e pensiero: colonie della mente. Ci si sarebbe aspettato che, dopo la liberazione e l’indipendenza, le nuove nazioni smantellassero almeno quello squilibrio di potere. Ma è proprio questo il potere delle colonie della mente: viene interiorizzata la negazione di sé come lente attraverso cui guardare il mondo.
È un caso classico di condizionamento, come si legge nei manuali di psicologia comportamentale. Il condizionamento è un sistema di ricompensa e punizione: punizione per i comportamenti indesiderati e ricompensa per quelli desiderati. Viene applicato, in vari gradi d’intensità, nell’educazione dei bambini o nell’addestramento degli animali. Il comportamento sgradito si associa alla punizione, quindi al dolore; quello gradito alla ricompensa, quindi al piacere. Il soggetto del condizionamento, bambino o animale, finisce per evitare automaticamente l’area del dolore, il comportamento proibito, e gravitare verso lo spazio del piacere, quello richiesto. Nell’apprendimento, si riceveva un elogio se si eccelleva nella lingua del conquistatore, ma vergogna e dolore se si pronunciava anche una sola parola nella propria lingua.
Il trauma subìto dalla prima generazione condizionata può trasmettersi come comportamento normale, che non richiede spiegazioni o giustificazioni; le generazioni successive potrebbero addirittura non capire perché associano il dolore alle lingue native e il piacere alle lingue e culture straniere. Le élite e i responsabili dell’istruzione nelle società già colonizzate danno per scontato che le lingue europee (imperiali) siano intrinsecamente globali e le più adatte a veicolare conoscenza e universalità. Questa convinzione può spiegare perché la criminalizzazione delle lingue africane continui ancora, amministrata e regolata da educatori africani che non colgono l’ironia di ciò che fanno: un africano che ne punisce un altro su ordine di un governo africano per aver parlato una lingua africana.
Il trauma generato inizialmente dal sistema scolastico coloniale viene così trasmesso, ereditato. L’anomalia si normalizza. La colonia della mente impedisce innovazioni educative significative, capaci di rafforzare l’identità nazionale. Il controllo del colonizzatore sul colonizzato è insito nella disuguaglianza del sistema educativo. L’istruzione può trasformarsi in un processo che oscura il processo cognitivo e la conoscenza stessa.
È importante distinguere tra istruzione e conoscenza. La conoscenza è un processo continuo, un arricchimento costante di ciò che già sappiamo, in un gioco dialettico tra influenza reciproca e illuminazione. Il processo cognitivo naturale parte dal noto e si dirige verso l’ignoto. Ogni nuovo passo rende parte dell’ignoto conoscibile e dunque accresce ciò che già si conosce. Il nuovo noto arricchisce il noto precedente e così via, in un cammino continuo di connessioni dialetticamente intrecciate. La conoscenza del mondo comincia da dove ci troviamo.
L’istruzione, invece, è un modo per condizionare le persone a vivere all’interno di una determinata società. Può prevedere un trasferimento di conoscenze, ma si tratta di conoscenze condizionate, plasmate dalla visione del mondo dell’educatore e del sistema educativo. Un’analisi attenta del processo coloniale come caso di rapporto tra dominanti e dominati, tra padrone e servo, può essere utile per ripensare a un’istruzione equilibrata e inclusiva. L’istruzione coloniale non è mai stata né equilibrata né inclusiva.
Il processo coloniale ha sempre impedito il normale processo cognitivo. L’Europa imperiale, con i suoi nomi, la sua geografia, la sua storia, il suo sapere, era il punto di partenza obbligato del percorso educativo del colonizzato. In breve, in ambito scolastico la colonizzazione si è sempre basata sulla negazione dello spazio colonizzato come punto di partenza. In campo linguistico, significava negare alle lingue native lo status di fonti di sapere o di strumenti per la ricerca intellettuale e artistica. La mancanza di radici nella propria cultura genera un senso d’incertezza permanente nei confronti del luogo in cui si vive, delle proprie capacità e perfino dei propri successi.
La decolonizzazione deve stare al centro di qualsiasi forma d’istruzione equilibrata e inclusiva. Sia gli ex colonizzatori sia gli ex colonizzati sono stati plasmati da un sistema che ha modellato il mondo negli ultimi quattrocento anni. La conoscenza comincia da dove siamo. Le nostre lingue sono fonti legittime di sapere. Tutti amiamo le stelle, ma non dobbiamo emigrare in Europa, fisicamente o metaforicamente, per raggiungerle.
Nel caso delle lingue, dobbiamo rifiutare l’idea diffusa che il problema, in un paese o nel mondo, sia la molteplicità di lingue, culture e perfino religioni. Il problema è nella loro relazione gerarchica. La mia lingua sta sopra la tua. La mia cultura è superiore alla tua. Oppure: la mia lingua è globale, la tua è locale, e per imparare la mia devi rinunciare alla tua. Pensare che il mio dio sia “più dio” del tuo è pura blasfemia. Questa visione porta alcuni a considerare la propria lingua intrinsecamente più “lingua” delle altre, rivendicando così un rango superiore in termini di sapere e di potere. È ciò che chiamo feudalesimo linguistico.
Tutte le lingue, grandi o piccole, hanno molto da offrire alla nostra comune umanità, se liberate dal feudalesimo linguistico. Le politiche educative dovrebbero fondarsi sul principio che tutte le lingue sono scrigni di storia, bellezza e possibilità. Hanno qualcosa da scambiarsi, se la loro relazione è quella di una rete basata sul dare e avere reciproco. Anche se una lingua diventa veicolo di comunicazione tra molte altre, non dovrebbe esserlo per una presunta superiorità nazionale o globale, ma solo per necessità. E in ogni caso non dovrebbe crescere sulla tomba delle altre lingue. Un’istruzione equilibrata e inclusiva richiede un nuovo slogan: rete, non gerarchia. Dobbiamo capire che tutte le lingue, grandi e piccole, condividono una lingua universale che si chiama traduzione.
L’istruzione non dovrebbe mai condurre all’auto-isolamento linguistico e culturale. Voglio connettermi al mondo, ma ciò non significa che debba negare la mia base di partenza. Voglio connettermi al mondo da dove mi trovo. Credo che lo scopo della scuola sia una conoscenza che dia forza, che riveli i nostri legami reali con il mondo, ma a partire dalla nostra base. Da lì esploriamo il mondo; dal mondo riportiamo ciò che arricchisce la nostra base. Questa, a mio avviso, è la vera sfida nell’organizzare e trasmettere la conoscenza in un sistema educativo inclusivo ed equilibrato. Dobbiamo respingere l’idea che lo splendore non sia tale se non nasce dalla miseria, che i palazzi non siano palazzi se non sono costruiti sulle prigioni, che i miei milioni non siano veri se non li ho strappati a un milione di poveri. Che per esistere io, gli altri debbano cessare di esistere. L’istruzione deve trasmettere una conoscenza capace d’immaginare palazzi più inclusivi, dove il mio essere renda possibile il tuo, e il tuo il mio. ◆ svb
Ngũgĩ wa Thiong’o era uno scrittore e drammaturgo keniano. Nato nel 1938 a Limuru, in Kenya, è morto il 28 maggio 2025 negli Stati Uniti. Insegnava letterature comparate alla University of California di Irvine. Questo saggio è uscito sul quotidiano britannico The Guardian con il titolo “Take away our language and we will forget who we are”.
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Questo articolo è uscito sul numero 1637 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati